26/01/2016
336. AUSCHWITZ – GIORNATA DELLA MEMORIA 27 gennaio di Rosino Gibellini
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È indicativo che il filosofo Theodor W. Adorno nella sua Dialettica negativa usi la formula: “Dopo Hegel e Auschwitz…”. Hegel è qui citato come il vertice e la sintesi della filosofia moderna borghese, che riconcilia nell’astrazione dell’Idea le contraddizioni della realtà; ma la sola citazione di Auschwitz, assunto come cifra del male assoluto, accanto e dopo quella di Hegel, suona già da sé critica agli astratti schemi razionalistici della riconciliazione nel concetto. Per questo la Dialettica segna il passo al polo dell’antitesi e rimane solo negativa.

Il nome di Auschwitz evoca i sei milioni di ebrei assassinati in quel Lager e in quelli di Treblinka, Maydanek, Bergen-Belsen, e rimanda alla categoria filosofica e teologica di Olocausto, termine entrato in una sconfinata letteratura, che va anche sotto il nome, pure biblico, di Shoah (catastrofe).

Il termine equivalente di olocausto si trova già nella Bibbia, nei primi versetti del cap. 22 della Genesi: “Dio mise alla prova Abramo e gli disse: – Abramo, Abramo! Rispose: – Eccomi! Riprese: – Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”. Sono note le pagine teologiche, letterarie e filosofiche che il tema del sacrificio di Isacco chiesto da Dio a Abramo hanno suggerito a Lutero, Kierkegaard, Kolakowski e l’ispirazione che ne hanno tratto artisti come Rembrandt.

Ora, il termine biblico olocausto – che significa distruzione completa della vittima – è stato assunto dal pensiero ebraico del dopo-guerra come categoria per designare l’orrendo genocidio del popolo ebraico intentato e perpetrato dal nazismo hitleriano. Ne è nato tutto un filone di riflessione che va sotto il nome di Teologia dell’Olocausto e che ha i suoi principali rappresentanti in Richard Rubenstein e in Emil Fackenheim.

Ha scritto Elie Wiesel, uno dei principali rappresentanti dell’ebraismo americano «Il genocidio è stato così incredibile, così fuori dall’ordinario, che deve rimanere come fatto nella sua incomparabile irripetibilità». L’Olocausto è assunto come cifra del male assoluto. Perché? Il genocidio del popolo ebraico è assurdo – spiegano i filosofi e i teologi dell’Olocausto – come nessun altro fatto storico. Ciò che evoca, ad esempio, il nome di Hiroshima si potrebbe spiegare, se spiegazione è possibile, con la volontà di por fine ad una guerra; i lunghi anni della schiavitù dei neri americani si potrebbero spiegare con i vantaggi economici che un tale disumano sistema poteva portare con sé per una ristretta classe di privilegiati; ma il genocidio del popolo ebraico che senso aveva? Perché tanta sofferenza? E, inoltre, fanno osservare i pensatori ebraici, esso era diretto a sradicare dalla storia quel popolo, il cui genio religioso si era espresso nella Bibbia, il cui tema centrale è, appunto, la presenza di Dio nella storia. Proprio questo popolo si voleva radiare, il popolo dell’alleanza, dell’elezione, il popolo che nelle sue feste celebra gli interventi di liberazione del Dio della storia. Questa è l’assurdità dell’Olocausto. Sorge, allora, la domanda: dov’era Dio quando funzionavano i forni crematori? Le conseguenze che la filosofia e la teologia ebraica hanno derivato dalla incomparabile irripetibilità dell’Olocausto sono divaricanti.

Richard Rubenstein ha dedicato al tema un’opera che reca il titolo After Auschwitz (Dopo Auschwitz) (Indianapolis 1966), un libro che si inserisce in quella corrente di pensiero che è andata sotto il nome di “teologia della morte di Dio”. Per Rubenstein, dopo Auschwitz non è più possibile credere in Dio; dopo Auschwitz, l’ebreo deve rinunciare ad attendere il Messia. Con un sentimento di sconsolata solitudine Rubenstein scrive: «C’è un solo messia che ci redime dall’ironia, dal lavoro e dalle angustie dell’esistenza umana. Egli verrà sicuramente. Ma egli è l’Angelo della Morte. La morte è il vero messia e la terra dei morti è il luogo del vero regno di Dio. Solo nella morte noi siamo redenti dalla vicissitudini dell’esistenza umana» (After Auschwitz, 255). La posizione di Rubenstein è certamente minoritaria. Inoltre Rubenstein ha mitigato in seguito la sua posizione radicale, interpetando il Santo Nulla come la misteriosità di Dio, come mi ha spiegato anche nell’incontro ad una sessione della America Academy of Religion (Atlanta, USA).

Il filosofo e il teologo che più di ogni altro ha interpretato in senso religioso – di contro all’interpretazione areligiosa di Rubenstein – la lezione dell’Olocausto è Emil Fackenheim. Di origine tedesca – è nato ad Halle nel 1916 –, scampato in tempo dalla furia della Germania nazista, riparò a Toronto, dove insegnava nella facoltà di filosofia dell’università. Egli ha condensato le sue riflessioni filosofiche e teologiche sul tema dell’Olocausto in God’s Presence in History (New York 1970), che mi fu segnalato dallo stesso Fackenheim nell’incontro che ebbi con lui nella città canadese sulle rive dell’Ontario nel 1973. Il libro è disponibile anche in traduzione italiana: La presenza di Dio nella storia. Saggio di teologia ebraica (Queriniana 1977). Lo si può ripercorrere nella sua dolente autobiografia postuma (redatta dopo il suo trasferimento in Israele): Un epitaffio per l’ebraismo tedesco. Da Halle a Gerusalemme (Giuntina 2010).

Per Fackenheim, a differenza di Rubenstein, dopo Auschwitz, dopo l’Olocausto, non si può non credere in Dio. Rinunciare alla fede nel Dio della Bibbia vorrebbe dire per un ebreo non essere solidale con le vittime dell’Olocausto, rinunciare alla propria tradizione etnica e religiosa, e quindi, in definitiva, dare ragione alla furia cieca di distruzione che era all’opera ad Auschwitz e negli altri campi di sterminio. La fede diventa anche una questione di sopravvivenza. Dio è ancora presente nella storia, perché il popolo di Israele vive: Am Yisrael Chai! Anche dopo Auschwitz la speranza non può morire. Si direbbe che dopo Auschwitz la cultura di matrice ebraica ha optato ancora più decisamente per la speranza: basterebbe citare il libro di Edmond Fleg, Nous de l’espérance (Noi, quelli della speranza) (Angers 1949) e soprattutto la vasta opera di Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung (Il principio della speranza), completata nel 1959.

L’Olocausto, o Shoah (nome ormai da preferire), ripropone in termini contemporanei e dilatati la questione biblica di Giobbe, il vecchio problema della teodicea, sul perché del male e della sua indomabilità: un tema su cui si è misurata la teologia cristiana con Il Dio crocifisso del teologo evangelico Jürgen Moltmann e la filosofia con i Dialoghi con il diavolo del marxista polacco dissidente Kolakowski.

Da ultimo, ricordiamo il discorso di papa Bendetto nella sua visita ad Auschwitz, “in questo luogo di orrore”, il 28 maggio del 2006, in cui si interrogava: «Dov’era Dio?»: «Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?». Papa Francesco nel discorso della recente visita alla Sinagoga di Roma ha ricordato la Shoah come perenne ammonimento per ogni forma di antisemitismo e antigiudaismo».

Un’antica espressione di fede ebraica dice: “Io credo in piena fede nella venuta del Messia”. Il più grande filosofo della tradizione ebraica, Maimonide (sec. XII), precisò la formula così: «Io credo in piena fede nella venuta del Messia, e, benché egli tardi a venire, tuttavia io credo». Auschwitz ha dimostrato al popolo ebraico che l’aggiunta era necessaria; ma pure – ed è una lezione di valore universale – che la forza della speranza è più forte delle forze demoniache che agiscono nella storia dell’uomo.

 

 

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