16/03/2012
216. CIÒ CHE IL CONCILIO VOLLE La controversia sul futuro della Chiesa
è anche una contesa sull’interpretazione del concilio Vaticano II
apertosi cinquant’anni fa
di Jan-Heiner Tück * (Facoltà di teologia dell’Università di Vienna)
Ingrandisci carattere Rimpicciolisci carattere

 

Il concilio arrivò con un ritardo di cinquant’anni. Ha dato risposte a domande che nessuno più ha posto. I vescovi riuniti in quel momento appartenevano in modo preponderante alla borghesia e hanno trascurato la situazione oppressiva dei poveri. Questo bilancio provocatorio è stato complessivamente formulato alcuni anni fa sulla rivista Concilium dal teologo della liberazione José Comblin (1932-2011), recentemente scomparso.

Il grande interesse che attualmente il concilio suscita sembra contraddire questa opinione. Innegabilmente, cinquant’anni dopo, si dà ancora fiducia alle risposte date allora. Ciò lo si ritrova, in parte, nel dibattito intorno alla Fraternità sacerdotale San Pio X e alla critica che questa ha mosso alle affermazioni centrali del concilio. La questione tradizionalista della libertà religiosa, l’apertura della chiesa al dialogo ecumenico e interreligioso hanno ricreato la consapevolezza che i documenti del concilio sono ineluttabili per la comprensione che di sé ha la chiesa. D’altra parte c’è la speranza che il concilio fornisca degli orientamenti su come affrontare le richieste di riforma che il memorandum dei trecento professori di teologia 1, ma anche l’Iniziativa dei parroci austriaci 2, hanno sollevato.

Tuttavia, ci si può chiedere con Comblin, come la storia della chiesa cattolica sarebbe andata se sotto Pio X l’antimodernismo paralizzante fosse stato precocemente evitato, se la chiesa già agli inizi del XX secolo avesse avviato un potente autorinnovamento, e avesse portato a termine l’apertura ecumenica ed intrapreso il dialogo con la modernità. La domanda “Che cosa sarebbe accaduto se?” può essere ipotetica. Ma può salvarci dall’illusione che tutto sarebbe dovuto succedere così come è risultato e può accrescere la consapevolezza degli spazi di manovra non sfruttati. Tuttavia un simile sguardo sulle cose genera delle emozioni nostalgiche.


“Maestro dell’impossibile”

L’anziano papa Giovanni XXIII – seguendo un pensiero spontaneo e contro l’opposizione della Curia – nel 1959 aveva annunciato un concilio generale. Egli seguì in quella occasione l’ispirazione dello Spirito, che Peter Hünermann ha recentemente chiamato il “Maestro dell’impossibile”. Giovanni XXIII non aveva alcuna idea precisa su come il concilio dovesse svolgersi, tuttavia si diede alcuni obiettivi: avrebbe dovuto essere orientato “pastoralmente” e dispensato dal porre questioni magisteriali e disciplinari. Doveva promuovere l’unità dei cristiani e dare una versione attuale della fede, senza allineare questa al momento presente. Aggiornamento era la parola d’ordine del papa, che la fece chiaramente intendere. Ai “profeti di sventura”, che dipingono il mondo con colori pessimistici, il papa comunicò nel discorso all’apertura del concilio nell’ottobre 1962 il suo rifiuto. Parlò di “nuova Pentecoste” 3 che avrebbe dovuto superare le barriere comunicative tra chiesa e mondo, ma anche superare le stesse all’interno della chiesa.

Il concilio sarebbe giunto alla fine prima di cominciare. La Curia voleva che i padri conciliari confermassero solo i 73 schemi elaborati dalle commissioni preparatorie. Che essi si rifiutarono di farlo all’inizio della prima sessione, lo si può riconoscere come un atto carico di conseguenze di autoaffermazione episcopale. Essi discussero in aula conciliare le questioni all’ordine del giorno e lanciarono così un vero processo conciliare.

Anche la percezione che ha di sé la chiesa cambiò al concilio per la presenza di vescovi provenienti dall’America Latina, dall’Africa e dall’Asia. La chiesa eurocentrica, che aveva ancora dominato il concilio Vaticano I si era spezzata. I poveri e gli esclusi delle cosiddette chiese di missione non erano più solo oggetto di discussione, ma lo determinarono – anche se solo inizialmente. In questo bisogna dare ragione a Comblin. Karl Rahner parlò del concilio Vaticano II come della «prima autoattuazione ufficiale della chiesa in quanto chiesa mondiale» 4.


Gli “eretici” diventano “fratelli”

Già l’invito di osservatori non cattolici da parte del Segretariato per l’Unione dei cristiani, presieduto dal cardinal Agostino Bea, esercitò un’influenza non trascurabile sulle discussioni. Fa differenza che si parli degli altri, il che li porta anche discorsivamente a scomparire, o se si parla con loro e si ricerca un linguaggio che renda giustizia della comprensione che essi hanno di sé. Così da “eretici” e “scismatici” – questo è ancora il linguaggio del Codice di diritto ecclesiastico del 1917 – divennero “fratelli separati” nella fede.

Anche il rapporto con le altre religioni fu posto su nuove basi. Il concilio trae l’insegnamento dalla storia per condannare ogni forma di antisemitismo e riconosce l’ebraismo come radice del cristianesimo. Da “assassini di Dio” diventano i «fratelli prediletti e, in un certo modo […] i fratelli maggiori», come Giovanni Paolo II chiamò gli ebrei nella grande sinagoga di Roma nel 1986 5. Alle altre religioni viene riconosciuto che in esse si trovano elementi di verità e di santità. Alla fine, anche il confine tra credenti e non credenti non viene più tracciato in modo così netto: in quanto atei sono “uomini di buona volontà” in ricerca. L’ateismo moderno è riconosciuto «fra le realtà più gravi del nostro tempo» 6. Le varietà di ateismo vengono prese in considerazione in modo differenziato. Autocriticamente la chiesa si domanda se essa, per colpa propria, abbia bloccato ai non credenti l’accesso alla fede. Questo risveglio dialogico è attualmente di nuovo a rischio. Ci sono voci che desiderano una più rigorosa demarcazione del territorio e che invitano la chiesa ad essere alternativa rispetto al crescente pluralismo della tarda modernità. Questo certamente è associato al fatto che qui e là si è giunti in nome dell’apertura al dialogo ad un offuscamento di identità. Ma né il camaleontico adattamento alle tendenze del tempo, né la restaurazione antimodernista della chiesa come bastione di verità corrispondono alla preoccupazione fondamentale del concilio Vaticano II, che ha legato il ritorno alle fonti della Scrittura e della tradizione al senso vivo per i segni del tempo.

Il concilio ha preso decisioni vincolanti a livello di chiesa universale. La memoria di questo fatto è importante per il futuro della chiesa. Tuttavia è controverso il modo in cui leggere i documenti conciliari. Infatti il principio dell’interpretazione classica dei concili, per cui i documenti vanno letti secondo le interpretazioni dottrinali condannate, non regge al confronto con il concilio Vaticano II. Si sono volutamente evitate condanne dogmatiche ed è stato scelto un linguaggio espressivo pastorale. Inoltre, si tratta in non pochi documenti di testi di compromesso in cui si trovano affermazioni opposte e non sempre mediate.

Allo stato attuale, quindi, si confrontano tra loro diversi modi di lettura: per gli uni le riforme, avviate dal Vaticano II, non vanno molto lontano. Essi si richiamano allo spirito del concilio per andare oltre la lettera di alcuni testi. Per gli altri la dinamica del rinnovamento postconciliare è andata troppo lontano. Essi leggono i testi alla luce dei concili precedenti e cercano di indebolire gli impulsi alle riforme. Una terza interpretazione fa uso di una paziente rilettura dei documenti conciliari per trovarvi orientamenti volti ad una comprensione di sé da parte della chiesa. La controversia in corso sul futuro della chiesa è dunque anche una disputa sull’interpretazione del concilio.


La controversia tra Hünermann e Benedetto XVI

Così, quasi per coincidenza, Benedetto XVI, insieme ad Hans Küng uno dei pochi coattori del concilio ancora viventi, si è espresso nel suo primo messaggio natalizio del 2005 sulla questione dell’interpretazione del concilio. Il papa rifiuta le letture che sono sotto il segno della rottura e che pongono una cesura tra chiesa pre e postconciliare. Tali modi di leggere i documenti conciliari si ritrovano tanto a livello tradizionalista quanto liberale. Il papa stesso percorre una via di mezzo e promuove un’ermeneutica della riforma, anzi una comprensione e un’interpretazione della continuità negli aspetti fondamentali e del cambiamento sui singoli problemi che devono procedere insieme. Resta una questione aperta, tuttavia, sapere come una tale ermeneutica della riforma dovrebbe essere articolata.

Il “conflitto delle interpretazioni”, qui solo accennato, dimostra che cinquant’anni dopo il concilio ci ritroviamo in una transizione epocale. La memoria comunicativa, in grado di appoggiarsi su attori e testimoni del concilio e pertanto contare sulla tradizione orale, cede sempre più il passo alla memoria culturale, che si basa sul lavoro dei documenti adottati. Il teologo di Tubinga Peter Hünermann ha messo in luce nel 2005 lo stato costituzionale dei documenti del concilio e ha confrontato i testi con i documenti costituzionali. Ha così provocato una reazione papale che è stata scarsamente considerata. Poche settimane dopo, Benedetto XVI ha risposto a Hünermann nel suo discorso di Natale precedentemente citato. In un simile confronto «si fraintende in radice la natura di un concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne cerca una nuova. Ma la costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della chiesa viene dal Signore» 7.


Come deve essere una costituzione?

La differenza fatta dal papa non è stata ignorata da Peter Hünermann. Egli ha espressamente sottolineato che la legittimazione del concilio e della sua autorità sono sostanzialmente altro rispetto a quelle di una assemblea costituente in ambito statale. L’autorità dei vescovi viene da Gesù Cristo e in questo modo è diversa da quella dei rappresentanti eletti del popolo. Viceversa sembra che per il papa non meritino una discussione le somiglianze a cui ha accennato Hünermann: una profonda crisi come occasione della convocazione; l’alta rappresentatività del gruppo di esperti; il ricorso a tradizioni che segnano una via; il carattere di compromesso dei testi, che rendono il quadro generale, ma lasciano aperti gli spazi per la concreta elaborazione. Questi aspetti, che caratterizzano sia i testi costituzionali sia i documenti del concilio paiono trascurati dal papa, perché è interamente guidato dal sospetto che il confronto di Hünermann debba richiedere una lettura della rottura. E questo non è assolutamente il caso. Hünermann si pone al livello costituzionale del testo finale, per respingere delle letture selettive, che si appoggino o sulle affermazioni della minoranza conservatrice o su quelle della maggioranza progressista. L’esegesi “da cava”, che estrae singole parole chiave dai documenti per sostenere i propri punti di vista, la ritiene inadeguata. Almeno su questo punto il papa avrebbe potuto incontrarsi con il teologo di Tubinga.

Il confronto tra i testi costituzionali e i documenti del concilio Vaticano II mette in luce quanto abbiano valore i documenti del concilio per la comprensione che di sé ha la chiesa cattolica. Tra i sedici documenti approvati si possono trovare, per quanto riguarda il genere letterario, costituzioni, decreti e dichiarazioni. Le quattro costituzioni hanno il massimo peso a livello di magistero. Hanno detto cose fondamentali riguardo alla liturgia, alla chiesa, alla rivelazione e alla chiesa nella modernità.

In primo luogo vi è la costituzione sulla liturgia, Sacrosanctum concilium, in cui si trova la famosa espressione della liturgia come «culmine […] e fonte [della vita della chiesa]» (n. 10). La chiesa vive dell’ascolto della parola del vangelo e della celebrazione dei sacri misteri. Il rinnovamento liturgico postconciliare è il frutto maggiormente visibile del concilio: l’introduzione delle lingue nazionali, il cambiamento nella direzione celebrativa, il principio della partecipazione attiva di tutti i fedeli al servizio divino sono chiari segni di questo. I motivi del culto e del carattere di mistero della liturgia sembrano, in confronto a questo, finiti in secondo piano, sebbene il concilio sottolinei più volte che la attualizzazione del mysterium pasquale – che è sofferenza, morte e risurrezione di Gesù Cristo – formi il nucleo incandescente della azione liturgica della chiesa. Che attualmente si discuta una “riforma della riforma”, mostra che abbiamo ancora difficoltà a modellare una liturgia rinnovata.

La costituzione sulla chiesa, Lumen gentium, ha mutato la concezione controriformistica ristretta della chiesa come “società perfetta” (societas perfecta) gerarchicamente ordinata e l’ha descritta come mysterium, sacramento universale di salvezza. La chiesa non è fine a se stessa, viene da Cristo e deve testimoniare il suo messaggio al mondo oggi. Il concilio sottolinea per prima cosa la vocazione di tutti i battezzati, premettendo il capitolo sul popolo di Dio in cammino a quello sulla gerarchia ecclesiastica. Tutti hanno parte in forza del battesimo e della confermazione al sacerdozio regale di Gesù Cristo.

Le possibilità inerenti a questo motivo anche ecumenicamente importante del sacerdozio comune di tutti i fedeli sono quasi esaurite. Se tutti i fedeli – laici o chierici – testimoniassero in modo franco e disinvolto la loro fede in parole e azioni nei diversi contesti della società, la chiesa potrebbe essere presente oggi in modo diverso. La rinuncia ad una pastorale di sostegno clericalmente centrata è attesa da tempo. Nel capitolo sulla costituzione gerarchica della chiesa è stato ribadito il primato del papa (primazia giuridica), istituito dal concilio Vaticano I nel 1870, ma integrata dal principio della collegialità episcopale. La chiesa è una rete di chiese locali episcopalmente costituite tra loro in stretta comunione (communio). La chiesa non può essere compresa unilateralmente a partire dalla sua sede centrale. È importante riequilibrare ogni volta il rapporto tra chiesa universale e chiese locali.


Addio al baluardo

La costituzione sulla rivelazione, Dei Verbum, ha inaugurato una comprensione più profonda della rivelazione. Se prima la rivelazione è stata intesa come istruzione, come trasmissione di decreti e istruzioni divini, essa viene ora descritta come l’autocomunicazione storica di Dio – come una sorta di processo comunicativo, che introduce i credenti all’amicizia di Dio. Questa comprensione storica della rivelazione sarebbe oggi da dichiarare a chiare lettere riguardo agli abissi della storia umana di sofferenza e di colpa.

Allo stesso tempo la Dei Verbum si è espressa in modo differenziato sul rapporto tra Scrittura e tradizione e ha approvato l’uso dei metodi storico-critici, a lungo respinta dal magistero. Tuttavia, il concilio ha nello stesso tempo affidato agli esegeti il compito di leggere la Scrittura «con lo stesso Spirito con cui fu scritta» (n. 12), e di portare avanti una interpretazione teologica che comprenda la «viva tradizione di tutta la chiesa» (ibid.). L’esegesi come disciplina teologica si annullerebbe da sé se ignora questo requisito e si limitasse esclusivamente ad analisi storiografiche e filologiche.

La costituzione pastorale Gaudium et spes è infine classificata da alcuni come il più importante documento del concilio. Essa ha portato a compimento il dialogo aperto con la modernità e ha compreso le sfide che il progresso scientifico e tecnologico, la globalizzazione e la dinamica trasformativa delle società moderne comportano per la fede. La chiesa cattolica non viene più posta come un baluardo contro la modernità. Essa stessa si vede inserita nei processi di trasformazione ed è chiamata nei luoghi diversi della politica, dell’economia, della società, della scienza, e della cultura a testimoniare il vangelo. 

La ricuperata automodernizzazione della chiesa cattolica diventa allo stesso modo tangibile nella dichiarazione Dignitatis humanae, che riconosce in modo esplicito il diritto alla libertà di religione e di coscienza. Nel suo Syllabus errorum 8 del 1864 Pio IX aveva respinto tra gli errori del tempo anche le libertà religiosa e di coscienza. Eppure nel 1960 il cardinal Alfredo Ottaviani, come prefetto del Sant’Uffizio, più tardi Congregazione per la dottrina della fede, da Giovanni XXIII incaricato della preparazione del concilio, si espresse criticamente riguardo ad un nuovo liberalismo cattolico. A proposito del rapporto tra chiesa cattolica e stato, egli affermò: «Si può dire che la chiesa cattolica ha bisogno di due pesi e due misure. Perché dove essa governa, vuole limitare i diritti delle altri fedi, ma dove forma una minoranza di cittadini, vuole la parità di diritti come gli altri. La risposta è: in realtà, due pesi e due misure sono applicabili, una per la verità, l’altra per l’errore» 9.

Che il concilio abbia superato questa posizione, che fino ad oggi è mantenuta dalla Fraternità sacerdotale San Pio X, e abbia riconosciuto la libertà di religione e di coscienza come diritti umani, è una delle grandi conquiste del concilio. Questo non può essere messo in discussione.



_______________

* Jan-Heiner Tück (della regione del Nordrhein-Westfalen, 1967) ha studiato a Tubinga e Monaco. Laureatosi in teologia a Tubinga ha intrapreso la carriera accademica fino all’attuale cattedra di dogmatica alla facoltà cattolica di teologia dell’università di Vienna (Austria).

1.  Chiesa 2011: mettersi in cammino è necessario, sottoscritto per la gran parte da teologi tedeschi e pubblicato il 3 febbraio 2011 sulla Süddeutsche Zeitung di Monaco (Germania).

2.  Cf. l’atto fondativo e la conferenza stampa del 25 aprile 2006 al Café Landtmann di Vienna (Austria).

3.  Udienza generale di mercoledì, 24 ottobre 1962 
(cf. http://www.vatican.va/holy_father/john_xxiii/audiences/documents/hf_j-xxiii_aud_19621024_it.html).

4.  Interpretazione teologica fondamentale del concilio Vaticano II, in Sollecitudine per la chiesa. Nuovi saggi VIII, Paoline, Roma 1982, 344.

5.  Il Regno-documenti 9/1986, 279.

6.  Gaudium et spes 19.

7.  Udienza natalizia alla curia romana. Discorso (22 dicembre), in Il Regno-documenti 1/2006, 8.

8.  H. DENZINGER, Enchiridion Symbolorum, Dehoniane, Bologna 1995, nn. 2846s.

9.  «Dices fortasse: ergo ecclesia duo pondera habet et duas mensuras, quia ubi ipsa dominatur vult ut coërceantur dissidentes, ubi autem minoritatem civium constituit, non fert ut ipsa habeatur in inferiori condicione iuridica. Aperte respondendum est reapse esse adhibenda duo pondera, duasque mensuras, pro diversitate iurium et meritorum» (Institutiones iuris publici ecclesiastici, II: Ecclesia et Status, Typis polyglottis vaticanis, Roma 1960, 72-73 n. 201).



© Christ in der Gegenwart (Freiburg i. Br.) 6/2012.
© 2012 by Teologi@Internet
Traduzione dal tedesco della Redazione Queriniana
Forum teologico diretto da Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)

 

"
Teologi@Internet: giornale telematico fondato da Rosino Gibellini