15/04/2011
188. CRISTIANESIMO, SPERANZA, GIOIA Ciò a cui tendiamo è già presente in noi di Timothy Radcliffe
Ingrandisci carattere Rimpicciolisci carattere

1/ Una società bisognosa di speranza

Nei secoli passati la società occidentale è stata supportata dall’ottimismo illuminista, poi alimentato dai conseguimenti della Rivoluzione industriale. È come se fossimo stati trasportati da un’onda di inevitabile progresso. Questa fiducia fu scossa dalle due guerre mondiali del XX secolo, dall’orrore dell’olocausto e dall’atrocità delle bombe atomiche che uccisero centinaia di migliaia di civili innocenti a Nagasaki e Hiroshima. Quell’ottimismo ha avuto un’ultima provocatoria fioritura nei “favolosi” anni Sessanta, ma oggi i nostri giovani sono incerti del futuro e si trovano a dover affrontare le conseguenze potenzialmente catastrofiche dei cambiamenti climatici e dell’aumento di forme violente di fondamentalismo in ogni continente del pianeta.

Forse, dai tempi della peste in Europa, mai una società è stata così bisognosa di speranza come lo è la nostra. L’Illuminismo era sostenuto dalla fiducia in un futuro che si poteva creare, ma sfociò nella brutalità dei regimi del XX secolo che piegarono gli esseri umani al loro volere. Hugh Rayment-Pickard ha scritto: «Una volta che un piano c’è, dev’essere implementato e occorre controllare e gestire le risorse per realizzarlo. Devono essere “gestiti” anche coloro che non concordano con il piano o non vi collaborano. L’intero progetto di realizzare un futuro pianificato richiede l’imposizione di quella che Adorno e Horkheimer chiamano «ragione strumentale»: una razionalità controllante, che piega tutta la natura a servizio dei suoi obiettivi stabiliti» (H. Rayment-Pickard, The Myths of Time. From St Augustine to American Beauty, London 2004, 119).

La speranza cristiana spesso emerge quando quel progetto è tramontato e non scorgiamo più soluzioni. Il viaggio di Dante nel Paradiso ha inizio quando «la diritta via era smarrita» (Inferno, canto I). 

Personalmente, fui risvegliato a questa concezione della speranza al termine di una giornata in Ruanda, all’inizio del genocidio, dopo un terribile giorno di viaggio attraverso il paese in cui visitai un campo profughi e, soprattutto, mi imbattei in una corsia d’ospedale piena di bambini mutilati da mine antiuomo. Quando la sera raggiungemmo le nostre sorelle domenicane, che cosa potevo dire? Quali possibili parole di speranza si potevano pronunciare? Tuttavia, qualcosa bisognava fare. Ricordammo quello che disse Gesù la notte prima di morire, quando sembrava non esserci più alcun futuro se non il Golgota. Pose un atto che rimandava a una speranza che non poteva essere afferrata con parole, ma solo segnalata da gesti: «Questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi».



2/ Toccare con mano la speranza realizzata: ed ecco la gioia

La nostra sfida è quella di compiere gesti creativi che non solo parlino della nostra speranza, ma siano anche segni del fatto che ciò a cui aneliamo è già germinalmente vivo in noi. Conservo dentro di me il ricordo della vigilia di Natale del 1996, a cui presi parte con il domenicano Pedro Meca, cappellano dei senzatetto di Parigi. Ogni Natale costruisce una grande tenda al centro di Parigi in cui celebra la veglia per un migliaio di persone, su un altare di cartone, per coloro che non hanno alcun altro riparo. La gioia di quella festa fu un pregustare il futuro, quel Regno in cui nessuno subirà umiliazione, miseria o sofferenza poiché saremo a casa in Dio. Abbiamo bisogno di immaginazione e coraggio per compiere gesti simili, che indicano la nostra speranza in qualcosa che va oltre le parole. 

La gioia di quella vigilia di Natale non fu soltanto una piacevole emozione: essere allegri significa essere umanamente vivi. Il termine spagnolo alegria deriva dal latino e pare che in origine fosse applicato agli animali, in particolare ai cavalli: l’alacer equus era un cavallo vitale e vivace, traboccante di vita, abituato a correre e scalciare. La gioia cristiana è l’inizio del nostro condividere la vita divina. La gioia di Dio non è un’emozione divina: Dio è colui che è, è l’«Io sono» che Mosè incontrò nel deserto. Non a caso Meister Eckhart descrive la gioia di Dio come l’esuberanza di un cavallo al galoppo attorno al suo recinto. 

Questa gioia dovrebbe riversarsi nella nostra lode, come quando Davide danzò davanti all’arca: «Lodatelo con il suono del corno, lodatelo con l’arpa e la cetra. Lodatelo con tamburelli e danze, lodatelo sulle corde e con i flauti! Lodatelo con cimbali sonori, lodatelo con cimbali squillanti. Ogni vivente dia lode al Signore» (Sal 150,3-6).

Purtroppo, di solito la celebrazione dell’eucaristia domenicale è poco entusiasta. I vescovi non danzano più, come nel Medioevo, con il clero nelle loro cattedrali il mattino di Pasqua. Questa festività segnava l’inizio del ministero di Gesù, che trasformò l’acqua in vino. La sua gioia era la sua autorità, anche quando destò scandalo fra la gente celebrando insieme ai peccatori. Questa è anche per noi la principale autorità.

La gioia cristiana può essere opprimente se è un’allegria forzata. Nulla può essere più deprimente che sentirsi dire: «Sii felice perché Gesù ti ama». Molti giovani si sentono obbligati ad essere felici e dunque percepiscono i momenti di tristezza come un fallimento e un segno della loro inadeguatezza. La tristezza non viene facilmente riconosciuta a fronte di felicità “raggiungibili”. Per questo diviene a volte una potente fonte di vergogna e di solitudine nascosta. È questo uno dei motivi dell’epidemia di suicidi nel mondo.

Nei vangeli, tuttavia, il contrario della gioia non è l’afflizione. Le beatitudini recitano: «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati» (Mt 5,4). Il contrario di gioia nei vangeli è una durezza di cuore che ci isola tanto dalla felicità quanto dalla sofferenza altrui. Preghiamo affinché i nostri cuori di pietra possano essere rimossi e ci vengano dati cuori di carne. La pena ammorbidisce il cuore, scavando lo spazio per la gioia. Questa è la ragione per cui i santi più gioiosi, come Domenico e Francesco, furono anche i più tristi. Altrimenti, qualsiasi felicità alla quale possiamo aspirare non è che una fuga egoistica dalla nostra carne e dal nostro sangue.



© 2011 by Editrice Queriniana. Da: Concilium 2/2011
© 2011 by Teologi@Internet
Forum teologico diretto da Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)


 

"
Teologi@Internet: giornale telematico fondato da Rosino Gibellini