07/05/2010
165. La macina da mulino
Gesù è amico dei bambini e chiama in giudizio coloro che abusano di essi
di Thomas Söding (biblista della Ruhr Universität, Bochum, Germania, autore di Gesù e la Chiesa, Queriniana 2008)
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«Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare». Questa dura espressione del vangelo di Marco (9,42), conosciuta anche da Matteo e da Luca, acquista una terribile attualità nel dibattito sull’abuso sessuale dei bambini da parte di sacerdoti. È il primo anello di una catena di espressioni dure di giudizio: «Se la tua mano ti è motivo di scandalo…», «E se il tuo piede ti è motivo di scandalo…», «E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo…» (Mc 9,43-48). E solo un verbo fa seguito a ciò: “tagliare” e “gettare via”. Perché è meglio entrare in cielo mutilati che bruciare nel fuoco inestinguibile dell’inferno con il corpo intatto.

C’è stato un tempo in cui si potevano ancora ascoltare queste parole. Molto più forti diventavano le minacce e assai di più si rafforzavano i sensi di colpa. Per lungo tempo anche la gran parte dell’esegesi storico-critica si è rifiutata di credere che Gesù abbia potuto parlare del giudizio e di pene draconiane con una onestà brutale. Come si adattano poi le espressioni dell’annuncio dell’amore di Dio, della sua grazia e della misericordia? Rimane il sospetto che la chiesa primitiva abbia seguito un proprio risentimento e troppo volentieri abbia posto in bocca a Gesù una predica bellicosa sulle punizioni future, per disciplinare i credenti e per scoraggiare gli avversari.


Gesù critica i suoi discepoli

Ma se adesso e pubblicamente assistiamo a una catastrofe morale, si agita nella mente di molti l’immagine della macina da mulino. Non si adatta forse perfettamente al disastro dell’abuso sessuale dei bambini compiuto sotto il tetto della chiesa? Gesù era forse di un candore così disarmante da non aver criticato con severità profetica quanti usano del proprio potere per gratificare se stessi a costo dei deboli? Chi cerca una vera risposta deve per prima cosa interrogare precisamente il testo. A chi si rivolge Gesù? chi sono i piccoli? in cosa sta lo scandalo? per quale motivo la macina attorno al collo dei colpevoli? come si adatta l’immagine del gettare via il proprio occhio e del tagliare la mano e il piede? Le risposte a ciò non vengono da sole, né esegeticamente né esistentivamente.

In nessun altro passo nei vangeli si parla in modo così denso e tanto severamente di giudizio sui peccatori come nell’episodio della macina da mulino. Il contesto nel vangelo più antico rimanda alla critica di Gesù ai suoi discepoli senza eccezioni. Dopo che egli per la seconda volta ha preannunciato l’imminente passione (Mc 9,31), non viene in mente niente di meglio ai discepoli che discutere su chi sia il migliore tra loro. Dopo questo Gesù dà ad essi una prima lezione che capovolge ogni gerarchia: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35). La successiva lezione fa subito seguito alla prima. Giovanni si lamenta con Gesù di uno che scaccia i demoni nel suo nome senza appartenere al gruppo dei discepoli. Ma Gesù difende questo sconosciuto: «Chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9,40; Lc 9,50). E prosegue: «Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa» (Mc 9,41; Mt 10,42).


I piccoli

Subito dopo viene il detto sulla macina da mulino. Nell’esegesi la si è spesso interpretata come se le vittime fossero i discepoli. Così si ritrova, ad esempio, nell’edizione digitale della Bibbia (Quadro Bibel, http://www.quadro-bibel.de) il commento al passo parallelo di Mt 18,6: «L’espressione “questi piccoli” […] diventa ora indicazione dei cristiani: essi sono poco considerati, impotenti, e fanno affidamento sull’aiuto [di Dio]». Questa spiegazione è minimizzare il vangelo, quanto più severa è la persecuzione dei discepoli a causa della loro fede, allora come oggi. Nel discorso sul monte Gesù ha parole di consolazione e di promessa per coloro che, a causa della loro fede, si ritrovano vituperati, umiliati, maltrattati (Mt 5,11s.; Lc 6,22s.).

In questo passo però c’è dell’altro. Come i discepoli devono accettare che vi siano persone al di fuori della loro cerchia che si pongono dalla parte di Gesù e ricevono da lui la forza per aiutare altri, così devono anche riconoscere che esistono altre persone che sono piccole ma credono, e che essi non possono ferire. Il testo si armonizza solo se a questo punto i discepoli preventivamente reagiscono alla gravità mortale della situazione, in cui si trovano a motivo della loro sequela e a causa dell’importanza che essi hanno per Gesù e per il vangelo del regno di Dio. Così sono considerati anche loro quando Gesù mette in guardia susseguentemente dagli sguardi di desiderio, dal tocco bramoso e dalla via di concupiscenza.

Ma chi sono i «piccoli che credono in me» e a cui non si può dare nessuna occasione di scandalo? Il giudizio dell’esegesi è spesso che, in origine, la fede non c’entrasse niente. Allora sussiste la possibilità che Gesù abbia pensato, in senso generale, ai poveri e a deboli, agli sfruttati e a quanti hanno bisogno di protezione, alle vedove e agli orfani, alle molte persone dunque in Israele che non potevano difendersi con le proprie forze e avevano particolarmente bisogno di assistenza.

L’amore particolare di Gesù valeva senza ombra di dubbio per queste persone. Ma chi dice che Gesù non abbia potuto parlare anche della fede? Se questo di fatto è sempre stato un tema o lo sia diventato successivamente alla Pasqua, anche se l’aggiunta dell’“in me” da parte dei manoscritti più antichi non è perfettamente al riparo da dubbi – chi sta davanti ai suoi occhi? si tratta dei semplici cristiani a differenza di quanti svolgono un ministero? o dei membri poveri della comunità rispetto a quelli ricchi? dei veri discepoli in contrapposizione ai falsi? Tutto ciò è semplicemente possibile. Il detto lo si può intendere a diversi gradi. Piuttosto, ci si può domandare ogni volta di nuovo chi è grande e chi è piccolo, chi è minacciato e da chi viene il pericolo.

Chi legge la parola di Gesù nel contesto non trascurerà in alcun modo un livello importante. Seguendo Marco, Matteo e Luca, Gesù, nella sua prima esortazione ai discepoli, non ha lasciato una parola, con cui si incoraggia a servirsi reciprocamente (Mc 9,35), ma ha sottolineato le parole con un gesto significativo: «E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”» (Mc 9,36s.).

Questi bambini non si possono dimenticare in nessun caso nella spiegazione dei “piccoli” del detto sulla macina da mulino. Secondo Matteo esso viene subito dopo la scena dell’abbraccio. Anche se la terminologia si sposta da “bambino” (Mt 18,1-5) ai “piccoli” (Mt 18,6-11), è chiaro l’insieme. In tutti i vangeli sinottici c’è una seconda scena che mostra l’amicizia di Gesù ai bambini: le madri e i padri portano i bambini da Gesù che li benedice; ma i discepoli vogliono impedirlo. Gesù tuttavia fa loro spazio: «Lasciate che i bambini vengano a me» (Mc 10,14). Quanto egli chiede lo pratica anche: «E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro» (Mc 10,16). Ma questo gesto di vicinanza e di amore non è solo un esempio, ma è un’esortazione: «Chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,15). È il rovescio della beatitudine di cui partecipano i poveri, gli affamati e coloro che piangono (Lc 6,20s.; Mt 5,3-10). Accogliere il regno di Dio come un bambino significa chiederlo a Dio, il Padre, e riceverlo nella fiducia di ottenere il meglio.


Il vero amico dei bambini

Gesù, l’amico dei bambini, non è sospettato da alcuno di essere uno che abusa di essi. Egli ha toccato i bambini, li ha abbracciati – ma mai in privato, sempre agli occhi della gente, sotto lo sguardo dei genitori, di fronte a Dio. Il fatto che Gesù sia amico dei bambini ben si adatta all’immagine del vangelo, ma esula dal tema di ciò che era solito nell’antichità. La Bibbia non ha niente a che vedere con l’interesse erotico dei filosofi greci alla formazione di studenti dotati, anche se la pederastia era piuttosto platonica. Nella scena con i bambini non si tratta nemmeno di educazione o di cura. È solo questione d’amore. Sullo sfondo c’è la realtà di Dio stesso che, secondo il Salmo 8, si compiace della lode che viene dal chiasso dei bambini. Infatti la bocca dei bimbi comunica la verità. Secondo Matteo Gesù fa valere questa verità fin nella settimana della passione e fin dentro al tempio, quando nel santuario dà voce ai bambini (Mt 21,1-17). Allo stesso modo, però, in cui Gesù si volge ad essi e li pone al centro, devono fare anche i suoi discepoli, che hanno perso la misura in pubblico di fronte alla sacra mania di grandezza.

Accogliere un bambino – è una cosa che si può cogliere concretamente nella parentalità, in un’adozione, nell’occuparsi dei bambini orfani, nel gioco, nello sport, nell’insegnamento, nel tempo passato insieme. Ma ciò può e deve anche mostrare fondamentalmente che è nell’immagine dell’essere umano, nell’impegno per i deboli, i poveri, i malati. Tutti questi effetti di umanizzazione sono stati suscitati dalle piccole scene dell’amico dei bambini, Gesù.

I bambini per Gesù non sono solo oggetti dell’amore e della premura. Sono pure soggetti dell’amore di Dio e della fede; sono esempi per tutti. Esiste una fede infantile che non può venir meno – per questa Gesù si fa garante con tutta la sua persona. È vero che questa fede deve svilupparsi e maturare, ma non permette alcuna distruzione intenzionale. La fede infantile è di esempio nella forza del suo fidarsi, ma è anche vulnerabile.


Lo scandalo

I piccoli che devono essere protetti dalla parte peggiore dei grandi sono, soprattutto, bambini. Sono specialmente i rappresentanti dei poveri e dei deboli, entro e al di fuori delle comunità giovanili e della chiesa. Ma rappresentano anche se stessi. Il fatto di credere in Gesù li rende ancor più fragili, perché non reagiscono alla violenza con altra violenza, ma preferiscono sopportare l’ingiustizia che farla. Soprattutto perché tutto si aspettano da coloro che sono alla sequela di Gesù, a motivo del suo amore per i bambini, tranne che di essere ingannati da questi a motivo della loro vita, del loro amore e della loro speranza. Per questo Gesù si interessa particolarmente di coloro che credono – non perché gli altri gli sarebbero uguali, ma perché sa quanto profonda si manifesta la ferita proprio in coloro che confidano in Dio, se sono vittime di abuso da parte di chi è al servizio di Dio e da quanti si reputano tali.

Dal verbo greco, con cui è descritto in Marco (9,42) e nei passi paralleli il misfatto dei grandi ai piccoli, deriva la parola “scandalo”. I malfattori causano uno scandalo nel peggior senso della parola. Un’adeguata traduzione non è facile. La traduzione unitaria della Bibbia tedesca (Einheitsübersetzung) del 1979 riporta “sedurre al male” e si fa riferimento evidente ad un disastro morale, ad un “peccato mortale” che è perpetrato da chi seduce, ma anche da chi si lascia sedurre. La Bibbia di Lutero indica nella revisione del 1985 l’essere “tratti all’abbandono” di qualcosa e ha davanti agli occhi non solo la fuoriuscita delle persone dalla chiesa, ma anche la perdita della fede, secondo la concezione fondamentale riformata che l’incredulità, intesa come rifiuto deciso di Dio, è il vero peccato. La Bibbia di Zurigo traduce, nella sua nuova versione del 2007, “spingere a cadere” e lega così il male personale, il collasso della fede, all’effetto di sgomento di un eclatante comportamento illecito.

Tutte queste traduzioni nel loro insieme non riescono a convincere. Anche “essere di oltraggio” ha bisogno di essere spiegato. Ma la grammatica aiuta a comprendere il senso dell’espressione e a riconoscere la durezza della critica. Chi è colpevole viene chiaramente chiamato per nome. Troppo spesso l’espressione non viene usata nel Nuovo Testamento. Se compare, esprime o tutto o niente. Far sorgere uno “scandalo” non intende solo creare un potente turbinio per raggiungere un effetto spettacolare, ma distruggere tutto. “Dare scandalo” significa muovere le persone a compiere una scelta, a fare un’azione, ad avere un pensiero e un sentimento che è loro intimamente contrario – e lasciar crollare un mondo, se si arriva a tanto.

In Marco e nei passi paralleli si differenzia l’autore e la vittima. I “piccoli”, che si scandalizzano perché ad essi è arrecato un oltraggio, alla fine non hanno colpe o sono poco colpevoli, ma nella loro debolezza non sono in grado di opporsi. Se hanno o non hanno parte al male, non è in discussione. Il vero problema è che essi si allontanano dalla fede a motivo della condotta degli altri e si confondono circa Dio. Se la fiducia fondamentale nel padre e nella madre, nel fratello o nella sorella è distrutta, se la fiducia fondamentale in Dio si rompe, se la fede viene sfruttata per compiere un abuso, o addirittura per nascondere una violenza – quale scandalo potrebbe essere più grande? Gesù non tiene segreto questo scandalo, ma lo mette allo scoperto. Non reagisce solo quando è troppo tardi. Egli vede venire il pericolo e vi reagisce in tutta chiarezza. Questo i suoi discepoli devono prenderlo come esempio.


La morale sessuale

A quale scandalo si pensa? Marco ha potuto immaginarsi che i discepoli di Gesù sfruttino la loro posizione di fiducia spirituale per soddisfare i propri bisogni sessuali a costo di altri, addirittura dei bambini? Gesù stesso ha ritenuto possibile una tale perversione?

Se si guarda al proseguimento del brano si può trovare una risposta. Come sempre il discorso è sullo scandalizzare, ma la prospettiva è cambiata. Prima si considerano le vittime, poi gli autori del reato. Dapprima in Marco Gesù mette in guardia i discepoli di non dare scandalo ai piccoli, in particolare ai bambini. Poi si parla dell’oltraggio, che i discepoli danno a loro stessi, o meglio, che ad essi dà la loro mano, il loro piede o il loro occhio.

La relazione è evidente. Il male deve essere sistemato alla radice. Mano, piede e occhio stanno come parti per il tutto: per l’essere umano, che prova la sensibilità e deve agire. Una parola simile nel discorso della montagna (Mt 5,29s.), che allo stesso modo parla di strappare l’occhio e di mozzare la mano, si riferisce alla sessualità: la trasgressione del sesto comandamento e il soddisfacimento dell’impulso sessuale al di fuori dell’ordine morale. Da questo parallelo si può dedurre che anche nel contesto del detto sulla macina da mulino si notano dei traviamenti sessuali. Se questi capitano a bambini, sono ancor più pesanti che tra adulti. La passione, con cui il Nuovo e l’Antico Testamento trattano le questioni della sessualità come domande etiche di elevato peso teologico, è fondata in ultima analisi nella somiglianza dell’essere umano a Dio, che Dio, come Gesù stesso sottolinea con lo sguardo rivolto al libro della Genesi (Mc 10,2-12), ha creato come uomo e donna (Gen 1,27), perché possano diventare «un’unica carne» (Gen 2,24).

L’accentuazione sulla moralità sessuale sottolinea la responsabilità puntuale dell’essere umano, ma può facilmente far disconoscere ciò che la moderna psicologia indica: che esistono disposizioni genetiche, che decidono sulle disposizioni sessuali, e disturbi patogeni dello sviluppo che portano a soprusi sessuali. Al meglio queste dimensioni acquistano chiarezza proprio nelle parole di giudizio di Gesù. Egli vede gli autori potenziali come personalità spaccate: essi diventano colpevoli per il fatto che si fanno vittime di quel che a loro comandano di fare la loro mano, il loro piede, il loro occhio. Questo non li scusa, ma li mette in guardia. Qui il detto della macina da mulino e il suo contesto non vertono solo sulla perversione sessuale. In ultima analisi si tratta di ogni eclatante rottura della fiducia, perpetrata da coloro che hanno responsabilità nel nome di Gesù e godono della fiducia.


Gesù non giustifica nessuna shar a

Una macina da mulino attorno al collo dei colpevoli – ciò soddisfa l’esigenza di vendetta umana. Già per la giustizia deve esserci la pena. Ma come è d’aiuto alle vittime? Forse la punizione crea un poco di soddisfazione, ma tuttavia non può far sì che nulla sia successo e riparare quel che è capitato.

Gesù rivolge lo sguardo agli autori di male nella penetrante parola del profeta. Parla di prevenzione. Perciò il pensiero va di nuovo dal fatto alla pulsione interiore: alla mano scandalosa, al piede che dà scandalo, all’occhio che è portatore di scandalo. Gesù non giustifica alcuna legge o shar a draconiana. Certamente egli ha inteso il detto in senso metaforico: il male deve essere estirpato con il ceppo e il tronco, e precisamente da coloro che lo hanno commesso o sono nella tentazione di farlo. Non bastano correzioni superficiali. Il male va tolto alla radice, e lo devono fare proprio coloro che si sono macchiati della colpa. Ma a quanti non combattono la loro cupidigia Gesù va incontro con i suoi avvertimenti molto seri. Ciò non significa che Gesù plaude alla pena capitale. E non si atteggia nemmeno da vendicatore. Egli non è un carnefice. È un errore grave della teologia cristiana immaginarsi le punizioni dell’inferno così che altri possano pascersi del tormento dei colpevoli.

Gesù pensa in modo diverso. Egli dice espressamente quanto catastrofico sia l’orrendo misfatto non solo per la vittima, ma anche per i perpetratori. Chi distrugge la vita di altre persone manda al fallimento anche la propria. Costui getta la rovina non solo su altri, ma su se stesso. Sullo sfondo del duro ammonimento sta il giudizio di Dio. Senza questo giudizio non c’è salvezza – per amore delle vittime, dei piccoli, delle vittime di abusi, dei maltrattati e di coloro che hanno subito violenza. Senza un chiaro messaggio di giudizio il male viene minimizzato. Anche questa è una lezione che va nuovamente appresa nella chiesa. Nessuno si augura il ritorno delle antiche prediche sull’inferno. Ma le dolci immagini di un Gesù che candidamente non è vincolato ad alcunché sono scipite.

Tuttavia la macina da mulino attorno al collo non è di per sé un’immagine del giudizio di Dio. Il detto viene coniato prima dell’ultimissimo giorno. Il giudizio di Dio serve alla salvezza. Le immagini di Gesù per il giudizio ultimo sono il fuoco, che brucia ma purifica, e l’acqua, che annega ma lava. Le persone da sole non possono catturare questa energia.


Al di là del peccato

Come è stato mal visto fino a poco tempo fa il messaggio sul giudizio di Gesù, oggi per alcuni la dura critica che viene dalle sue labbra ha un effetto consolatorio. L’ira per la falsità e l’occultamento, per la fiducia sfruttata e le promesse infrante, per la vittima senza colpe e l’ingiustizia che grida al cielo cerca uno sfogo. Ma chi si richiama a Gesù deve lasciarsi dire da lui quello che già è contenuto nel discorso sulla montagna: «Non giudicate, per non essere giudicati» (Mt 7,1; Lc 6,37). O ciò che egli dice a quelli che minacciano di morte l’adultera: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7).

Gesù non dice questo perché in qualche modo per lui non conta il peccato e la colpa, ma solo il bisogno e la disgrazia. Dice questo perché conosce un al di là del peccato: un perdono che deriva dall’amore stesso di Dio. La sua santa ira è il rovescio del suo amore appassionato per gli esseri umani, per le vittime come per quanti fanno il male. L’amore di Dio non è a buon mercato. Ma è senza confini. C’è speranza, anche per i colpevoli. Non contro il loro volere, ma per amore di Dio. Per questo Gesù si fa avanti non solo con parole dure, che sferzano l’ingiustizia, ma alla fine con il suo amore. Sta non solo per la giustizia, ma anche per l’amore di Dio. Così tanto di quel che è stato fatto ai piccoli è assolutamente irreparabile in questo mondo, in questa vita. Se non ci fosse la vita eterna, la morte e più alcuna risurrezione ci sarebbe da disperare.

E così disperano molti, nella chiesa, nei discepoli di Gesù, in Gesù stesso, in Dio. La loro causa deve essere difesa da chi non è né vittima né malfattore. Meritano di essere sostenuti quanti si preoccupano delle vittime. La realtà del tradimento e l’abisso dell’ipocrisia: al fondo della pratica di Gesù si configurano per prime le dimensioni dello scandalo dell’abuso, che di gran lunga non è finito e cova ancor di più di quanto pensato. L’indignazione, che ha prodotto, riflette la delusione per coloro ai quali è stata data fiducia proprio perché Gesù ha donato il suo cuore ai piccoli e, in questo modo, ha dato forma alla pratica della chiesa. Essere amici dei bambini è, difficilmente lo si riesca a credere, un frutto del cristianesimo. Gesù ha dato le misure: per il rapporto con i bambini, per quello con gli abusi – per sperare contro ogni speranza.



© 2010 by Christ in der Gegenwart. Katholische Wochenzeitschrift (25 Aprile 2010), Herder, Freiburg, Germania
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Traduzione dal tedesco a cura della Redazione Queriniana
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)
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