18/07/2014
291. RITORNO DEL PRINCIPIO MARIANO-PETRINO? di Marinella Perroni (Facoltà Sant’Anselmo, Roma)
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MPerroni

Senza nulla togliere alla stima, piena di trepidazione per il tanto atteso rinnovamento ecclesiale, con cui tutti (o quasi) nel mondo seguono con attenzione il quotidiano magistero di Papa Francesco, vorrei però esprimere la mia perplessità riguardo a una sua dichiarazione sulla questione delle donne. Francesco, non diversamente dai papi che lo hanno preceduto, ha affermato di riconoscere al principio mariano-petrino il valore di impianto ecclesiologico in grado di rendere finalmente giustizia della emarginazione delle donne dalla vita della chiesa. Egli sembra spingersi in realtà un po’ più avanti degli altri pontefici perché intravvede con chiarezza la necessità di un superamento dell’egemonia clericale. Infatti, nella Evangelii Gaudium, dopo aver riconosciuto, come aveva già fatto Paolo VI, che le domande profonde indotte dalle rivendicazioni dei diritti da parte delle donne  rappresentano per la chiesa una sfida che non può essere facilmente elusa, ma dopo aver anche confermato che non va messa in discussione l'esclusività maschile del sacerdozio, Papa Francesco afferma che identificare troppo potestà sacramentale e potere all’interno della chiesa può diventare motivo di particolare conflitto nonché, poco più avanti, che il sacerdozio non implica un’esaltazione che lo collochi in cima a tutto il resto [103s.]. Queste parole rimandano alla discussione sul processo di declericalizzazione della chiesa, avviata già dal Vaticano II e resasi ormai indispensabile per arrivare alla sua tanto attesa riforma. Francesco intravvede insomma la necessità di una profonda revisione dell’intera struttura ministeriale della chiesa, in modo tutto particolare del sacerdozio e, con esso, del rapporto tra potere del sacro e autorità ecclesiale. D’altra parte, non va dimenticato che accesso delle donne all’ordinazione e declericalizzazione di fatto non coincidono.

Non è comunque questo che qui mi preme porre al centro dell’attenzione bensì l’aperto  consenso da parte di Papa Francesco, ormai più volte dichiarato, nei confronti dell’impianto teologico mariano-petrino dell’ecclesiologia di Hans Urs von Balthasar e soprattutto il fatto che, come egli stesso ha detto nell’intervista al direttore del Corriere della sera, Ferruccio de Bortoli, sia suo desiderio dotare la chiesa di una “teologia della donna” formulata proprio intorno a questo doppio principio. Trovo questo preoccupante perché conferma una precisa forma di “teologia di genere” che, da sempre e in particolare nella tradizione cattolica, articola il rapporto maschile femminile in funzione della difesa di assetti di potere androcentrici.

La teologia cattolica deve la tematizzazione del principio mariano-petrino a Hans Urs von Balthasar (Il complesso antiromano. Come integrare il papato nella chiesa universale, 1974). La logica che presiede all’articolazione del duplice principio è quella della integrazione del principio giuridico (= petrino) all’interno del principio spirituale (=mariano), cioè dell’attività giuridica all’interno dell’onnicomprensiva maternità della chiesa. Sia il principio mariano che il principio petrino sono coestensivi nella chiesa: coestensività limitata del principio petrino, perché condizionato, rispetto a quello mariano, universalmente condizionante, irrepetibile, ma normativo per l’intera vita ecclesiale in quanto “sacerdozio universale”, communio di cui il ministero petrino rappresenta un modo deficiente. In breve: Pietro è membro della chiesa mariana, la sua è una vocazione e un ministero.

Il fondamento biblico di una tale argomentazione è, evidentemente, molto fragile: da Samuele ai grandi profeti, per non parlare del popolo di Israele nel suo insieme nel momento della promulgazione dell’alleanza, il «sì» è la risposta unica che rende possibile l’intervento di Dio. I «no», se ci sono stati, non entrano nel racconto della storia biblica che è tale proprio grazie ai «sì» di uomini e di donne. Comunque, non si tratta mai di «sì» che abbiano necessariamente a che fare con la maternità. Per l’evangelista Luca, di fatto, il «sì» di Maria è in stretta continuità con quelli delle grandi figure bibliche che hanno consentito l’attuazione del piano salvifico di Dio.

Quando von Balthasar propone il principio petrino-mariano, le investigazioni neotestamentarie su Pietro e Maria nel NT hanno già tracciato precise piste interpretative che troveranno poco dopo una felice sintesi in due testi come Pietro nel NT [1976] e Maria nel NT [1978]. Esse rappresentano un punto di arrivo ineludibile sul piano sia esegetico che ecumenico, piani ormai tra loro inscindibili, soprattutto riguardo a queste due figure: perché non tenerne il minimo conto? 

La testimonianza del Nuovo Testamento su Pietro e su Maria è molto chiara ed è contraddistinta da una sorta di sobrietà nei loro confronti che le successive generazioni cristiane hanno invece sovvertito, riservando all’uno e ancor più all’altra uno spazio specifico e, a volte, esorbitante nella comprensione teologica dell'evento salvifico. Lungo i secoli, poi, sia rispetto a Pietro che rispetto a Maria l’equilibrio scritturistico tra dato storico e interpretazioni teologiche è stato frequentemente alterato da forme di magniloquenza teologica e di retorica devozionale che sono costate il prezzo di dolorose lacerazioni del corpo ecclesiale.

Non può essere dimenticato, d’altro canto, che le immagini, le metafore, le allusioni neotestamentarie non sono asportabili e interscambiabili, perché hanno senso e valore nei diversi contesti teologici in cui vengono impiegate, risentono degli sfondi culturali da cui sono mutuate, ricevono uno spessore religioso e teologico determinato solo a partire dall’intenzionalità dell’agiografo e dall’utilizzazione che egli ne fa all’interno dei diversi contesti letterari in cui sono inserite. La chiesa-sposa della lettera agli Efesini non è la chiesa-corpo della prima lettera ai Corinzi, né la chiesa-corpo di cui Cristo è capo della lettera ai Colossesi!

La più forte perplessità nei confronti del doppio principio nasce però se lo si considera dal punto di vista antropologico: l’accoglienza della parola e l’assenso della fede precedono qualsiasi mandato ministeriale conferito da Gesù e qualsiasi carisma che proviene dallo Spirito e non ha alcun senso invece fondarle su un dualismo antropologico (maschile-femminile) eretto a principio. Soprattutto, poi: la consapevolezza, indotta dalle scienze umane, di un quadro antropologico profondamente mutato non rende ormai del tutto prive di reali significati categorizzazioni teoriche riguardo alla maschilità/femminilità e al suo valore fondante dell’organizzazione sociale? Ancora una volta, femminile coincide con materno mentre  maschile rimanda all’esercizio dell’autorità.

Comprensibile, forse, se ricondotto all’intenso rapporto spirituale che legava von Balthasar alla mistica Adrienne von Spyer, il doppio principio mariano-petrino è, di fatto, teologicamente molto problematico. Le implicazioni del duplice principio balthasariano sono infatti serie e impegnative perché esso contiene diverse suggestioni virtuali, perché può essere tradotto facilmente in termini funzionali, perché garantisce la conservazione di stereotipi dottrinali, assetti istituzionali, pratiche devozionali. La sua apparente funzionalità non ne nasconde però l’ambiguità e la fragilità. Soprattutto, esso non può oggi sfuggire al controllo del rapporto tra ordine simbolico, premesse antropologiche e ricadute sociali.

Non è un caso, forse, se questa impostazione teologica riscuote successo solo in alcuni ambienti ecclesiastici e risulta invece fortemente problematica per teologhe e teologi delle diverse università del mondo.

D’altro canto, però, non si tratta di un problema teorico, importante solo per la discussione accademica. E’ in gioco l’attinenza della teologia e, soprattutto, della Chiesa, alla vita reale: la mutazione di paradigma antropologico favorita dallo sviluppo delle scienze umane è infatti specchio di una mutazione della percezione che uomini e donne hanno di sé nell’epoca attuale. Nulla di diverso, in fondo, da quanto successo dopo le grandi scoperte geografiche o le rivoluzioni scientifiche o quelle industriali, perché gli uomini e le donne cambiano con il mondo di cui fanno parte. Non c’è nessun ambito del sapere nel quale questa prospettiva di genere in cui il femminile contiene il maschile ma, paradossalmente proprio per questo, è escluso da ogni amministrazione del potere possa oggi risultare accettabile. Perché la teologia deve ancora una volta misurare il proprio ritardo? Forse perché, come le altre rivoluzioni, la rivoluzione antropologica impone anche alle chiese, oltre che alle società civili, di ripensare profondamente la propria consapevolezza di sé e i propri assetti. E questo costa.



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