22/04/2019
428. «ASPETTO LA RISURREZIONE DEI MORTI E LA VITA DEL MONDO CHE VERRÀ» di André Paul
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I cristiani affermano ogni domenica la loro fede nella “risurrezione della carne” quando recitano il Credo dicendo di aspettare «la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà». Ma cosa significa questa affermazione, oggi? Nei secoli passati non sono mancati artisti, poeti, pittori ecc., che ne hanno dato una rappresentazione concreta, talvolta anche in maniera molto realista. Rudolf Bultmann, grande teologo del XX secolo, ha demitologizzato queste rappresentazioni; in uno scritto rivolto all’amico Karl Jaspers sentenziava: «Nessuno può credere che un cadavere possa tornare in vita e uscire dalla tomba». Cosa resta, dunque, della risurrezione di Gesù Cristo e della nostra, promessa a ogni uomo e donna alla fine dei tempi? È ancora conoscibile, rappresentabile? È ancora possibile crederci, e in che modo?
André Paul interroga, dal punto di vista storico, il “che cosa” e il “come” di questa fede. Nell’opera Immortalità o risurrezione? Affacciarsi oggi sull’oltrevita, fra utopia e fede rintraccia l’evoluzione, in area ellenistica e in contesto semitico, del concetto di anima e della credenza nella risurrezione. A quest’ultima in particolare sia Gesù che Paolo di Tarso, rispettivamente “fondatore” e “primo teologo” del cristianesimo, hanno donato un senso radicalmente nuovo. Nella conclusione del libro, André Paul espone questa rottura in pagine dense e stimolanti, che potranno risultare spiazzanti per alcuni, ma doneranno ad altri se non delle prove, quantomeno dei mezzi o addirittura delle nuove ragioni per credere. Anticipiamo di seguito un breve estratto dal cap. 5 di Immortalità e risurrezione?
 

 

  1. Restituzione identica del corpo scomparso?

 

L’idea precisa di risurrezione del corpo ha come culla l’Antichità biblica o giudaica, in seno alla quale non smise di evolversi per molto tempo. La sua maturazione decisiva si affermerà solo con l’attuazione del sistema dottrinale cristiano. Agli inizi aveva una dimensione dal carattere collettivo: fu riservata alla nascita o alla rinascita nazionale di un popolo detto eletto che solo i testi ufficiali chiamano “Israele”. In un secondo tempo sembra che venisse applicata rigorosamente alla restaurazione individuale del corpo. Restava da precisare che quest’ultima non significava la restituzione in modo identico del corpo scomparso, bensì la sua ri-creazione in vista di una vita dalle condizioni trasformate e, per questa ragione, detta “eterna”. Un bel giorno l’immagine della nazione creata o ricreata lasciò dunque il posto a quella dell’individuo risorto: il passaggio avvenne per tappe o stadi successivi nel corso degli ultimi secoli che precedono l’avvento del cristianesimo. Ciò non si verificò senza brancolamenti o indugi. Occorse tuttavia l’intervento di Gesù di Nazaret, e ancor più quella del teorico Paolo di Tarso, perché una dottrina vera e propria della risurrezione individuale – della persona e non solo del corpo – trovasse la sua espressione piena e adeguata.

 

 

  1. Risurrezione “comunitaria” dei corpi?

 

Le testimonianze formali di una prima rappresentazione della risurrezione dei corpi si trovano nella Bibbia. Diciamo “rappresentazione” e non ancora “dottrina”. Dapprima viene un testo molto noto: la celebre “visione delle ossa inaridite” del profeta Ezechiele (Ez 37,1-12). Questa visione ha la finalità di affermare che, nel suo essere stesso, l’entità nazionale denominata Israele è il frutto radicale e diretto di un intervento divino. Sotto l’artificio della profezia, la lezione della storia scaturisce dalle ultime righe del testo: Israele è nato da un “caos” umano per effetto gratuito del Dio creatore. La coniugazione delle coppie “morte/vita” e “caos/nazione” innerva la struttura narrativa, sottende lo scenario e guida i dialoghi. La dimensione collettiva della risurrezione si impone certamente in primo piano, ma lascia intravedere che la nozione di risurrezione individuale cominciava ad abitare la società giudaica di allora, quattro secoli circa prima della nostra era.

Un’eco più tardiva – ma non meno interessante – di questa celebre scena si trova in uno scritto di cui sono stati ritrovati quattro esemplari vicino al Mar Morto, lo Pseudo-Ezechiele o Deutero-Ezechiele. Il quadro della ricostituzione miracolosa dei corpi è qui ripreso quasi negli stessi termini in cui viene presentato nella visione biblica. La risurrezione individuale dei corpi è ora presentata come la risposta esemplare all’angosciante domanda della retribuzione dei giusti. È stata percorsa un po’ di strada dalla prima rappresentazione, quella dell’uscita di Israele dal nulla nazionale. Tuttavia siamo ancora lontani dalla nozione compiuta di risurrezione, in quanto quest’ultima è sempre concepita e presentata come la restaurazione del corpo secondo il modello precedente alla morte.

Una pagina celebre del Secondo libro dei Maccabei è invece molto esplicita sulla risurrezione individuale dei corpi: 2 Mac 7,9-29. La risurrezione è concepita come una restaurazione totale del corpo in vista di una vita senza fine. Non è espressa alcuna limitazione, né quantitativa né qualitativa. Il carnefice stesso deve risorgere, ma conoscerà una sorte equivalente a una morte eterna. Si annuncia una compensazione dei mali sopportati nel presente, il che non è cosa nuova; ma il corpo restaurato o ritrovato sarà identico a ciò che era prima della prova: mancheranno solo la sofferenza e la morte. Ed ecco allora il punto: qui, nella nozione di risurrezione, manca la trasformazione totale del corpo, la sua trasfigurazione ad opera dello Spirito. Il che significa che l’essere risorto sarà chiamato a vivere al di là delle condizioni fisiche del mondo creato, al di là della storia.

 

  1. Rivincita decisiva della risurrezione individuale del corpo?

 

La versione greca del libro di Giobbe, che non può essere anteriore al I secolo della nostra era, nei suoi rifacimenti, sostanziali e profondi, della versione originale (in ebraico) di quel libro, non reca impronta della dottrina dell’immortalità dell’anima. Essa integra anzi il modello opposto: quello della risurrezione del corpo. La finalità del traduttore-autore di Giobbe consisteva nel chiarire il significato del testo, dando a quest’ultimo la qualifica letteraria più giusta e la leggibilità più sicura. Così, in parecchi punti del libro, le tesi del testo ebraico sono trasformate in funzione della credenza nuova nella risurrezione del corpo: dalla lezione del testo ebraico originale al messaggio del suo omologo greco, si opera un netto spostamento o mutamento di significato. 

Difficile dubitare che vi sia, e determinante, l’impronta della dottrina cristiana. Lo si nota anche solo in base all’introduzione di un vocabolario specifico: nel Giobbe greco incontriamo soprattutto il verbo “risuscitare, risorgere” (anístemi); la coppia di opposizioni «essere morti/essere risvegliati» e quella «morire/rivivere (o rinascere)». Non si dice da nessuna parte, tuttavia, che il corpo risorto sarà trasformato o trasfigurato, cioè ricreato: la dottrina cristiana della risurrezione non aveva ancora vinto del tutto la partita.

 

  1. In attesa delle tappe successive

 

Sulla risurrezione, il pensiero giudaico si è evoluto progressivamente, ma non l’ha fatto in modi univoci né tantomeno regolari. Che fosse collettiva o individuale, la risurrezione dei corpi viene biblicamente presenta come una creazione – una ri-creazione, per l’esattezza, dato che l’azione non procede ex nihilo, “dal nulla”. Questa idea di ri-creazione resterà centrale nell’elaborazione dottrinale, e cristiana, della credenza nella risurrezione del corpo.

Ora, come immaginare il corpo risuscitato, ossia “dissolto nello Spirito”? Come rappresentarlo? È la domanda che si posero i pensatori antichi, nella società giudaica e nei primi gruppi cristiani. Le risposte saranno ricche, ma spesso divergenti, prima che una personalità di nome Paolo, alla sequela di Gesù di Nazaret, non giungesse a completare il quadro e a chiudere il dibattito.

 






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