10/09/2010
174. Teologia e etica di Lisa Sowle Cahill (Boston College, USA)
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Esiste ed è sempre esistito uno stretto legame tra la teologia e le situazioni concrete etiche e politiche. Le società in cui i teologi/e vivono e di cui parlano informano le questioni che essi/e considerano importanti, e le pretese viste come convincenti. Al giorno d’oggi i teologi/e di ogni continente raccontano in modo eloquente e tragico le sofferenze, le lotte e le speranze delle persone delle loro comunità. Jon Sobrino ci ricorda che «il problema fondamentale del nostro mondo» è la caparbia «ignoranza, la dissimulazione e il torpore» dei privilegiati «di fronte a una disumanità assai crudele». Queste realtà ci invitano alla responsabilità etica e offrono una provocazione teologica radicale.

Sono una teologa nordamericana, docente universitaria colta e privilegiata. Nella mia vita professionale ho potuto per lo più respingere l’eredità del sessismo e sono riuscita a crescere i miei figli nella sicurezza e con buone prospettive per il futuro. Eppure, in molti modi, mi è mancata la comprensione della situazione dei poveri e non ho il diritto di pronunciare delle banalità sull’empatia con il loro stato.

Tuttavia prendo coraggio dal fatto che i teologi/e imparano gli uni dagli altri. Precisamente è unendo le esperienze e le voci dei poveri e dei non poveri, di quanti appartengono alle regioni del Nord Atlantico e di coloro che abitano il Sud del mondo, che si può sperare di porre un termine alla “sconnessione” tra le situazioni dei poveri e l’impegno dei non poveri. La storia di Concilium è fatta dalla globalizzazione teologica, iniziando dall’apertura al mondo del concilio Vaticano II, sottolineando dapprima le voci europee e nordamericane per un rinnovamento della chiesa ed ora coinvolgendo un presidente, un comitato di direzione e moltissimi autori/autrici che rappresentano l’America latina, l’Asia, l’Africa e le isole del Pacifico. Le nostre teologie ed etiche riflettono le culture e le visioni del mondo di ciascuno di noi. Si può considerare la teologia e l’etica da indiano, da peruviano o da tedesco – come donna, uomo, quale dalit – gli intoccabili dell’India – o discendente dell’aristocrazia europea. L’esperienza che ricaviamo da tutto questo può insegnarci molto sul razzismo negli Stati Uniti, sul conflitto civile in Congo, o sul traffico del sesso in Thailandia.

E abbiamo molto in comune. Per prima cosa, condividiamo bisogni e capacità umane di base. Nonostante il pluralismo del mondo, non è realmente molto difficile identificare quei beni che sono largamente, e quasi “universalmente”, giudicati tali. Tutti/e vogliono il cibo, un rifugio, dell’acqua pulita, la libertà dalla violenza, un’assistenza sanitaria di base, istruzione e un’occupazione adeguata, per se stessi e per quanti amano. Come Tommaso d’Aquino disse tanto tempo fa, ognuno/a riconosce come bene quello di preservare la vita, il prendersi cura e l’educare le prossime generazioni, e il vivere in cooperazione entro una società stabile e giusta.

Come seconda cosa, tutti/e desiderano proteggere i propri interessi, anche a spese degli altri. Pure qui sappiamo quali sono i beni fondamentali ma, con tutto il rispetto per Kant e l’insegnamento sociale cattolico, che ognuno/a abbia lo stesso diritto di goderne è un fatto molto lontano dall’essere ovvio per la maggior parte delle persone il fatto. Assai spesso una violenza diretta e l’omicidio sono i mezzi per escludere i nostri simili dalla vita buona che vogliamo. E ancora più di frequente le strutture di coercizione e di sfruttamento consentono ai potenti di sfigurare la nostra forza con l’oppressione e la morte. La teologia cristiana ha una categoria decisamente appropriata per interpretare questa realtà: il peccato. Con il peccato originale si intende una distorsione che si trova nel profondo del cuore umano. Peccati come l’egoismo, il dominio e il pregiudizio sono le più grandi questioni morali che come esseri umani e come cristiani dobbiamo affrontare.

Che cos’è la teologia cristiana? Il punto essenziale del cristianesimo è il fatto che siamo salvati dall’egoismo e dall’alienazione quando diventiamo una cosa sola in Gesù Cristo attraverso lo Spirito, membri della “nuova famiglia” in Cristo (Paolo) e cittadini del “regno di Dio” (vangeli). E cos’è l’etica cristiana? Questa ci dice che genere di vita e di relazioni porti la salvezza. L’argomento centrale dell’etica cristiana è di chiamare per nome le sofferenze e le speranze di quanti “non hanno nulla”, invitando tutti/e a identificarsi empaticamente gli/le uni con gli/le altri, e particolarmente a fare una “opzione preferenziale per i poveri”. Ciò non è necessariamente “esclusivo” o “unico” per i cristiani, ma è distintivo della vita cristiana in quanto tale. Quanti/e sono uniti in Cristo fanno un’opzione per i poveri.

Passerò ora in rassegna i rapporti della teologia con l’etica ponendo quest’ultima in dialogo con quattro punti teologici di riferimento che sono: 1) la teologia biblica; 2) la cristologia; 3) l’ecclesiologia; 4) la teologia delle religioni o dialogo interreligioso. La questione centrale da me sostenuta è che non c’è teologia senza etica. L’etica viene prima della teologia, è contemporanea alla teologia e verrà dopo questa. Le rivendicazioni teologiche riflettono l’etica che si possiede. Non è questione del se, ma del come e del perché la teologia presuppone l’etica. Ed è mia intenzione sviluppare la connessione normativa tra impegno etico verso i poveri e le teologie del regno di Dio, di Cristo, della chiesa e delle religioni del mondo. Suggerisco inoltre che non si può gustare o comprendere la salvezza senza aver parte alle pratiche etiche del regno di Dio, perché entrambe le realtà, vale a dire salvezza e regno di Dio, sono assai concrete.


1/ Teologia biblica: regno di Dio

La maggior parte dei teologi/e riconosce l’importanza del simbolo biblico del “regno di Dio” (o ambito di Dio) per la teologia e l’etica. Centrale nella predicazione e nel ministero di Gesù, il regno di Dio è un’immagine associativa della salvezza che è pure molto pratica nel suo significato. È un’eccellente illustrazione della interdipendenza di teologia ed etica. Il regno di Dio non si riferisce solo alla salvezza personale o allo statuto unico di Cristo come inaugurazione della salvezza. Il regno di Dio è per prima cosa e soprattutto lo stato di cose divino che spezza in realtà irriconciliabili le condizioni storiche del peccato, riordinando i rapporti umani così da riflettere una nuova esperienza della vita e dell’amore che sono di Dio.

Il simbolo biblico del regno di Dio rende chiaro che etica e politica non sono controparti secondarie, e meno che mai opzionali, della teologia. Non sono un genere di coerente “applicazione” pratica, dei semplici ripensamenti degli elementi essenziali della fede o dei superflui “addenda” all’identità cristiana. Assolutamente no. L’impegno politico è costitutivo dell’identità cristiana, parte integrale del significato della salvezza in Cristo e la condizione pratica senza la quale non si può cogliere il senso della fede.

La teologia di Jon Sobrino sul regno può essere posta in contrasto con quella contendente di Joseph Ratzinger espressa nel libro del 2007 su Gesù di Nazaret. Le condizioni sociali di Sobrino e Ratzinger sono differenti, il loro impegno politico è diverso e pertanto anche le lenti interpretative risultano altre. In quanto teologo tedesco, e vescovo di Roma, Ratzinger guarda da europeo alla Bibbia, alla fede e all’identità. In quanto teologo europeo, la cornice di riferimento non è quella delle lotte e della fede “umanizzante” dei poveri (Sobrino), bensì la secolarità e lo scetticismo delle classi educate in Europa. Naturalmente anche l’Europa attraversa i propri conflitti con l’economia, la proliferazione nucleare e l’immigrazione. E recentemente Ratzinger come papa ha viaggiato per il mondo facendo sempre più numerose affermazioni sulla povertà e l’ambiente.

Eppure nel suo libro su Gesù lo sguardo di Ratzinger sembra rivolto alla progressiva diminuzione della fede cristiana in Europa, una situazione molto diversa dall’esperienza dei cristiani sia nel nord sia nel sud America, e sicuramente da quella dei teologi/e di quelle regioni in cui il cristianesimo non è mai stato una forza culturale dominante. Il desiderio di Ratzinger di evangelizzare una cultura precedentemente cristiana ed ora secolare non è solo valido ma è pure importante. Eppure interpretando il regno di Dio esclusivamente nei termini di un rapporto personale e trascendente il mondo con Dio che egli crede aperto a ciascuno/a in Gesù Cristo, Ratzinger minimizza una parte importante dell’identità cristiana, biblica: l’impegno a cambiare il mondo in cui viviamo. In effetti, direi che l’assenza di impegno nel mondo per quanti/e non hanno nulla erode le condizioni stesse in cui si può conoscere e interpretare teologicamente la verità della fede.

Prestando una decisa attenzione alla natura trascendente del regno e alla divinità di Cristo, Ratzinger non riesce a dare un contenuto pratico all’esistenza del regno ora. Perdere di vista le implicanze etiche e pratiche dell’umanità di Cristo è un disastro teologico perché mina Calcedonia. È una sventura etica perché svuota la vita cristiana di qualsiasi e concreto significato e distacca l’etica dal cuore della fede.

La fede di quanti/e non sono poveri, se è genuinamente fede cristiana, li innalzerà al Dio cristiano se nello stesso tempo essa raggiungerà “i dannati della terra” (Franz Fanon). Sobrino «provoca quelli/e di noi che vivono in altri contesti a leggere i vangeli in modo fresco e a riconoscere tra noi i popoli crocifissi nel nostro mondo e tra i nostri vicini».


2/ Cristologia: teologia dell’incarnazione (Cristo in quanto umano e divino)

In parte perché essi vengono da contesti culturali diversi e hanno interessi pratici differenti, Sobrino e Ratzinger, come abbiamo visto, accentuano diversamente l’identità di Cristo e il suo significato per l’etica. Mentre uno sottolinea il divino, l’altro evidenzia l’umano. Le differenze nell’interpretazione di Cristo non sono nuove né sorprendenti. Infatti ci sono voluti parecchi secoli alla tradizione cristiana per formulare l’identità duale di Cristo, a Nicea (325) e Calcedonia (450). E le formulazioni paradossali di questi concili sono state una tregua nelle battaglie teologiche più che una sistemazione di tutte le questioni. Queste sono ancora valide – e forse addirittura costitutive della teologia cristiana.

La continua ricerca cristiana per comprendere ciò che è e significa realmente l’identità di Cristo non è altro che la storia della chiesa. L’“irruzione dei poveri” sulla scena della storia e nella coscienza dei teologi/e, così come la teologia femminista e lo sviluppo teologico dell’intera cristianità, hanno prodotto nuovi orientamenti e visioni cristologiche. Queste includono l’importanza dell’umanità di Cristo, la natura della salvezza come parzialmente politica e il significato della croce in quanto solidarietà di Dio con la sofferenza umana più che come punizione per il peccato.

La maggior parte dei teologi/e oggi, o almeno di quanti/e si assumono seriamente l’opzione preferenziale per i poveri, dà per scontato che Gesù di Nazaret sia una figura della storia, che egli fosse veramente un essere umano, e che operò e lottò come un essere umano confrontandosi con le strutture oppressive di allora. La vera umanità di Cristo è il nuovo paradigma normativo per la teologia e la nuova ortodossia tra i teologi/e politicamente impegnati. E ancora, affermare che Cristo è umano non è sufficiente per fare giustizia nei confronti delle trasformazioni sociali per cui lavoriamo, per cui speriamo e attraverso cui possiamo di fatto cambiare le cose. L’etica cristiana pratica rende possibile e necessario parlare anche di una teologia “ascendente” della divinità di Cristo. La percezione che Cristo è “divino” era ed è fondata nelle concrete esperienze di salvezza e di trasformazione, cioè nella pratica del regno di Dio.

L’esperienza cristiana come solidarietà effettiva con i poveri richiede che Cristo sia detto sia umano e sia divino. Il riconoscimento teologico di Cristo non solo “come noi” ma radicalmente dis-simile da noi – in quanto divino – è radicato nel nostro essere cambiati dall’interesse egoistico alla solidarietà con Dio e con gli altri/e. La confessione originale di Cristo in quanto divino era ed è dipendente dall’esperienza di aver subito questa trasformazione, un cambiamento tanto radicale di cui si riconosce l’origine nel potere di Dio in noi. Similmente, all’interno delle pratiche del regno di Dio confessiamo la piena e vera umanità di Cristo come ciò che ci unisce a lui secondo una modalità di trasformazione e ci indica il contenuto specifico della vita nel regno.

In altre parole, anche la teologia dell’incarnazione richiede l’etica cristiana e non solo il contrario. A prescindere dalle pratiche del Regno, la piena realtà di Cristo non è visibile né colta. Un’etica pratica di interesse per i poveri è la necessaria precondizione di una corretta teologia dell’identità di Cristo.


3/ Ecclesiologia: la chiesa come luogo di salvezza,di culto e di formazione morale

La nostra teologia della chiesa deve spiegare come questa medi la salvezza in e attraverso i rapporti umani e l’identità collettiva, portando quel cambiamento invocato da Sobrino. In modo misterioso e paradossale, Cristo è uno con noi e uno con Dio; come egli è unito a noi nella nostra umanità, così noi siamo uniti a lui nella sua divinità. Ma attraverso che cosa noi partecipiamo realmente alla vita di Cristo e all’unità di Cristo con Dio? dove capita questo? Nella chiesa, malgrado le sue debolezze, noi impariamo a seguire una politica della vita, dell’amore e del regno di Dio. Infatti è il nostro sperimentare questo rinnovamento nella comunità della chiesa, nella pratica e con i poveri che ci permette di vedere chi veramente sia Cristo: Dio con noi, per noi e in noi, un Dio che fa nuova tutta la creazione.

La vita nella chiesa è costituita da molte attività ma, fra le più basilari, pratiche e formative vi sono la liturgia e l’etica. Secondo Louis-Marie Chauvet, liturgia e sacramenti sono il linguaggio della chiesa, attraverso cui si forma l’identità e l’agire personale e sociale. Con lo scambio simbolico anche i soggetti «si scambiano». Nella chiesa questo scambio comprende anche Dio.

La vita della chiesa comprende non solo le pratiche liturgiche, ma pure quelle morali, come lo scambio di beni materiali anche con i più indigenti (At 2,42-47; 4,32-35). Lo sfruttamento dei poveri e altre ingiustizie rendono impossibile sia discernere teologicamente il corpo del Signore sia rappresentarlo liturgicamente. Al contrario un’etica del servizio è per se stessa sacramentale. L’etica è rivelatrice di Dio al punto da essere «portatrice del dono di sé che Gesù ha fatto». La testimonianza etica al vangelo è un marchio della chiesa in quanto sacramento del regno di Dio. La testimonianza etica è necessariamente rivolta tanto al culto genuino che ad una accurata teologia. Perciò l’etica è un aspetto essenziale dell’ecclesiologia.

In quanto attività formativa, di espressione e testimonianza della chiesa l’etica teologica cristiana può assumere parecchie forme che includono la modalità narrativa, profetica e normativa. Nel primo caso l’etica cristiana racconta la storia del vangelo, e narra dell’identità cristiana come parte della narrazione del vangelo, per esempio vivere nel regno di Dio e fare l’opzione per i poveri. L’etica narrativa costituisce i cristiani nel “noi” che è la chiesa. Nel modo profetico, l’etica cristiana protesta contro le ingiustizie, siano esse al’interno della chiesa o nella società. Ad esempio, le teologhe femministe invitano la chiesa a fare i conti con l’ideale del «discepolato di uguali», mentre i teologi della liberazione esortano questa stessa a prendere una energica posizione nei confronti delle strutture globali di oppressone.

Più controversa è la modalità prescrittiva. L’etica normativa è di un genere ben noto dai tempi del pre-Vaticano II, solitamente chiamata “teologia morale”. L’etica prescrittiva non si ferma alle identificazioni generali della condizione umana di peccato o con gli appelli a gruppi di persone, come “ai ricchi”, “ai governanti” o “alle famiglie”. L’etica prescrittiva scende giù giù negli elementi specifici della vita morale prescrivendo certe azioni che andrebbero o non sarebbero da fare, dei limiti che andrebbero osservati, e dei mali che comunque vanno evitati. A motivo del suo metodo neoscolastico, della sua ossessione in materia di sessualità, con una autorità elitaria e patriarcale, l’etica normativa pre-Vaticano II ha una reputazione cattiva, meritata, ed è stata rimpiazzata da modelli più personalistici, situazionali e sociali di discernimento etico. Suggerisco tuttavia che forse è tempo di ripristinare la modalità normativa dell’etica e di rinnovarla come arma contro il consumismo, la bramosia e il militarismo, e anche contro il sessismo e lo sfruttamento delle donne.

Perché non sviluppare delle norme specifiche che fissino le richieste di un equo salario, il dovere sociale di fornire l’assistenza prenatale e pediatrica, che vadano contro il male intrinseco della violenza domestica, che limitino i profitti delle aziende o i sussidi alle imprese, che si oppongano al rifiuto dei princìpi degli investimenti alle società che producono in modo immorale armi, e stabiliscano l’obbligo di non produrre o acquistare automobili che non siano ecologicamente sostenibili? Ciò che è necessario a far sì che l’esortazione diventi azione per gli abitanti ricchi del “Primo mondo” e, ovunque, per i dirigenti di compagnie transnazionali, per i membri governativi e le élite culturali può essere una forma di etica normativa che è sì provocatoria ma realistica nelle sue attese e rivolta a persone che occupano ruoli diversi.

È vero che le norme prescrittive dovrebbero essere culturalmente sfumate e riviste frequentemente. Come afferma l’Aquinate, più scendiamo a questioni su dettagli morali pratici e più ci si ritrova con la contingenza e l’ambiguità. Ma è vero che un argomento sfumato e rivedibile non è in se stesso contrario all’etica prescrittiva. È solo un’argomentazione contraria a quel tipo di etica normativa inflessibile, ovviamente obsoleta, che è prevalsa nella sfera sessuale prima del concilio. E proprio come le identità e le opinioni morali di molti adulti si formarono in bene o in male con la vecchia etica, così ora c’è bisogno di una nuova etica normativa per aiutare le persone a fare i collegamenti specifici tra gli ideali morali cristiani, in generale, e le loro situazioni e responsabilità morali. Esiste un importante ruolo formativo proprio dell’etica cristiana prescrittiva che impegna a livello pratico i membri della comunità cristiana anche prima che raggiungano un livello tale da analizzare la realtà razionale che sta dietro a tali pratiche. L’etica normativa è un modo di mediare la sapienza morale della comunità di salvezza giù giù fino alla base del comportamento e delle fondamentali disposizioni umane.


4/ Teologia delle religioni: il significato dei rapporti interreligiosi per l’identità, la teologia e l’etica

Concludendo, voglio menzionare brevemente la teologia delle religioni mondiali come il prodotto della natura pratica della chiesa e della salvezza, specialmente della sacramentalità dell’impegno etico cristiano. Il dialogo interreligioso è anche parte di “ciò che deve succedere” quando il cambiamento avviene realmente. Un tale dialogo non è il risultato di astratte teologie su Cristo o di deduzioni teoretiche da formule del credo. Invece, l’orrore di fronte alla violenza etnica e all’ingiustizia, le persone che lavorano insieme per risolvere problemi come il degrado ambientale, il rimorso delle violenze commesse nel nome del cristianesimo, del giudaismo e dell’islam, riconoscere che persone di molte fedi diverse esercitano un’opzione per i poveri e celebrano liturgie di trascendente bellezza sono esperienze che, poste in rilievo dalla comunicazione globale e dai viaggi, hanno iscritto il dialogo interreligioso nell’agenda del cristianesimo mondiale.

Considerare o confrontare tra loro le religioni necessariamente occupa una sorta di spazio là dove è possibile la comunicazione; allora si condivide un linguaggio e una storia comune le riunisce. I cristiani (come gli altri) appartengono a più di una comunità e sono portatori di più identità, siano queste l’etnicità, la nazionalità, la classe, la professione o l’organizzazione del volontariato. In altre parole, le nostre identità sono permeabili e miste. L’ibridismo è anche il nome del gioco cui si assiste nella sfera religiosa contemporanea, allorquando le religioni si mescolano e si armonizzano all’interno e fra le culture, aiutate dalla rete attuale e virtuale che è la globalizzazione. Entrambe, liturgia ed etica, ci connettono con il mondo che sta introno a noi, con altre persone, tradizioni, costumi e sistemi simbolici. «L’euristica dell’ibridismo consente una rilettura dell’incontro, attraverso cui non emerge l’eterno scontro di culture che richiede la conversione (o l’estinzione/espulsione) ma il complesso e mobile “terzo spazio” delle identità negoziate». Gli incontri con “altre” religioni gettano luce sull’identità e la comprensione di sé cristiana. Alcuni teologi/e oggi parlano anche di una “molteplice appartenenza religiosa” per descrivere le identità che sono presenti simultaneamente in più di un universo religioso.

Un esempio di apprendimento interreligioso che ha avuto un grande impatto sulla teologia e le pratiche cristiane è l’esperienza maturata nel XX secolo con l’ebraismo. Dopo l’Olocausto i cristiani si sono confrontati con il proprio antisemitismo e la conseguenza è stata che il Vaticano II produsse Nostra aetate (ottobre 1965). Più recentemente abbiamo visto la dichiarazione Dominus Iesus (2000 [Enchiridion Vaticanum 19, n. 1142s.]) e, nel 2007, la diffusione dell’uso della messa tridentina basata sul Messale Romano del 1962. Mentre Nostra aetate rileggeva una comprensione dell’alleanza di Dio con Israele fondata su una antica successione, Dominus Iesus apparentemente rifiutava tale teologia, facendo sorgere l’indignazione di quei cristiani coinvolti praticamente negli scenari interreligiosi. La riconferma del rito del venerdì santo del messale del 1962, con le sue umilianti caratterizzazioni della fede degli ebrei, ha prodotto il clamore dettato da ragioni specificamente etiche e politiche, specialmente sul pericolo di reinfiammare sentimenti antiebraici. Le lamentele, successivamente, hanno provocato una revisione della liturgia anche se non adeguata dal punto di vista dei rapporti interreligiosi. La teologia delle religioni è in corso. È comunque evidente che il dialogo interreligioso, ispirato da problemi sociali pratici e da uno scambio in buona fede, può essere il risultato di una illuminazione e anche di conversione reciproca. E questo è un aspetto in più in cui la teologia e l’etica sono interdipendenti.

In conclusione, l’etica è la pratica del regno di Dio, e per questo è essenziale alla teologia biblica, alle teologie della salvezza in Cristo e all’ecclesiologia. L’impegno etico e sociale ci mettono in dialogo con altre fedi. E questo processo forma e cambia la nostra identità di cristiani. In questo modo l’etica è essenziale anche per la teologia di altre religioni.






da Concilium. Rivista internazionale di teologia 1/2009
© 2010 by Teologi@Internet
Traduzione dall’inglese-americano di Guido Ferrari
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)
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