01/07/2011
196. ASPETTI DI UNA ECCLESIOLOGIA DELLA COMUNITÀ di Petro Müller, Würzburg (Germania)
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Petro Müller è teologo, docente universitario di dogmatica, si è abilitato sul tema “Comunità – il caso serio della Chiesa”, e ha pubblicato il volume Eine kompakte Theologie der Gemeinde, Berlino 2007. Trattandosi di un tema molto discusso nella pastorale di lingua tedesca, proponiamo questa breve sintesi delle sue riflessioni ecclesiologiche in chiave di teologia della comunità. 

 

I. Il “grattacapo” dei servizi e dei ministeri nella pastorale odierna

Dobbiamo partire da una esperienza ricorrente della chiesa cattolica in Germania: nei corsi di specializzazione sulla ecclesiologia della comunità (“Comunità come luogo di origine della fede”, “comunità come chiesa locale”, “comunità: caso serio della chiesa” ecc.) immancabilmente si arriva, dialogando sulla situazione odierna delle comunità cristiane, ad un punto in cui i collaboratori e le collaboratrici pastorali lamentano ovunque la condizione attuale della loro situazione pastorale. Ciò che li assilla, ciò di cui è pieno il loro cuore, di questo parla la loro bocca. Sembrano esperienze limite, in quanto molti, effettivamente, si  scontrano con i loro limiti.

Persino dei parroci di provata esperienza, in servizio da decenni, si sentono nel frattempo colossalmente sovraccaricati, quando viene loro “appioppata” un’ulteriore comunità o  assegnato un compito aggiuntivo. Essi avvertono dentro di sé che vogliono essere dei pastori, e non dei “manager”. Sanno che il loro compito – detto in termini paolini – sarebbe quello di fondare comunità o di costruire la comunità. Scoprono invece sempre di più che per loro questa aspirazione sfuma: le comunità sono troppe, la situazione troppo ingestibile. Essi corrono freneticamente da un luogo all’altro, dalla celebrazione della messa all’amministrazione di altri sacramenti, da queste incombenze alle prossime, dalla riunione del gruppo x al gruppo di programmazione y, dal pomeriggio con gli anziani al consiglio parrocchiale diurno o “notturno”. Tutti i “professionisti” della pastorale considerano la situazione attuale in modo estremamente obiettivo e conoscono i limiti del sistema nel quale si trovano inseriti.

Il problema sembra essere stato aggiornato già da parecchio tempo (deliberatamente?). Sulla base della mancanza di preti, pronosticata già da più di 30 anni – o non si dovrebbe meglio dire della “mancanza di ordinazioni”? – e sulla base del risparmio forzato, diventato di recente particolarmente acuto, i responsabili delle diocesi sembrano favorire nell’essenziale soltanto due progetti: una concentrazione centralizzante di strutture e il “congelamento” o la riduzione del personale.

Le conseguenze di tali misure inaspriscono il problema: di fronte alle ristrutturazioni, dalle quali sono particolarmente colpiti proprio i detentori di ministeri, molti diffidano dei nuovi progetti di cooperazione. Sia che il “figlio” di tali provvedimenti si chiami “riorganizzazione” di unità pastorali o di ambiti pastorali, sia che si tratti di aggregazione in “una comunità di più comunità” o della fondazione di “comunità di più parrocchie”, o persino di (dover) fondere  più parrocchie in una sola, la situazione problematica, nonostante le diverse denominazioni, sembra ovunque la stessa.

Un parroco veterano espresse la propria frustrazione in questi termini: “noi preti, però, in tutto questo gioco abbiamo sopportato ‘il guaio maggiore’!” (Si tratta qui di una citazione attenuata. Nella sua “santa ira” il collega si era espresso in modo tanto drastico che non  è opportuno citarlo alla lettera in un articolo teologico).


II. Centralizzazione versus formazione di comunità?

Le centralizzazioni a motivo di “mancanza di ordinazioni” (D. Emeis) oppure a causa di necessarie misure di risparmio sono cattivi vantaggi in relazione alla edificazione o persino alla fondazione di nuove comunità cristiane.  Una “carenza di comunità” (P.M. Zuhlehner), che si deve comunque constatare in molti luoghi, si acutizza così ancora di più.

Nel senso della forza centripeta una centralizzazione concentra in realtà,  all’interno, forse in direzione di ciò che è più necessario, ma all’esterno essa perde di vista la periferia e corre il pericolo di mancare  il compito  missionario di evangelizzare, proprio della chiesa. La missione ricevuta dal Signore risorto, di andare fuori, di rivolgersi a tutti, di predicare e di riunire gli uomini, mediante il battesimo, nella comunità di Dio (cfr. Mt 28, 19s.; Mc 16,15; Lc 24,47), perde  forza se si risparmiano, se si riducono o addirittura se non si dispone di evangelizzatori e moltiplicatori, di servizi pastorali e ministri. Se le possibilità personali di incontro diminuiscono, si riducono anche i luoghi della fede vissuta, cioè le comunità cristiane. Là dove si taglia, molte cose non hanno più luogo.


III. Parrocchia + comunità = comunità parrocchiale?
Un conto che non torna

In tempi di risparmio (del personale) sembra comprensibile che si aggreghino strutture, che si conservi e si promuova quanto è necessario, eliminando ciò a cui sembra si possa  rinunciare. Una cattolica impegnata  raccontava di una soluzione olandese: un parroco poco amato aveva “con le sue prediche” allontanato a poco a poco dalla chiesa i membri della sua comunità, fino a che fu mandato dal vescovo in pensione. Poiché solo pochi fedeli partecipavano ancora alle celebrazioni e anche per il resto l’impegno era  scarso, il vescovo cancellò semplicemente la parrocchia e aggregò contabilmente il numero dei cattolici alla parrocchia vicina. La chiesa venne venduta e dovette far posto a un centro commerciale. Il vescovo pensò certo soltanto alle strutture; dello spirito missionario di edificare la comunità, ad esempio attraverso nuovo personale pastorale, nessuna traccia. Egli non aveva preso in considerazione il principio evangelizzatore e la sua dinamica. Per lui contava evidentemente la struttura parrocchiale, non la comunità come popolo di Dio in quel luogo.

A questo riguardo occorre assolutamente distinguere sul piano teologico – e non solo in tali casi – tra parrocchia e comunità. Anche se in Germania, a partire dal sinodo di Würzburg, si preferisce parlare di “comunità parrocchiali”, almeno sul piano concettuale si deve però spezzare questa “parola composta” nelle sue due parti, anche se la maggior parte delle comunità cristiane esistono (ancora) all’interno di parrocchie.

La comunità non è la stessa cosa della parrocchia. La “parrocchia” è un concetto giuridico-ecclesiastico, la “comunità” è invece un concetto ecclesiologico. La comunità ha a che fare con persone concrete e con il loro progetto di vita cristiana comune. La parrocchia riguarda piuttosto l’organizzazione di questo progetto. La comunità deve essere compresa sempre come in costruzione. Le strutture parrocchiali possono essere utili a questo scopo, anche se oggi spesso appare il contrario. Importante però rimane la dinamica del costruire “in Cristo” (Paolo: oikodomé), poiché l’inerzia significa qui rimanere indietro!

Se si comprende che la comunità non è la stessa cosa della parrocchia, si è colta la differenza tra recinto e gregge, tra normativa e persone, tra struttura e vita, tra regole del gioco e gioco stesso, tra diocesi e chiesa locale, tra CIC e popolo di Dio. Anche la comunità è già il popolo di Dio e perciò uno spazio vivo, interpersonale, uno spazio di vita in piccolo. Perciò all’interno di una parrocchia  –  e a maggior ragione all’interno di una unione di parrocchie – possono esistere parecchie comunità cristiane dalle coloriture più diverse.

Talvolta per potere guardare in avanti ci è di aiuto uno sguardo retrospettivo chiaro: già le comunità del Nuovo Testamento offrivano una ricca varietà di strutture e modelli  più diversi, senza sminuire l’unità della chiesa. E tutti gli autori [del NT] conoscono bene le loro comunità: ad esempio, Paolo ha presente la situazione dei cristiani a Filippi, Tessalonica o Corinto; Marco impegna la sua comunità alla sequela come comunità di discepoli; Luca scrive per la sua comunità di stampo cittadino;  la Lettera agli Ebrei sembra volere risvegliare delle comunità dormienti oppure l’Apocalisse combatte contro le oppressioni più diverse: ogni comunità aveva il proprio volto, una sua biografia specifica.

Questa impressione della molteplicità ha valore duraturo, che continua anche per il tempo successivo. La ricchezza del Nuovo Testamento è l’orientamento che ne viene per le comunità di oggi, ognuna delle quali ha la propria caratterizzazione, una storia propria e obiettivi specifici 1. Per noi oggi, in una società multiculturale con ambienti differenti, tale multiformità dovrebbe essere di stimolo anziché spaventare. L’equazione largamente diffusa, secondo la quale la parrocchia è la stessa cosa della comunità, non prende invece sul serio le persone quali cristiani chiamati a fare comunità; questa non è la stessa cosa. La parrocchia può sì, ora come sempre, essere un punto di appoggio, affinché il popolo di Dio in un luogo possa raccogliersi, ma non è l’unico quadro strutturale.


IV. Caratteri ecclesiologici delle comunità nel Nuovo Testamento

Nonostante tutta la molteplicità neotestamentaria, si deve sempre prestare attenzione all’intenzione con cui il canone è stato composto. Il Nuovo Testamento esige infatti di essere preso come una totalità: con il testo finale della formazione del canone la chiesa sottolinea la pluralità delle comunità e la prassi della loro fede nell’unità.

Ciò vuole dire anche che, per una visione d’insieme sistematica, si possono riassumere in una specie di summarium gli elementi e gli approcci più diversi che contraddistinguono la comunità. Ciò che è multiforme non viene così uniformato, ma reciprocamente connesso a forma di rete. Per tutte le comunità neotestamentarie si possono considerare sei aspetti caratterizzanti 2:


1. Principio di ogni comunità: il Dio trinitario

In Gesù, suo messia, Dio stesso costituisce la comunità dei discepoli, la comunità di Cristo. La sequela è il legame duraturo e personale con Gesù Cristo. Egli invia lo Spirito affinché la comunità, nel suo agire, venga da lui accompagnata e guidata. Lo Spirito guida gli annunciatori nella fondazione di nuove comunità. La comunità è dunque sempre attraverso il Kyrios, e ciò determina la sua santità. In quanto eletti da Dio e da lui santificati, i membri della comunità sono il nuovo popolo di Dio, un sacerdozio regale che partecipa alla sua santità.


2. Evangelizzazione: La testimonianza sempre nuova dell’agire di Dio nei confronti degli uomini

La professione di fede nel mistero di Cristo, che troviamo nei vangeli, rimane il criterio permanente affinché la comunità possa essere soggetto del messaggio della basileia di Dio. Essa stessa è soggetta al compito dell’annunciare e del guarire, e questo deve condurre a fondare sempre nuove comunità. L’autenticità della predicazione è vincolata alla testimonianza degli apostoli. In tal senso si deve parlare della apostolicità della comunità. Il suo orientamento missionario e la sua missione a tutti i popoli mostrano inoltre la sua cattolicità.


3. Comunità: la comunione fraterna di coloro che seguono Cristo

La comunità è koinonia, comunione mediante la partecipazione all’agire di Dio (in Cristo, nello Spirito) nel mondo. Essa è scopo e destinataria del messaggio della salvezza che Dio opera tra gli uomini. Entrando nella comunità si ha parte alla comunione celeste. Un cristianesimo senza comunità è, nel Nuovo Testamento, impensabile. Essa è il nuovo, vero popolo di Dio, la “nuova famiglia” nella sequela di Gesù. La sua forma sociale è caratterizzata dall’amore fraterno. Tale koinonia tende all’unità di tutti i credenti in Cristo, cosa che è sperimentabile nella comunità locale. Quale carattere comunitario diventa visibile l’unità.


4. Assemblee e sacramenti: segni realmente efficaci della ‘koinonia’ celebrata

Se i primi cristiani si riuniscono per la liturgia dalle molte forme (battesimo, cena del Signore, riti di conversione, preghiera comune, intercessione), tutto ciò è lode confessante della loro vita come comunità. Le assemblee costituiscono visibilmente le comunità e le conservano nel comune rapporto reciproco davanti a Dio, anche oltre il momento dell’incontro. I sacramenti – senza utilizzare tale concetto – e soprattutto il battesimo e la cena del Signore sono segni dell’appartenenza a Cristo e della sua sperimentabile presenza. Essi presuppongono la fede e conducono ad una sempre più profonda comunione con Cristo. Essi appartengono al nucleo della comunità e determinano la sua identità in quanto koinonia.


5. Comandamento dell’amore e ethos: vita comune dalla forza del servizio a Cristo

Quasi dappertutto nel Nuovo Testamento il duplice comandamento dell’amore è il fondamento della vita comunitaria e del tendere ad una giustizia più perfetta. Un corrispondente ethos della perfezione è largamente diffuso. Esso deve portare a conversione, purezza e santità della comunità. Elevato valore possiedono il servizio misericordioso, diaconale, e la condivisione con quelli che soffrono. Qualsiasi servizio ha, a questo riguardo, come modello la proesistenza di Gesù, il suo autoabbassamento e la sua dedizione. Imitare lui conduce direttamente all’ethos attivo della diakonia. I cristiani vanno compresi come “operatori della parola”, la qual cosa si manifesta nella vita comune, nel servizio della carità all’interno e nell’agire sociale all’esterno, ed è al tempo stesso agire missionario.


6. Ministeri (e forme ad esse precedenti): servizio all’unità della comunità

Nessuna comunità neotestamentaria può rinunciare a ministeri o a loro forme precedenti. Essi sono, per loro natura, imitazione del servizio di Cristo. Testimoni eminenti dell’evento Cristo, particolarmente dalla sua risurrezione in poi, sono gli apostoli. E’ pure ricordata una molteplicità di funzioni preministeriali: negli strati più antichi del Nuovo Testamento si parla di esperti cristiani nelle Scritture, di giusti, maestri, profeti, apostoli e  profeti itineranti, e in quelli più recenti si citano: presbiteri, profeti, maestri e vescovi – spesso simultaneamente.  Allo stesso tempo, però, alla edificazione delle comunità contribuiscono essenzialmente i carismi e servizi. Tutta la comunità porta la responsabilità e la preoccupazione per la sua salvezza. Al suo servizio, come collaboratori di Dio,  stanno i “ministri” con il loro agire per la comunità. Parallelamente a queste funzioni messe in evidenza si aspira soprattutto ad un atteggiamento fraterno autoresponsabile da parte di tutti i membri della comunità.

Nel complesso, dunque, già nel Nuovo Testamento diventa evidente ciò che più tardi serve alla caratterizzazione teologica della ekklesia. Le comunità mostrano ivi caratteri ecclesiologici che più tardi vengono attribuiti alla chiesa nella sua globalità. Così la chiesa esiste nelle sue comunità, cosa che si può definire teologicamente come segue:

In ogni comunità particolare, che sulla chiamata di Cristo, sotto la benedizione di Dio e in comunione con lui in virtù dello Spirito Santo, tende a unità, santità, cattolicità e apostolicità e, nel far questo, porta avanti i processi fondamentali di evangelizzazione missionaria (martyria), comunione (koinonia), assemblea liturgica con celebrazione dei sacramenti (liturgia), servizio fraterno (diaconia) e ufficio di direzione (servizio all’unità), si realizza l’intera chiesa quale nuovo popolo di Dio.


V. Fratture nella storia della chiesa e una sistematica dimenticanza della comunità

Dal Nuovo Testamento, passando per l’età patristica e fino alla tarda antichità il valore teologico della comunità è riconosciuto ancora ovunque. In questo campo vale la regola: quanto più un Padre della chiesa si orienta secondo idee neotestamentarie di comunità, specialmente secondo il patrimonio ideale di Paolo, tanto più l’identità comunitaria e la koinonia sembrano conservarsi nelle sue comunità 3.

Delle difficoltà si manifestano con le conversioni in massa al cristianesimo, dal momento in cui esso sotto Teodosio I (379-395) diventa religione di stato, e anche a partire dall’instaurarsi del monachesimo, quando molti cristiani impegnati preferiscono vivere il loro essere cristiani in monasteri o in comunità religiose. Gradualmente un cristianesimo in generale comunitario esce silenziosamente dalla coscienza.

Il grande collasso della comunità è da situare alla fine della tarda antichità, parallelamente al tramonto dell’impero romano d’occidente. Il primo medioevo, che si sforza di ricostituire un nuovo ordine, non conosce più alcun vero cristianesimo di comunità, e l’alto e il tardo medioevo, nonostante tentativi pastorali di riforma, producono solo una concezione clericalizzata e centralizzata della chiesa. Abbiamo qui a che fare con evidenti fratture, che mostrano chiaramente come l’idea di comunità non venga più percepita 4.

Una nuova consapevolezza emerge solo con i Riformatori 5. Il concilio di Trento tenta, come reazione, una nuova impostazione della parrocchia in una “ecclesiologia piuttosto pratica”, creando un reciproco rapporto tra pastore e gregge (parroco e parrocchia),  un rapporto articolato e controllabile territorialmente. Ci si limita però al rinnovamento della struttura 6.

Dell’originaria idea di communio si ritrovano ufficialmente tracce solo nei testi del concilio Vaticano II, anche se qui le comunità locali sono trattate ancor sempre in modo limitato 7. Ciononostante le immagini guida ecclesiologiche del concilio (chiesa come mysterium/sacramento, come popolo di Dio e come corpo di Cristo) contribuiscono, accanto alle affermazioni fornite dal concilio sulla chiesa locale nel senso della diocesi, anche a raccogliere conoscenze teologiche sulla comunità come chiesa in un luogo, per contrastare una dimenticanza della comunità, constatabile sul piano dogmatico-sistematico 8.

Nella chiesa cattolica abbiamo bisogno, in modo più che mai urgente, di una ecclesiologia delle comunità per non dimenticare le nostre comunità come luoghi della fede vissuta, per saperle valorizzare e per inserire la loro dignità teologica come leitmotiv nelle attuali pianificazioni. Senza una ecclesiologia della comunità segniamo il passo e pratichiamo, a livello teologico-sistematico, una ecclesiologia dimezzata. 




Note:

1) Sui molteplici tipi di comunità del Nuovo Testamento cfr. P. MÜLLER, Gemeinde: Ernstfall von Kirche. Annäherungen an eine historisch und systematisch bekannte Wirklichkeit, Innsbruck 2004, 30-240 (cit. Ernstfall); ID., Eine kompakte Theologie der Gemeinde, Münster 2007, 31-56 (cit. Theologie).
2) Cfr. Ernstfall 241-248; Theologie 56-62.
3) Sugli sviluppi delle comunità nell’età patristica cfr. Ernstfall 250-502; Theologie 63-76.
4) Sulle fratture del primo medioevo e dell’alto medioevo cfr. Ernstfall 503-567; Theologie 77-91.
5) Cfr. Ernstfall 569-609; Theologie 91-95.
6) Cfr. Ernstfall 610-627; Theologie 96-98.
7) Ad esempio, nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium (LG) 26 e 28. Certamente l’idea di communio  si risveglia nella teologia già a partire dalla metà del XIX secolo, ad esempio nell’opera di J. A. Möhler o di J.H. Newman. Sui nuovi approcci comunitari nell’ambito del Vaticano II cfr. P. MÜLLER, Ernstfall 630-664.
8) Cfr. Ernstfall 665-724; Theologie 101-112.





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Traduzione dal tedesco di Gianni Francesconi 
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