01/10/2021
496. CONVERSIONE: UNA SFIDA, UN'ESIGENZA In dialogo con p. Ugo Sartorio
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  1.          «Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo» (Qo 3,1). Perché questo è il tempo per l’uscita di questo libro? Che cosa ha fatto da innesco?

Devo confessare che l’innesco è stato del tutto occasionale. Nell’anno accademico 2019-2020 ho guidato con un collega un seminario annuale sul tema della conversione presso la Facoltà teologica del Triveneto nel corso di studi per la licenza in spiritualità. Questo il titolo: Conversioni e conversione. Pensare la conversione oggi tra religione, spiritualità e stili di vita, un approccio avvertito del fatto che ai nostri giorni il concetto di «conversione» si è ormai pluralizzato e che non solo si parla diffusamente di conversione in molte discipline non-teologiche, ma si parla sempre più di conversione al di là del significato solo religioso del termine (soprattutto in relazione agli stili di vita). Oggi, poi, ci si converte in tutte le direzioni, con una frequenza maggiore rispetto al passato, anche a motivo di un’instabilità antropologica e religiosa, sintonica con l’estrema variabilità del clima socio-culturale. Molti uomini e molte donne vanno in cerca di sempre nuove patrie spirituali (religiose o meno), e il fenomeno è vistoso, dà da pensare. Il libro vuole leggere e interpretare teologicamente questi fenomeni emergenti che comportano notevoli torsioni per il concetto di conversione.

 

  1.          Se fosse una lettera, chi sarebbe il destinatario? È pensata solo per i missionari e coloro che s’impegnano nel dialogo interreligioso, o può dire qualcosa a tutti coloro che si reputano cristiani/e?

Un libro, più che una lettera, è una fitta corrispondenza che gira intorno a un unico punto sul quale si vuole attirare l’attenzione dell’interlocutore, almeno quello immaginato. Nel caso di questo testo, non ho pensato in primo luogo né ai missionari (che da anni riflettono con passione e intelligenza sul tema) né a quelli che praticano il dialogo interreligioso (i quali sanno bene che il fine primario del loro impegno non è la conversione altrui), ma a un credente medio e di buona cultura che oggi si trova in imbarazzo a maneggiare il termine conversione al di là di certe sue inflessioni spirituali. L’accento va quindi sulla situazione di “impasse” del cristianesimo (e del cristiano) contemporaneo nel comunicare il Vangelo all’uomo d’oggi nella prospettiva della conversione e dell’ingresso nella comunità cristiana. Non solo questo processo si è inceppato e sembra essere improduttivo, soprattutto in Occidente, ma anche nella chiesa più di qualcuno dubita della sua legittimità. Parlare di questo “snodo”, da più prospettive, è interrogarsi sulla possibilità di futuro del cristianesimo stesso.

 

  1.          Che cosa fa sì, come leggiamo nel sottotitolo, che la conversione possa essere «una sfida» per il cristianesimo?

Oltre a quanto appena detto sopra, c’è da considerare che oggi molti sognano un cristianesimo elitario, di “pochi ma buoni”, sostanzialmente di cristiani tutti d’un pezzo dediti alla causa del Vangelo in una chiesa minoritaria e militante, barricata dentro perimetri uniformi e sicuri (si pensi, per gli Stati Uniti, alla Benedict Option di Rod Dreher). Lo spegnersi del cristianesimo diffuso, di popolo, dovrebbe portare sostanzialmente a una chiesa di soli convertiti, sul modello di successo di tante denominazioni carismatiche e pentecostali. La sfida, allora, consiste nel mantenere la tensione della conversione lontana da ogni tentazione di separatezza e di elitismo, perché, come continua a ripeterci papa Francesco, la chiesa è innanzitutto popolo santo di Dio in cammino, una «carovana solidale» (Evangelii gaudium, 87) che si prende cura di ogni fragilità. Certo, il concetto di conversione è da riabilitare, ma senza forzature identitarie e senza coltivare rivincite immaginarie: ad esempio, perché mai un cristianesimo in decrescita, come quello europeo, dovrebbe per forza di cose acquistare maggiore spessore qualitativo? Alla sfida dell’annuncio in vista della conversione (un tema oggi sotto la lente d’ingrandimento), si aggiunge quindi la sfida della configurazione di un’identità cristiana aperta, insieme chiara e dialogica, in stato di conversione permanente.

 

  1.          Quali nuove prospettive intende aprire, o riscoprire, il suo libro per la riflessione teologica?

Il libro apre un dialogo soprattutto con un certo settore di riflessione della sociologia religiosa, che per più motivi si è interessato al tema della conversione. Ricordo solo alcuni autori: Danièle Hervieu-Léger, Olivier Roy, Giuseppe Giordan, Loïc Le Pape, Samuel Blouin, le cui proposte vengono brevemente esposte, vagliate e assunte come stimolo per la riflessione teologica. Un altro capitolo importante è quello dedicato al pluralismo religioso, che è diventato ormai il nuovo orizzonte di tutta la teologia, in grado di risignificarne i classici punti di riferimento, tra i quali vi è certamente anche il concetto di conversione: si tratta di un discorso avviato da tempo ma sul quale c’è ancora parecchio da lavorare, almeno per evitare la messa in stand-by o anche la rimozione del nostro tema. Parlando poi del “diritto di convertirsi” il libro entra in tematiche alquanto spinose e non lo fa con toni irenici, ma cercando di fotografare con obiettività quanto sta accadendo nel magmatico e problematico scenario religioso globale. Comunque, se nel mondo occidentale la conversione è relegata nella sfera personale, per cui è carente una legislazione civile che la regoli (pur se ultimamente i flussi migratori suggeriscono di accelerare in questa direzione), ad altre latitudini religione e società sono ancora un tutt’uno e staccarsi dalla religione d’origine significa in qualche modo rinnegare la società di appartenenza. Ci sarà ancora molto da riflettere su questi due modi diversi, non credo però alternativi, d’intendere la libertà religiosa: questa deve tenere insieme versante soggettivo e dimensione comunitaria.

 

  1.          Nella Evangelii gaudium papa Francesco in un certo senso ha “coniato” l’espressione, oggi forse inflazionata, di «Chiesa in uscita». Come interpreta lei questo “carattere” ecclesiale alla luce del suo libro? 

«Chiesa in uscita» è ormai diventato uno slogan per ostentare il proprio essere allineati con il cambiamento ecclesiale in atto, il più delle volte in modo generico. Nella precomprensione di molti, anche ecclesiastici, si tratta di mettere in atto un nuovo stile missionario più estroverso, che porta tra la gente per riportare la gente alla comunità cristiana alla quale ha voltato le spalle, un’operazione di recupero che sostituisce all’esortativo e attendista “venite dentro” un atteggiamento proattivo. Ma è così vero che si tratta di andare fuori solo per portare dentro? Siamo sicuri che la “finalità prima” degli incontri con quelli che il teologo gesuita Theobald definisce «i chiunque», le persone comuni che ogni cristiano incontra nella trama delle relazioni quotidiane, debba essere il loro inquadramento nella chiesa? Bisogna forse chiarire che la chiesa e i cristiani hanno bisogno di “uscire” più per ritrovarsi che per riprodursi, per non spegnere e dissipare la propria identità in estenuanti e sterili cammini autoreferenziali. L’uscire, inoltre, comporta più una postura mentale che fisica e geografica, perché non si tratta di superare oceani o di imparare lingue diverse, ma piuttosto di decentrarsi e accostare ogni alterità rimanendo “baricentrati” sul Vangelo. Il tutto con assoluta gratuità, con un autentico interesse disinteressato per l’altro, chiunque egli sia.

 

  1.          A un certo punto nel suo libro si parla della «monasticizzazione della conversione», una sorta di “slittamento” che induce a pensare la conversione come propria (se non esclusiva) della vita consacrata. A tal proposito secondo lei – che, essendo francescano, vive ogni giorno questa dimensione – quale ruolo può svolgere oggi la scelta di vita consacrata quale “provocazione” e “profezia” per richiamare a una seria decisione di fede?

Ringrazio per questa domanda che mi sollecita non solo come studioso ma anche come religioso. Appartengo alle ultime truppe di quella generazione a cui in noviziato si insegnava – quasi quindici anni dopo la chiusura del concilio Vaticano II – la dottrina della “superiorità” della vita consacrata rispetto alle altre forme di vita cristiana. Per fortuna ne è passata di acqua sotto i ponti e molte cose sono cambiate, anche se purtroppo al “pregiudizio elitario” del passato (alcuni sono “di più” e perciò altri “di meno”) si è sostituito un vago e impreciso “pregiudizio democratico”. Cosa voglio dire? Se è vero che tutti i cristiani hanno in forza del battesimo uguale dignità, va colta e motivata anche quella ricchezza irrinunciabile che è la diversità, legata alla specificità di ogni vocazione. Mi pare che ancora oggi nella chiesa manchi un linguaggio sereno e condiviso per dire la diversità senza che questa richiami forme anche dissimulate di deprecata superiorità o di fastidiosa asimmetria.

Ma vengo più precisamente alla domanda, ricordando come papa Francesco, fin dall’inizio del suo pontificato, abbia richiamato i consacrati sul fatto che il loro specifico non è la radicalità (che riguarda ogni cristiano e che nessuno può sequestrare per sé), quanto piuttosto la profezia: «La radicalità evangelica non è solamente dei religiosi: è richiesta a tutti. Ma i religiosi seguono il Signore in maniera speciale, in modo profetico» (La Civiltà Cattolica 165/1 [2014] 5). Nel libro ho citato un passaggio di un discorso di papa Benedetto XVI al Collège des Bernardinsa Parigi (nel 2008) che ne coglie bene il senso:

Si dice che erano orientati [i monaci che hanno fatto l’Europa] in modo “escatologico”. Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo.

Questo, anche oggi, è il dono della vita consacrata ad ogni cristiano, cioè uno “sguardo lungo” sulla storia, capace di cogliere dietro le molte increspature e involuzioni la sua autentica destinazione, e uno “sguardo in profondità” sul mondo nuovo che ogni giorno lo Spirito ricrea.  

 

  1.          Guardando al futuro, ha già “in cantiere” qualche nuovo lavoro o un desiderio “nel cassetto”?

Nel cassetto ci sono tante briciole che però non fanno ancora un pane. Certo, sto percorrendo molti sentieri di riflessione, ma senza un disegno unitario, qualcosa di preciso che faccia da collante. Devo dire che sto seguendo con una certa apprensione l’“esplosione” del tema della sinodalità, di cui si parla a destra e a manca come se si trattasse della panacea di tutti i mali della chiesa. C’è il rischio molto concreto che a breve si passi dalla sovraesposizione all’irritazione, dall’euforia alla frustrazione, che si enfatizzi un nuovo slogan ecclesiale a copertura di un sistema non così disposto a cambiare, a convertirsi (e riecco la conversione!). Sono passati ormai otto anni dalla Evangelii gaudium, che usa una sola volta il termine sinodalità portando come esempio per i cattolici lo stile delle chiese orientali (n. 246) ma è un documento tutto intriso di spirito sinodale, e non si sono visti avanzamenti significativi. C’è in giro piuttosto un cristianesimo stanco, lamentoso e fin troppo parolaio, a volte anche fazioso e autodistruttivo. C’è bisogno, chi potrebbe negarlo, di più sinodalità, ma vanno evitate derive sloganistiche e attese miracolistiche: la sinodalità non è una tecnica da imparare una volta per tutte, quanto piuttosto un modo di essere chiesa che permette di volta in volta allo Spirito di manifestarsi. In prospettiva sinodale allargata (ad extra), poi, la grande preoccupazione è per il destino comune che attende l’umanità. Oltre il tunnel della pandemia, che è stato devastante a molti livelli, anche per la vita ecclesiale, dobbiamo insieme prefigurare e costruire un futuro ospitale per tutti, cominciando a cambiare e a convertirci in prima persona. Le piste che ci sono state offerte dall’enciclica Fratelli tutti sono la via più sicura per fare questo, per realizzare «un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole» (FT 6).

 

 

 

 

 

 

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