21/04/2004
70. Eros e Agape di Rosino Gibellini
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La prima lettera enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est, ha reso attuale un tema filosofico e teologico affascinante. Il papa si domanda se eros, l’amore di desiderio, sia in contrasto con la concezione cristiana dell'amore, e cioè con agape, l’amore che dona.

C’era, e c’è, tutta una letteratura teologica e religiosa che ama le contrapposizioni, e che le ha applicate anche a queste due modalità dell’amore. È celebre, sotto questo profilo, l’ampia trattazione del teologo luterano svedese Andres Nygren (1890-1975), che nell’opera dal titolo Agape e Eros: l’idea cristiana di amore, pubblicata a Stoccolma in due volumi, rispettivamente nel 1930 e nel 1937, e che ha conosciuto una vasta diffusione nell’edizione inglese del 1953 edita da Philip Watson in un solo volume: in quest’opera si afferma la contrapposizione tra eros e agape. Secondo il teologo di Lund, eros è l’amore ascendente ed è una invenzione umana; agape è l’amore discendente, di cui ci parla la rivelazione divina: «essi esprimono due diversi atteggiamenti della vita, opposti tra loro: l'atteggiamento egocentrico, e l'atteggiamento teocentrico proprio della religione».

Eros è teorizzato come amore di desiderio e come amore ascendente nel dialogo platonico del Simposio (IV sec. a. C.), e, anche secondo la recente interpretazione di un dotto studioso di Platone e della letteratura filosofica dell’antichità come Giovanni Reale, «non ha nulla a che vedere con l’Agape cristiana» (cf. Eros dèmone mediatore e il gioco delle maschere nel “Simposio” di Platone, 2005).

L’enciclica si colloca lungo un’altra linea interpretativa, non di contrapposizione, ma di integrazione. Scrive il papa: «In realtà eros e agape – amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell’unica realtà dell’amore, tanto più si realizza la vera natura dell’amore in genere» (n. 7). In questo senso l’enciclica cita il Cantico dei cantici (V/IV sec. a.C.), che esprime in forma altamente poetica l’amore forte e fedele tra uomo e donna – un giovane beduino e la sua pastorella bruna, la Sulammita –, ma che nelle ultime righe, parlando dell’amore che sfida la morte e il caos, lo esprime, nella versione greca dei Settanta (I sec. a.C.), con il termine di agape. Parola che sarà raccolta dagli scrittori del Nuovo Testamento (I sec. d.C.).

Il Nuovo Testamento è una storia d’amore, e in greco amore si dice (semplificando) eros. Ma nel Nuovo Testamento non si trova mai la parola eros, bensì, circa un centinaio di volte, la parola agape. La parola eros era troppo compromessa, e gli scrittori del Nuovo Testamento hanno operato una innovazione linguistica, creando praticamente da una radice disponibile nella lingua greca la parola agape, che esprime l’amore donante di Dio. È l’amore donante, che rifulge nella croce di Cristo.

Ma agape non si oppone a eros. Si domanda l’enciclica: c’è eros in Dio? E risponde: sì, anche in Dio c’è eros. Il suo amore per l’umanità è un amore appassionato, e dunque, un amore erotico, che si coniuga con agape. Citando un testo dell’opera Sui nomi divini (V sec. d.C.) dello Pseudo-Dionigi, l’enciclica afferma: «Dio ama, e questo suo amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape» (n. 9). Dio è amore, secondo l’alta affermazione della Prima lettera di Giovanni (4,1), è caritas, è agape, amore che dona, ma insieme amore appassionato per l’umanità. E l’uomo è chiamato a corrispondervi con il suo amore, nella modalità dell’eros e nella modalità dell’agape, con la sua passione umana dalle svariate sfaccettature, e con la sua capacità di donazione.

Questa linea di pensiero, che rifugge da facili e diffuse contrapposizioni, si arricchisce, se inserita nella grande teologia del XX secolo. Si potrebbero citare qui testi affascinanti di Tillich, di Guardini, di Küng, della teologia femminista. Mi limito al testo di Bonhoeffer in una lettera dal carcere di Berlino-Tegel, indirizzata all’amico Eberhard Bethge, che gli aveva fatto visita con la moglie Renate, dove l’amore di Dio è presentato come il cantus firmus, l’intonazione di fondo della polifonia della vita, cui fa da contrappunto il nostro amore umano: «È però il pericolo di ogni profondo amore erotico che per esso si perda, vorrei dire, la polifonia della vita. Intendo questo: Dio e la sua eternità vogliono essere amati con tutto il cuore; non in modo che ne risulti compromesso o indebolito l’amore terreno, ma in certo senso come il cantus firmus, rispetto al quale le altre voci della vita suonano come contrappunto. Uno di questi temi contrappuntistici, che hanno la loro piena autonomia, e che sono tuttavia relazionati al cantus firmus, è l’amore terreno. Anche nella Bibbia c’è infatti il Cantico dei cantici, e non si può veramente pensare amore più caldo, sensuale, ardente di quello di cui esso parla (cf. 7,6); è davvero un bene che faccia parte della Bibbia, come contrasto per tutti coloro per i quali lo specifico cristiano consisterebbe nella moderazione delle passioni (dove esiste mai una tale moderazione nell'Antico Testamento?). Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo vigore. Per parlare con il Calcedonese, l’uno e l’altro sono “indivisi eppure distinti”, come lo sono in Cristo la natura divina e la natura umana. La polifonia in musica non ci sarà magari così vicina e importante proprio per il fatto di costituire il modello musicale di questo fatto cristologico e dunque anche della nostra vita Christiana? Ho concepito questi pensieri solo ieri, dopo la tua visita. Capisci quello che intendo dire? Vorrei pregarti di far risuonare con chiarezza nella vostra vita insieme il cantus firmus, e solo dopo ci sarà un suono pieno e completo, e il contrappunto si sentirà sempre sostenuto, non potrà deviare né distaccarsene, e resterà tuttavia qualcosa di specifico, di totale, di completamente valido in se stesso. Solo quando ci troviamo in questa polifonia la vita diventa completa e, contemporaneamente, sappiamo che non può succedere nulla di funesto finché viene mantenuto il cantus firmus».




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Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
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