05/12/2003
25. Esiste un \Dio delle donne\"?" Riflessioni a margine di un dibattito televisivo di Marinella Perroni (Pontificio Ateneo S. Anselmo – Roma)
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La trasmissione televisiva “L’infedele”, diretta da Gad Lerner su La 7, ha affrontato recentemente il tema “Il dio delle donne”. Hanno partecipato alla discussione la filosofa Luisa Muraro, la biblista Marinella Perroni, la storica della filosofia Franca D’Agostini, la medievalista Chiara Frugoni, don Dario Vitali della Gregoriana e Rosino Gibellini.
Pubblichiamo una riflessione su questa tematica di Marinella Perroni, docente di Nuovo Testo alla facoltà di teologia di Sant’Anselmo di Roma.



Il fatto che su una rete televisiva italiana (La 7) sia stato proposto un dibattito su donne e Dio ha rappresentato, per quanto ne so, una assoluta novità. Infatti, non soltanto la teologia italiana continua a mostrarsi abbastanza restia ad aprirsi, se non altro interlocutoriamente, alla teologia di genere o, più generalmente, alla ricaduta teologico-ecclesiale del pensiero femminista, ma anche la cultura cosiddetta \laica" sembra aver del tutto rimosso la istanze più serie del femminismo. Personalmente, sono uscita da quel dibattito, a cui ero stata invitata in qualità di teologa cattolica, più perplessa che soddisfatta. E per questo desidero formulare alcuni interrogativi che possano favorire una riflessione più attenta e, soprattutto, più specificamente teologica su un tema che mi sembra nodale per il pensiero teologico. Mi limito dunque alla questione centrale, "Esiste un dio delle donne?", sollevata a partire da un recente volume della filosofa Luisa MURARO (Il dio delle donne, Mondadori, Milano 2003) alla quale va certamente riconosciuto, tra gli altri, anche il merito di essere riuscita a far arrivare al grande pubblico un tema che da decenni le teologhe femministe tentano di sollevare almeno in ambito scientifico.

Muraro prende le mosse dall’esperienza di alcune mistiche del tardo medioevo e dell'età moderna come Guglielma Boema e Margherita Porete e ne fa una lettura ritenuta discutibile dalle stesse studiose di storia della spiritualità femminile, ma comunque suggestiva, condotta con il registro della "filosofia della differenza" di cui è, ella stessa, la più originale teorizzatrice. Secondo Muraro, nel dialogo tra queste mistiche e Dio, così eccentrico rispetto alle definizioni dell'umano e del divino proposte dai filosofi, dai legislatori e dai preti del patriarcato, Dio viene alla vita, alla parola e al mondo passando per la relazione con una donna. Si esprime cioè "in lingua materna", riproducendo così quella stessa sparizione dell'umano (cioè del maschile) evocata dalla misteriosa scena dell'Annunciazione: Dio si intromette nel dialogo tra una donna e un angelo (cioè due non-uomini) e prende carne nel corpo di una donna. L'esperienza attraverso la quale le mistiche evadono non dal reale, ma dalla sua monotonia, dalla sua fissità e dalla sua sordità è un ingravidarsi di Dio che restituisce a Dio la libertà di essere contingente e lo fa uscire dalla cattività a cui lo hanno costretto le gabbie metafisiche e logiche del pensiero maschile. Mi limito a questa brevissima, e quindi ingiusta, sintesi perché presentare criticamente il pensiero di Luisa Muraro richiederebbe un attento esame della categoria della differenza con la quale la filosofa apre una via di fuga dai rigori della modernità e dai clamori della postmodernità seducente, ma artificiale dato il suo schematismo semplificatorio. Quanto qui mi interessa, invece, è formulare alcuni nuclei problematici intorno alla questione del Dio delle donne.

1. Anche se non sono del tutto persuasa che il Dio delle donne sia quello proposto da Luisa Muraro, sono convinta che esiste "un d/Dio delle donne". La doppia iniziale, minuscola e maiuscola, non è un vezzo, ma sta ad indicare il doppio livello del problema: di quale d/Dio parliamo? di quello di una insindacabile esperienza spirituale soggettiva o anche di quello che trova oggettivazione condivisibile in una tradizione religiosa anche scritturale?
Non c’é dubbio che d/Dio è di chi lo dice. Soprattutto per le tre grandi tradizioni scritturali, ebraismo, cristianesimo e islamismo, d/Dio non accade al di fuori dell'evento storico e, quindi, linguistico, verbale o no poco importa, e il d/Dio dell'esserci precede sempre il d/Dio dell'essere. Anche se ciò non significa assolutamente, a mio avviso, che l'esserci appartiene al piano di un'esperienza che rinuncia al pensiero e l'essere a quello di un pensiero che amputa da sé l'esperienza. E' questa la complessa rivoluzione epistemologica in atto, di cui il femminismo e il pensiero delle donne hanno certamente rappresentato uno (si badi bene, non l’unico) dei vettori decisivi perché, con il rifiuto di attribuire l'esperienza al mondo delle donne e il pensiero a quello dei maschi, hanno fatto saltare la più odiosa e insidiosa delle dicotomie, quella intraumana, tra maschio e femmina. Se d/Dio avviene dunque nell'evento linguistico, d/Dio è, perciò, di chi lo dice, sia esso un singolo o un gruppo, un uomo o una donna. Il reale problema, allora, non è se esiste o meno un d/Dio delle donne, ma in che misura è permesso alle donne dire d/Dio, quale valore "politico", oltre che soggettivo, hanno la loro consapevolezza del divino e la loro parola su d/Dio, quanto pesa questa parola, cioè quanto entra nei circuiti comunicativi in cui il dire Dio attiene all'esperienza collettiva, sia essa teologica o cultica, spirituale o pastorale.

2. E' però vero che non è possibile pensare un d/Dio delle donne in modo generico, come se le donne rappresentassero un universo omogeneo che si definisce a partire dalla loro appartenenza di sesso/genere. Le donne, che hanno preteso di rovesciare il monosessismo in nome dell'affermazione del "plurale" non solo in quanto fenomeno, ma come imprescindibile presupposto ermeneutico, non possono certo rinunciare alla categoria del "plurale" nel momento in cui propongono la loro soggettualità interpretativa. E’ una contraddizione inaccettabile. Ho partecipato quest'estate al II Sinodo europeo delle donne tenutosi a Barcellona. Denominatore comune delle 700 donne lì convenute era una fortissima esigenza di spiritualità, mai disgiunta, però, da un profondo rispetto, anzi, da una forte attrazione per la diversità di modi di ragionare su d/Dio/Dea e di vivere l'esperienza religiosa in quanto condizione unica della comunicazione spirituale.

3. A mio avviso, però, la questione più seria è un'altra. La dicibilità di d/Dio non attiene soltanto alla comunicazione. Pretende condivisione. La tensione tra l'indicativo della confessione e l'imperativo della prescrizione si può risolvere soltanto a partire dalla ricerca di un consenso condiviso. E' l'unica condizione perché dire d/Dio non si traduca ancora una volta in un dire i/Io del soggetto, come è avvenuto nel pensiero teologico monosessista. Ancora una volta, dunque, il problema cruciale non è soltanto il diritto inalienabile di ciascuno al suo d/Dio, ma è quello della tradizione della fede, cioè della possibilità di sentirsi parte di una traditio fidei realmente condivisa. E' chiaro che qui non entra in gioco soltanto il d/Dio delle donne, perché la necessità di una traditio fidei condivisa sta imponendo oggi di ripensare radicalmente tutte le dinamiche inclusione-esclusione, dentro-fuori, che concorrono alla formazione e al progresso di una tradizione. Ha ragione Luise Schottroff quando avverte che monosessismo non è diverso, per esempio da eurocentrismo, antisemitismo o razzismo.

4. Per quanto riguarda più da vicino le chiese cristiane, esse hanno sempre garantito la loro sussistenza solo grazie alla loro capacità inclusiva. Non tanto o non soltanto in termini numerici, ma soprattutto in termini qualitativi, cioè favorendo osmosi e dialettiche con culture estranee prima ancora che straniere. La "didascalia" delle donne, come la loro ministerialità, non è suppletiva, ma soprattutto il loro d/Dio non è un palliativo o un diversivo "per sole donne". Alcune credenti, troppe forse, hanno deciso di uscire dalle chiese e di andare in cerca del loro d/Dio fuori dal flusso delle tradizioni. Alcune hanno assunto il vezzo tutto maschile di proclamarsi fieramente agnostiche rispetto però a una visione di Dio che è in realtà una caricatura perché risulta dalla pericolosa miscela di catechismo e clericalismo. Altre, infine, hanno preteso di dire Dio facendo propria la lingua paterna della tradizione, ma declinandola e, quindi, risignificandola. Le teologhe cristiane hanno intrapreso questa strada. Un percorso lungo come é lunga, inevitabilmente, una trasformazione epocale. Il loro sforzo, non sempre è capito, ma spesso è condiviso anche da teologi capaci di risignificare la tradizione. Paradossalmente, i più estranei a questo sforzo della teologia critica sembrano a volte proprio i laici, perché restano impigliati in quell'intreccio di catechismo e clericalismo che assicura un facile repertorio di luoghi comuni, ma non rende certo ragione della fatica di pensare la fede dentro la storia.

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Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)
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