06/05/2019
430. FORZA, NON TUTTO È PERDUTO. C'È SEMPRE L'ALDILÀ di Roberto Righetto
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Scrive Xavier Lacroix nel suo ultimo libretto Abbiamo ancora un’anima? che se si dovesse fare un sondaggio sull'aldilà all'uscita delle messe domenicali la credenza nella reincarnazione avrebbe la stessa percentuale della risurrezione della carne. Probabilmente non ha tutti i torti. Il filosofo e teologo francese, uno dei massimi esperti al mondo sulle questioni della corporeità, della sessualità e della famiglia, dà conto anche di un'inchiesta realizzata pochi anni fa fra i cattolici francesi: il 10% ha dichiarato di credere nella risurrezione e l'8% nella reincarnazione; per il 55%, poi, dopo la morte «c'è qualcosa, ma non sanno cosa», mentre per il 26% «non c'è niente». Per non pochi la vita proseguirebbe in un'altra forma, forse in un altro corpo o un altro organismo.

Di fronte a questa prospettiva Lacroix si ribella: nulla di più estraneo al cristianesimo dell'idea di reincarnazione. «Cosa sarebbe un'anima – si chiede – senza il suo ancoraggio corporeo?». A differenza del buddhismo, che fa coincidere l'anima con «l'anima del mondo» e cancella ogni principio di persona e di individuazione, secondo la nozione cristiana di anima «l'interiorità è reale e la differenza individuale rinvia a una continuità che prosegue al di là della morte». Nel mondo ultraterreno saremo perciò chiamati alla comunione, non alla fusione: «Saremo volto, sguardo, voce, il che permette agli uni e agli altri di rallegrarsi reciprocamente delle proprie vite, e non di perdersi in un Grande Tutto». Non a caso Lacroix cita Péguy che parlava di «anima carnale». Sulla scia di san Paolo, soprattutto della prima Lettera ai Corinzi, ove l'apostolo delle Genti spiega il concetto di “corpo spirituale” (pneuma)che va oltre quelli di corpo (soma)e di anima (psyché),la fede nella risurrezione della carne significa riconoscere che l'azione divina si realizza nel cuore della debolezza umana. Ci costringe a essere realisti.

Spesso invece, quando si parla di risurrezione (e nelle nostre chiese dovremmo farlo più spesso, considerato il risultato del sondaggio sopra citato), lo si fa in termini fumosi e astratti. «Il discorso – dice Lacroix – si fa evanescente, figurato, sentimentale. Ci limitiamo a immagini del paradiso che hanno dato luogo a capolavori artistici, ma a cui non crede veramente nessuno. Non si tratta di raffigurare, ma di affermare che il contenuto della speranza cristiana non è contraddittorio».

Vengono poi delineate sei qualità del corpo dei risorti: la relazione, il ritmo, la bellezza, la luce, il cosmo e la memoria. Essere corpo significa in primo luogo essere relazione, collegati ma diversi. Poi, il corpo è ritmo: ritmo del corpo, del respiro, del camminare, dell'esistenza come tale. «Perché non concepire un'esistenza interamente musicale, in altri termini la musica come anticipazione della vita a venire?». Il richiamo è alla suggestione avanzata da sant'Agostino nel De musica. Allo stesso modo, la bellezza di un volto o di un corpo che riscontriamo nella vita terrena è prefigurazione dell'aldilà. Poi, c'è la luce. Oscar Cullmann ha parlato di «materia di gloria» e Jean Guitton di «materia celeste». Per Lacroix quest'ultima può essere immaginata come luminosa: come gli scienziati sanno che fra le nozioni di materia e di luce esistono molti passaggi, per i teologi la luce è intermediaria fra Dio e il mondo. L’abito degli eletti sarà allora splendente e luminoso. La quinta caratteristica è il cosmo, e qui torna l'idea di bellezza del mondo di oggi come promessa del mondo nuovo, in cui la natura non sarà abolita ma riconciliata. Infine, la memoria, a significare il fatto che quanto accaduto nella nostra vita non sarà cancellato: «La gloria non abolirà i segni e le ferite della storia. Il Risorto stesso ha mostrato le sue piaghe ai discepoli e attraverso di esse Tommaso l'ha riconosciuto». 

La pensava così anche Jacques Maritain, che nel libro Le cose del cielo affermava che «non si può pensare che tutto ciò che è passato nello scorrere del tempo, carico di tanta bellezza, amore e infelicità, sia perduto per sempre». Analogamente, quando nel 1996 Avvenire promosse un sondaggio sull'aldilà, emerse come risposta prevalente certo l'immagine del luogo in cui si espiano le colpe e vengono riconosciuti i meriti, ma soprattutto quello di una ricomposizione degli affetti. La misericordia divina era il dato preponderante (il 45%) e subito dopo la possibilità di ritrovare le persone care (39%), mentre il 18% pensava a uno spazio indistinto in cui si vive l’esistenza ultraterrena e solo l'1% a un luogo senza nessuna consolazione.

La speranza che nulla di ciò che abbiamo vissuto di bello e autentico vada smarrito pare essere dunque ciò che distingue oggi più di ogni altra cosa la visione dell'aldilà nei cristiani.






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