15/07/2002
11. Il percorso filosofico di Michel Henry (1922-2002)
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È deceduto in data 3 luglio u.s. nella città di Albi il filosofo francese Michel Henry, che ha elaborato anche una filosofia del cristianesimo. Del filosofo francese l’Editrice Queriniana ha pubblicato l’importante opera Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo del 1996, edita in lingua italiana nella Biblioteca di cultura della Queriniana nel 1997. L’opera è stata curata dal prof. Giuliano Sansonetti dell’Università di Urbino, che in questo intervento ripercorre la meditazione filosofica del maestro francese.


Nei giorni scorsi è morto in Francia Michel Henry, figura di prima grandezza della fenomenologia e della filosofia francese contemporanee. Aveva ottant’anni, essendo nato a Haiphong, nel Vietnam, nel 1922. Tornato in Francia, dopo essere rimasto orfano del padre, capitano di lungo corso, che egli non ha fatto in tempo a conoscere – per cui se lo immaginava come un personaggio di Conrad – vi ha fatto tutti i suoi studi, laureandosi in filosofia. Ha quindi inizio la sua produzione filosofica, con un lavoro su Spinoza, presentato nel ’43 per il conseguimento del Diploma di studi superiori. Il lavoro viene proposto per la pubblicazione, ma le vicende della guerra e la partecipazione di Henry alla resistenza, ne rinviarono la realizzazione. Caduto nell’oblio, il testo è stato pubblicato solo nel 1997, con il titolo Le bonheur de Spinoza. La partecipazione alla resistenza ha costituito anche per il filosofo un’esperienza decisiva, che egli stesso così interpreta, con riferimento a quella che costituirà il motivo conduttore di tutto il suo pensiero, il carattere invisibile della vita: «Durante tutto questo periodo, è stato necessario dissimulare quel che si pensava e, più ancora, quel che si faceva. Grazie a questa ipocrisia permanente, mi si rivelava l’essenza della vera vita, ossia che essa è invisibile». Finita la guerra, mentre molti dei suoi coetanei si davano alla vita politica, Henry torna a ritirarsi negli studi, intraprendendo una svolta radicale. Infatti la formazione kantiana e cartesiana, che egli aveva ricevuto in gioventù, cede ora il passo agli interessi che si sviluppano soprattutto verso la fenomenologia husserliana, di cui Sartre e Merleau-Ponty sono nella Francia del dopoguerra i ferventi banditori. Lo studio di Spinoza ha tuttavia lasciato le sue tracce, che Henry così esprime: «Sono stato molto influenzato da Spinoza che dice che la saggezza non è una meditazione della morte, ma una meditazione della vita».
Henry, come del resto Emmanuel Lévinas e Paul Ricoeur, è stato dunque «alla scuola della fenomenologia», per battere tuttavia molto presto una propria strada, diversa non solo da quella dei maîtres à penser del dopoguerra, ma anche da quella di un Lévinas e un Ricoeur. Il suo rapporto con la fenomenologia, se da un lato appare più continuo, fors’anche più esclusivo che non in questi ultimi, si propone tuttavia in termini più conflittuali, tesi a configurare un vero e proprio rovesciamento della prospettiva fenomenologica, nel senso di un primato accordato alla sfera emotiva e affettiva rispetto a quella conoscitiva e intenzionale. L’intenso sforzo di pensiero, segretamente perseguito in un più che decennale ripensamento e rielaborazione dei grandi temi della filosofia occidentale, sfocia in quella che rimane la sua opera maggiore, L’essence de la manifestation, che costituisce la sua thèse d’Etat. Pubblicata nel 1963 (2 voll., P.U.F., 19902), essa delinea e compendia la prospettiva teorica di Henry, incentrata sulla Vita concepita come assoluta immanenza e, insieme, assoluta manifestazione. Donde l’antinomia profonda tra una nozione di verità e di manifestazione incentrate sul “fenomeno”, inteso come ciò che appare nel “fuori”, nell’orizzonte del mondo, e una nozione di manifestazione tutta immanente, in cui la vita si manifesta e si coglie immediatamente nel suo pathos, nella sua affettività, non essendoci nella vita iato, frattura, tra l’essere e l’apparire: la vita non si pone mai a distanza da sé, per farsi visibile. Per questo Henry ama ripetere che «la vera vita è invisibile». A L’essence de la manifestation fa seguito nel 1965, quale ideale complemento, Philosophie et phénoménologie du corps (P.U.F., Paris 19872), concepita infatti come un parte dell’opera precedente.
Nel frattempo ha avuto inizio l’insegnamento universitario, che Henry legherà strettamente all’Università di Montpellier, non avendo mai voluto accettare altre proposte apparentemente più importanti.
Solo nel 1976 esce un’altra opera decisiva nell’itinerario speculativo di Henry: il ponderoso Marx (2 voll., Gallimard, 19912), in cui il filosofo conduce una lettura del pensiero di Marx assolutamente controcorrente, non solo rispetto alla tradizionale vulgata marxista, ma anche, e soprattutto, a quella allora dominante in Francia di Louis Althusser. Già queste opere, nella loro ampiezza e complessità, sono tali da meritare sicuramente a Henry un posto di primo piano nel panorama filosofico contemporaneo. E tuttavia la sua fama non è pari all’importanza delle sue opere. La scelta appartata di Henry, anche come sede universitaria, la difficoltà dei suoi libri, che non si prestano a facili semplificazioni, non favoriscono certo la notorietà.
In compenso la conoscenza del suo pensiero, anche internazionalmente, non fa che crescere. All’inizio degli anni ’80 è invitato a tenere dei corsi presso le università di Tokio e di Osaka, da cui scaturirà l’importante Généalogie de la psychanalise (P.U.F., 1985; trad. it., Genealogia della psicanalisi, a cura di Valeria Zini, Ponte alle Grazie, Firenze 1990) il cui sottotitolo, Le commencement perdu, chiarisce che non si tratta tanto di un’interpretazione del pensiero di Freud, quanto di una ricerca genealogica tesa appunto a individuare l’inizio perduto dell’avventura dell’io e della coscienza, in contraddizione con la vita. Le tappe di questa ricerca genealogica sono scandite dalle voci decisive della modernità: Descartes, Kant, Schopenhauer, Nietzsche, Freud. A quest’opera fa seguito Phénoménologie matérielle (P.U.F, 1990; trad. it. Fenomenologia materiale, a cura di Pietro D’Oriano, Guerini e Associati, Milano 2001), in cui il filosofo definisce in tutta chiarezza la propria prospettiva fenomenologica in dissenso da quella husserliana.
Sarebbe tuttavia far torto a Michel Henry se, accanto alle opere di chiaro e forte impegno teoretico, non si accennasse alla sua attività di saggista, nel più puro stile francese. Esemplari in questo senso sono La barbarie (Grasset, Paris 1987), un saggio sui nefasti della società contemporanea; Voir l’invisible – sur Kandinsky (Julliard, Paris 1988; trad. it. Vedere l’invisibile. Saggio su Kandiskij, a cura di Roberto Cossu, Guerini e Associati, Milano 1996), un’affascinante interpretazione dell’opera del pittore russo; Du communisme au capitalisme: théorie d’une catastrophe (Odile Jacob, 1990), ove è svolta un’interpretazione filosofica radicale della dissoluzione del mondo comunista, in stretta continuità con le analisi del Marx. Il filosofo è stato tuttavia anche un notevole romanziere, al punto che la sua creatività di narratore ha preceduto e accompagnato costantemente quella di studioso e di pensatore originale. Il suo primo romanzo, Le Jeune Officier, è del ’54 (Gallimard), del ’76 è L’Amour aux yeux fermés (Gallimard), che gli valse l’importante premio letterario Renaudot, dell’81 Le Fils du roi (Gallimard), per arrivare a Le Cadavre indiscret (Grasset, 1996). Del resto la sua forte sensibilità letteraria appare a ogni piè sospinto nelle opere propriamente speculative.
Giungiamo così alla produzione dell’ultimo decennio, caratterizzata da due libri fondamentali: C’est moi la vérité. Pour une philosophie du christianisme (Seuil 1996; trad. it. Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo, a cura di Giuliano Sansonetti, Queriniana, Brescia 1997) e Incarnation. Une philosophie de la chair (Seuil 2000; trad. it. Incarnazione. Una filosofia della carne, a cura di Giuliano Sansonetti, SEI, Torino 2001), che esprimono l’incontro e il confronto diretto del pensiero di Henry con il cristianesimo. Le due opere, diverse nei loro contenuti, rappresentano tuttavia una sorta di dittico il cui tema di fondo è rappresentato dall’interpretazione filosofica del cristianesimo, svolta alla luce di quella fenomenologia della vita che il filosofo è venuto elaborando nel corso della sua intensa e rigorosa riflessione. Interpretazione ‘filosofica’ significa innanzitutto che la ricerca non è guidata da preoccupazioni di ordine dottrinale o di aderenza al dato rivelato in quanto tale, ma da una comprensione libera da presupposti che non siano quelli di una riflessione eminentemente razionale.
In C’est moi la vérité il discorso verte essenzialmente sul problema circa la “verità” del cristianesimo, su quella verità di cui il Cristo non solo si è fatto assertore e interprete, ma che egli stesso – secondo le parole dell’evangelista Giovanni – ha dichiarato di essere: «Io sono la via, la verità, la vita». La riflessione di Henry s’incentra appunto sul nesso profondo istituito tra questi tre termini, con l’accento che viene a cadere, più che sul termine di verità, su quello di vita. Che cosa significa dunque una verità che è al tempo stesso vita? Muovendo da questo interrogativo la riflessione si sviluppa come un grande commento al Vangelo di Giovanni, i cui fuochi sono rappresentati da un lato dall’affermazione di Cristo citata, dall’altro dal Prologo allo stesso Vangelo, al cui centro sta il rivelarsi di Dio come Verbo incarnato. Di qui la tesi essenziale dell’opera: la verità che il Cristo dichiara di essere altro non è che l’autorivelarsi di Dio nel Verbo, più precisamente, il suo rivelarsi come Vita. Verità e vita sono dunque, nella lettura di Henry, strettamente inscindibili. La verità del cristianesimo viene dunque a identificarsi con la verità stessa della vita, ove per verità s’intende il fatto che la vita è, nella sua essenza, autorivelazione e autogenerazione, dal momento che la vita si rivela nel suo stesso generarsi.
In Incarnation, come dice chiaramente il titolo, il discorso si concentra sul tema dell’incarnazione, rimasta in secondo piano nell’opera precedente. Non si tratta tuttavia di una ricognizione di carattere teologico, sebbene i testi fondanti del cristianesimo e della sua tradizione siano costantemente tenuti presenti. L’opera verte piuttosto su quella “costellazione di problemi” che fanno capo all’incarnazione, al che cosa significhi essere incarnato, condizione a cui per la fede cristiana si è sottoposto lo stesso Figlio di Dio. Donde la necessità di una filosofia della carne, in mancanza della quale il termine stesso d’incarnazione risulta totalmente incomprensibile. Al centro della riflessione sta dunque l’importante distinzione, già operata da Husserl, tra “corpo” e “carne”, per cui essere incarnato non significa semplicemente “avere un corpo”, quasi che il corpo sia un qualcosa di esterno al nostro essere profondo. Incarnazione, scrive il filosofo, «non consiste nell’avere un corpo […ma] nel fatto di avere una carne, forse, ancor più, nell’essere carne». Solo una tale concezione dell’incarnazione ci permette di entrare nel mistero cristiano per eccellenza, del Dio incarnato. Cristo dunque non è semplicemente il Verbo che ha assunto un corpo, ma il Verbo di Dio incarnato. Ciò significa che la carne di Cristo non ha solo l’apparenza di una carne umana, ma è realmente umana, perché capace come quest’ultima di sentire e patire.
Michel Henry ha avuto il raro privilegio di un’operosità che lo ha accompagnato fino alla morte: il suo ultimo libro, appena terminato, che prosegue questa linea di riflessioni, Les paroles de Jesus, sarà in libreria all’inizio di ottobre. Per questi motivi il suo pensiero può essere legittimamente ascritto a quella “svolta teologica ” della fenomenologia francese di cui tanto si è parlato, a condizione di togliere a tale qualificazione ogni connotato critico e negativo.
Il 4 maggio scorso Michel Henry doveva essere all’Università di Bologna, per il conferimento della Laurea honoris causa. Il male, ormai in fase avanzata, ha impedito che la cosa potesse avvenire. L’ultima volta che l’ho incontrato, in un convegno torinese dell’ottobre scorso, il discorso ormai batteva sulle “parole di Gesù” e il suo volto s’illuminava in modo straordinario. Allora non era più il “vieil homme” che diceva di essere, ma piuttosto uno che si era incamminato, con baldanza quasi giovanile, per una strada ancora da percorrere, per dire cose che dovevano ancora essere dette.

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Editrice Queriniana, Brescia
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