13/12/2011
207. IL RITORNO DEL MITO DI FAUST di Rosino Gibellini
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Il “Leone d’oro” assegnato dal Festival di Venezia 2011 al regista russo Sokurov per il film Faust, ora apparso sugli schermi in Italia, rappresenta anche il ritorno culturale del mito di Faust. Il film di Sokurov è una ripresa libera della figura di Faust, protagonista del monumentale (più di 12mila versi) poema drammatico Faust di Goethe, steso a partire dal “quinquennio geniale” (1770-1775), e concluso, nella sua complessità, pochi mesi prima della morte, nell’estate 1831.

Nel film, Faust è espressione della condizione umana nel suo continuo essere alla ricerca della felicità. Lasciamo il commento ai critici cinematografici. Ma è anche una occasione per la ripresa del grande testo di Goethe, al cui commento hanno contribuito anche i teologi, tra cui Jaroslav Pelikan nel suo Faust teologo (1995; trad. it., Medusa, Milano 2002), che qui vogliamo rivisitare nel contesto della tematica teologia e letteratura.

Jaroslav Pelikan (1923-2006) è stato tra i più colti teologi nordamericani del XX secolo. Teologo americano di origine slovacca per la famiglia emigrata negli USA, e docente alla Yale University, era un luterano passato negli ultimi tempi alla Ortodossia, per il suo amore per l’arte e per il desiderio di una più intensa liturgia. Un suo primo testo in traduzione italiana lo si può trovare in Teologia dal Nordamerica (Giornale di teologia 80, Queriniana 1974). Autore di una vasta storia della teologia, con il titolo La tradizione cristiana, in 5 volumi (1973-1990), era molto attento anche all’arte, alla musica e alla letteratura. Confessa lui stesso che leggeva ogni anno, integralmente e in tedesco, il Faust di Goethe.

Pelikan situa l’opera di Goethe con queste coordinate temporali: «Nella storia spirituale e letteraria dell’Occidente ci sono almeno quattro grandi rappresentazioni drammatiche che si collocano nella cornice della Settimana Santa: nella tradizione di Lipsia la Domenica delle Palme era il giorno della esecuzione della Passione secondo Matteo di Johann Sebastian Bach; Dante situa l’inizio della Divina Commedia nella mattina del Venerdì Santo; lo stesso giorno, nell’Incantesimo del Venerdì Santo, il momento dell’apice drammatico e musicale del Parsifal di Richard Wagner, quando “rende grazie ogni creatura, tutto ciò che fiorisce e presto muore, poiché oggi una natura liberata dal peccato è giunta al giorno in cui le è restituita l’innocenza”; nella notte del Sabato Santo, infine, mentre il coro degli angeli canta “Cristo è risorto” (v. 765), ha inizio l’azione del Faust di Johann Wolfgang von Goethe» (p. 15).

Sull’opera di Goethe: «Esiste una lunga tradizione di studiosi che vi hanno visto una grande allegoria, o piuttosto, una serie di allegorie della condizione umana nell’età moderna» (p. 15). Il personaggio Faust è anche dottore in teologia: «Filosofia ho studiato, diritto e medicina, e, purtroppo, teologia, da capo a fondo, con tutte le mie forze» (vv. 354-57). Anche il diavolo, Mefistofele, cui il trentenne (secondo la critica moderna) Faust ha venduto l’anima per la ricerca della felicità: «Fermati, o attimo, perché sei bello», lo chiama: «dottore». Ma: «Dall’inizio alla fine, Mefistofele è sempre alla ricerca di qualcosa su cui riversare la propria maledizione nichilista (cf. vv. 2805-6)» (p. 98). 

Nel suo documentato studio sulla teologia, o sulle teologie, di Faust (e dello stesso Goethe) Pelikan si ispira ad uno degli aforismi espressi da Goethe in Massime e riflessioni: «Studiando la natura siamo panteisti, poetando politeisti, eticamente monoteisti» (p. 29). Sono tre «modi pensare», da interpretare dialetticamente come le «tre sfere esistenziali» di Kierkegaard (estetica, etica, religiosa). Si sottolinea che fra i «tre modi pensare» evocati da Goethe, «non è prevista la quarta possibilità dell’ateismo. […] Perciò Faust è un cercatore di Dio, non un negatore di Dio. […] Questo non soltanto perché Faust, come Goethe, non si accontenta di un unico modo di pensare, ma deve sempre misurarsi con “le molteplici direzioni del [suo] essere”. Il fatto è che il tipo di morale, e quindi la definizione di monoteismo, attraverso la quale Faust arriva alla salvezza, trascende sì il panteismo scientifico e il politeismo poetico, ma non li nega mai del tutto e li porta anche a pieno compimento, pervenendo alla loro sublimazione» (pp. 29-32).

Faust come scienziato va alla ricerca del Tutto: è teologo panteista: «Per Faust, la Natura non è un risultato subordinato all’atto sovrano di un Creatore trascendente, come sostiene l’ortodossia ebraico-cristiana, ma “fonda da se stessa se stessa” (v . 10097)» (p. 49). La confessione di fede panteistica deriva innanzitutto dalla grandezza della Natura e dall’esperienza dell’Infinito nella finitudine. Nel bel mezzo di una discussione con Mefistofele: «Faust giunge alla più esplicita formulazione dell’antitesi tra il nichilismo di Mefistofele e il proprio panteismo: “Nel tuo Nulla spero di trovare il Tutto” (vv. 6255-56)» (p. 54). 

Il panteismo dello scienziato passa attraverso il politeismo del poeta e del mago: dal mondo come Tutto (in neutro to Pan) al dio greco della mitologia (al maschile, ho Pan). Ma il politeismo poetico dell’antichità e il politeismo della stregoneria – dèi e dee, muse e streghe “le amanti del diavolo” – viene posto al servizio del panteismo, ma esige, in definitiva l’illuminazione che proviene dal filosofo morale monoteista.

In sintesi, secondo Pelikan: «Per il Faust di Goethe, se non sempre per il protagonista del dramma, la scienza e la poesia sono e restano necessarie a definire l’essenza stessa dell’umanità. […] Dunque, anche il panteismo della scienza e il politeismo della poesia non perdono validità agli occhi di Faust nel corso della sua evoluzione. […] Il rapporto tra il Faust scienziato, Faust poeta e la sua posizione finale di filosofo morale va inteso in senso non soltanto di sviluppo, ma anche di relazione dialettica, e lo stesso si può affermare per il rapporto tra il panteismo, il politeismo e il monoteismo finale» (p. 85). In questo processo Faust riesce a comprendere che il suo cammino, in compagnia del diavolo, non lo porta ai suoi obiettivi panteistico-scientifici (“il Tutto”), né a quelli estetico-politeistici (“ma mi accresce forza e arte”), ma al “Nulla” di Mefistofele: «Se il primo segnale dell’ingresso di Faust nel mondo nichilistico di Mefistofele era stato l’interesse per la magia nera, allo stesso modo la drastica rottura con la stregoneria viene a segnare l’uscita del protagonista da quel medesimo mondo e, insieme, il passaggio al mondo della libertà e dell’umanità autentica, della moralità e, infine, del monoteismo» (p. 99). «La salvezza finale di Faust è assicurata quando gli angeli, “recando via la parte immortale di Faust”, lo strappano dalle grinfie di Mefistofele (al v. 11824). E poi, mentre “recano la parte immortale di Faust”, annunciano come fatto compiuto che “questo nobile anello del mondo spirituale” è stato “salvato dal male”, perché chiunque “sempre faticò a lottare” può essere redento» (p. 113).



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