31/05/2018
400. INTERVISTA A ANSELM GRÜN di Daniel Wirsching
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Padre Anselm, lei ha mai paura?

Per me stesso, no. Ma a volte ho paura per la società. Ho paura per la fede, che non venga più trasmessa. Ho paura che le tendenze negative prendano il sopravvento.

 

Tendenze negative? Può spiegarsi meglio?

Mi spaventano la brutalità, e l’assenza di cultura, di molti interventi su Facebook o su altri social media e in internet, dove alcune persone riversano tutto il loro odio e la loro aggressività verbale.

 

È un po’ ciò che accade quando si parla di politiche per i rifugiati.

Il mio omonimo, lo psicanalista Arno Gruen, ha scritto un libro intitolato Der Fremde in uns (Lo straniero in noi): la paura dello straniero è sempre anche paura dello straniero che alberga in noi. Perciò le persone necessitano di una maggiore autocomprensione, di conoscere meglio se stesse.

 

Lei viene insultato in internet, dove la definiscono un buonista. È vero?

Sì, di continuo. I siti più conservatori definiscono la mia teologia e la mia spiritualità anche come eretiche… perché si allontanerebbero dalla dottrina ufficiale della chiesa. Ma perlomeno non ho ricevuto minacce di morte, come è capitato all’arcivescovo Ludwig Schick, probabilmente perché io non mi esprimo in modo così aperto in ambito politico.

 

Ritiene di dover prendere una posizione più netta contro i populisti di destra e gli xenofobi?

Come monaci benedettini, operiamo già in senso politico. Per esempio, nell’abbazia di Münsterschwarzach, dove risiedo, ospitiamo trentotto profughi. Sono sempre un po’ tiepido a rilasciare dichiarazioni politiche, per non fare la figura del sapientone, uno che ha sempre in tasca la soluzione giusta. Certo, ci si può schierare contro le tendenze di destra – ma non incitando all’odio in internet. Quello che cerco di fare con i miei libri è di rafforzare la saggezza della gente, della loro anima, in modo che non si perdano. Perché quelli che si sono già allontanati, non riesco più a raggiungerli con le mie parole.

 

Gesù ha avuto paura?

L’evangelista Luca ci dice che Gesù aveva paura di ciò che lo attendeva. Il suo sudore diventò sangue. Avrebbe potuto farsi portare in salvo, ma non volle. Pregando, prese questa decisione. Aveva paura, del dolore e della morte, perché Egli, Figlio di Dio, si è fatto uomo per noi, per annunciarci la buona notizia.

 

La sua vicenda non si conclude con la morte sulla croce. Nel Credo si dice: «Il terzo giorno è risuscitato dai morti». È questo che i cristiani celebrano il giorno di Pasqua. Qual è il messaggio di questa solennità?

Secondo me è triplice. 1. Gesù ci dona la speranza della trasformazione. Non c’è oscurità che la luce non possa rischiarare. Non vi è fallimento che non possa condurre a una nuova partenza. Perché lui ha trasformato la morte in vita. 2. Il conforto del fatto che anche noi risorgeremo, e già adesso, dalla tomba della nostra rassegnazione, per sollevarci contro tutto ciò che ostacola o impedisce la vita. Usciamo così ruolo di semplici spettatori (uno spettatore può sapere più cose, ma non usa la sua testa per prendere delle decisioni). 3.Il pensiero confortante che anche per noi non finisce tutto con la morte. È una grande liberazione, che ci consente di vivere più tranquilli. Non dobbiamo preoccuparci di dover sperimentare tutto in questo mondo.


Padre Anselm, lei è autore di circa trecento libri! Qualcuno potrebbe pensare: però, questo monaco ha un bel dire! Facile, per chi vive una vita protetta fra le mura del monastero.

E di questo sono grato. Non devo andare a fare la spesa, non devo cucinare, e così ho tempo per altre cose. Sì, considero un privilegio la mia vita in monastero. 

 

Le capita mai di incontrare delle persone che non le credono?

Alcuni sono invidiosi e dicono che scrivo tanti libri perché sono avido.

 

Il denaro che lei guadagna va tutto al suo monastero?

Sì, proprio così.

 

Se si osserva la lista delle sue pubblicazioni, viene da pensare anche che lei non abbia alcun problema: dopotutto, ha un consiglio da dare per qualunque situazione.

Io non cerco di dare consigli, ma di descrivere la vita e di offrire aiuto attraverso la fede. I libri li scrivo innanzitutto per me stesso. Era così già con i miei primi scritti negli anni Settanta. Li ho scritti sullo sfondo di una crisi personale, chiedendomi: come posso uscire da questa crisi?


Per lei scrivere è dunque terapeutico?

Si potrebbe metterla così.

 

Che crisi ha attraversato in quegli anni?

Tra i 25 e i 30 anni ero molto insicuro. Quando ho iniziato a studiare ero molto ambizioso, volevo sapere molte cose, ero influenzato dal raziocinio. Ma poi sono subentrati i sentimenti: il desiderio di un incontro, di una donna. A 19 anni ero già entrato in monastero. E un paio d’anni più tardi mi domandavo: cosa voglio davvero nella vita? Da una parte ero un prete, avevo già studiato filosofia e teologia a Roma. Dall’altra avevo iniziato a studiare business administration a Norimberga. Ero di nuovo a un inizio. E mi ritrovai in crisi.

 

Chi o che cosa l’ha salvata?

In quel periodo alcuni confratelli erano appassionati di Karlfried Graf Dürckheim, un terapeuta che ha combinato la meditazione zen con la psicologia junghiana. Io avevo approfondito e meditato a lungo l’opera dello psichiatra svizzero Carl Gustav Jung. Con i miei confratelli ci siamo interrogati su cosa fosse il monachesimo. Più di qualcuno ha lasciato il monastero. Noi che siamo rimasti ci siamo chiesti: perché restiamo? Che cosa ha ancora da dire lo stile di vita monastico all’uomo d’oggi? Pian piano si faceva strada in me la sensazione che valesse la pena vivere così.

 

È stato anche lei sul punto di uscire dal monastero?

Mi sono fatto questa domanda. Ma sempre, se m’immaginavo di uscire, pensavo: no, non è giusto. Quindi la risposta è no.

 

Non ha mai la sensazione di essersi perso qualcosa nella vita?

No, non più. A volte ho detto ai miei confratelli: il seminario mi ha fatto male. Sono entrato in seminario all’età di 10 anni. Nel senso che mi mancava la maturità necessaria. Lo studio di Graf Dürckheim mi ha permesso di recuperare un po’ di terreno perduto, in questo senso.

 

Perché è entrato così giovane in monastero?

Nel 1964 era normale decidere dopo il diploma di scuola superiore. Non avevo dubbi. Da quando avevo 10 anni, dalla prima comunione, ero rimasto affascinato dalla liturgia, dalla messa, dal sacerdozio. Era una suggestione infantile, che si è mantenuta con forza negli anni.

 

Oggi, uno dei suoi compiti è l'accompagnamento di sacerdoti in crisi. Per queste persone la “Recollectio-Haus” della vostra abbazia costituisce un punto di ripartenza. Lei è il direttore spirituale. Chi viene da voi?

La maggior parte di loro si trova in situazioni di conflitto con dei collaboratori o con il consiglio parrocchiale. Oppure sono preti che si sentono depressi, che soffrono per delle vecchie ferite, che si chiedono: riuscirò a vivere il celibato? Anche il tema dell’esaurimento, del burnout, gioca un ruolo importante.

 

Questi problemi sono aumentati? Dopotutto, le richieste ai preti lo sono senz’altro.

La figura del sacerdote è oggi meno definita. Ci sono preti che gestiscono delle unità pastorali e sono per metà dei manager. Ma ci sono sacerdoti che, chiamati a collaborare con una cerchia più vasta di persone, si trovano in difficoltà in questo ruolo. Fare il parroco in una normale parrocchia diventa sempre più raro. Molti si interrogano sul senso del loro operato, non vedono il successo delle loro fatiche. Molti preti soffrono perché per esempio si sforzano di fare delle belle prediche, ma sempre meno persone frequentano la messa.

 

È la chiesa cattolica che li fa ammalare?

Non è la chiesa in sé. Ma per i preti non è certamente un bene che le unità pastorali siano sempre più estese.

 

Quanti dei sacerdoti che ha accompagnato hanno abbandonato la chiesa?

Forse il 5%. Io rispetto le scelte di ognuno. In qualche caso osservo semplicemente che non funziona più, la motivazione è scomparsa. O in altri casi qualcuno ha subito troppe pressioni per accedere al ministero sacerdotale, non ha assunto liberamente la propria decisione.

 

Il teologo e psicoterapeuta Wunibald Müller, che ha diretto la Recollectio-Haus per venticinque anni (fino al 2016), di recente ha affermato che le questioni del potere e della sessualità vengono del tutto ignorate dal Vaticano, anche se quasi il 30% del clero è omosessuale.

Alla Recollectio-Haus vengono anche sacerdoti omosessuali, e su questo punto si scontrano la dottrina ufficiale e la realtà. Non parlerei del 30%; certo, ci sono alcuni preti gay, e sono dei bravi sacerdoti. Con noi possono parlare apertamente dei loro problemi e sentirsi accettati. Questo è molto importante. La maggior parte di loro ha delle amicizie, ma comunque non vive la propria omosessualità oppure ne hanno avuto rarissime esperienze. È come per i preti eterosessuali che non possono avere una compagna: non funzionerà a lungo.

 

Lei è favorevole all’abolizione del celibato e all’istituzione del sacerdozio per le donne? Wunibald Müller vedrebbe bene anche una papessa…

Non c’è un fondamento teologico che impedisca l’abolizione del celibato, o alle donne di essere ordinate prete, vescovo o papa. Si tratta solo di processi storici, perciò ci vuole tempo. Il primo passo può essere ora quello delle donne diacono. La chiesa non deve perdere le donne! Per quanto riguarda il celibato, dovrebbe essere una libera scelta.

 

Sarebbe ora che la chiesa cattolica si avventurasse in queste riforme, più grandi di quelle sinora iniziate da papa Francesco?

Non si può cambiare tutto in modo radicale: farebbe paura. La spinta iniziale deve venire dall’interno, altrimenti si genera confusione. Per me è decisiva questa domanda: la chiesa è un luogo di esperienza spirituale, a cui le persone possono rivolgersi con le loro attese? La risposta dovrebbe essere sì. Le strutture sono secondarie.

 

Una nuova partenza pasquale?

È ciò che spero.

 

 

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