26/09/2014
297. INTERVISTA TEOLOGICA A WOLFHART PANNENBERG di Rosino Gibellini
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Pannenberg_Moltmann

Riproduciamo questa intervista, realizzata all’Università di Monaco di Baviera (22 ottobre 1979). È ancora interessante non solo per comprendere il percorso teoretico del teologo recentemente scomparso, ma anche per la storia della teologia, in quanto si estende dagli inizi della sua attività accademica fino alle soglie della grande opera “Teologia sistematica”, composta negli anni Ottanta e Novanta. Da notare che Pannenberg entra nel Catalogo Queriniana fin dal 1974; e ha sette titoli in Biblioteca di teologia contemporanea, e qualche titolo minore in Giornale di teologia. La “Teologia sistematica” in tre volumi – una grande opera della teologia del XX secolo – è disponibile integralmente in tre lingue: l’originale tedesco, l’inglese-americano, e la lingua italiana. 

Lo ricordo in alcune conversazioni alla Facoltà di teologia evangelica dell’Università di Monaco di Baviera, dove ho assistito anche ad alcune delle sue lezioni nel 1975: elegante, in piedi davanti all’ambone e coltissimo nelle citazioni. Si può anche dire che Pannenberg è il teologo che conosceva come pochi anche la storia del pensiero cristiano. L’ho presentato pubblicamente in Italia, invitato per una lezione sul tema “Cristianesimo e società”, alla Biblioteca Germanica di Milano, e all’Istituto Stensen di Firenze. L’ho incontrato anche all’America Academy of Religion, a Philadelphia negli USA, nel novembre 2005, dove tenne una lezione sul suo percorso con il titolo “Un pellegrinaggio intellettuale”.





Prof. Pannenberg, Lei ha compiuto i suoi studi universitari di filosofia e di teologia prima a Basilea e poi a Heidelberg. Come vede oggi l'insegnamento dei suoi grandi maestri: Karl Barth, Gerhard von Rad, Nicolai Hartmann, Karl Jaspers e Karl Löwith?

In teologia, certamente, il mio debito maggiore è verso Karl Barth e Gerhard von Rad. Dal grande studioso veterotestamentario di Heidelberg ho guadagnato una prospettiva di teologia della storia, che io poi ho cercato di estendere al cristianesimo primitivo e alla storia della chiesa e che ho trasposto in una concezione sistematica. La permanente prossimità del mio pensiero a Karl Barth è sfuggita per lo più ai miei critici. Ma in realtà c’è un vasto accordo con i pensieri fondamentali di Barth – la sovranità di Dio, la singolarità della sua rivelazione in Cristo, l'universalità della teologia – anche se poi io sono giunto alla convinzione che questi pensieri fondamentali dovevano essere sviluppati su una via del tutto diversa da quella praticata dallo stesso Barth. Il pensiero, soprattutto, della sovranità di Dio sul mondo non può trovare applicazione nella forma di una dualistica contrapposizione di Dio alla realtà naturale, ma, se Dio è il creatore di tutte le cose, allora il teologo deve partire dalla fiducia che la presenza di Dio costituisce intimamente tutto ciò che è. In questo senso il mio modo di procedere in teologia, orientato più storicamente o, detto in termini più generali, orientato empiricamente, è ispirato dal pensiero barthiano della sovranità di Dio.  Dei miei maestri di filosofia nessuno è stato per me di una importanza così duratura. In Karl Löwith mi attirava il suo sforzo di ricerca dei presupposti teologici della filosofia della storia, che durante i miei anni heidelberghiani di studio mi sembrava convergere con il lavoro teologico di Gerhard von Rad, anche se era chiaro che per Löwith la dipendenza della filosofia della storia da presupposti teologici valeva piuttosto come un argomento di critica. La sua propria posizione di un ritorno ad una comprensione pre-storica, ‘naturale’ del mondo mi è sempre apparsa strana. Karl Jaspers mi ha mediato la posizione del protestantesimo liberale, che riconosce il tema della religione come fondamentale per l'essere-uomini, ma che tuttavia nutre riserve nei confronti del cristianesimo. Anche oggi mi sembra ancora necessario tener testa intellettualmente a simili questioni critiche rivolte alla teologia. Come filosofo tuttavia Jaspers alla lunga non è riuscito a convincermi a causa della sua sottovalutazione del compito di una penetrazione concettuale-filosofica dell’esperienza del mondo: questa egli la lasciava troppo alla svelta al positivismo delle singole scienze e limitava la filosofia ad una autocomprensione dell’uomo sulla sua situazione vitale. Per quanto riguarda l’esigenza di una penetrazione filosofica dell’esperienza del mondo ho ricevuto più impulsi da Nikolai Hartmann, che mi ha introdotto nella grande tradizione filosofica. Tuttavia mi sono presto convinto che Hartmann nel suo tentativo di rinnovamento della metafisica rimaneva troppo dipendente dal neokantismo. II mio più importante maestro di filosofia è stato poi Hegel, che da solo in qualche modo ho riscoperto, quando da libero docente nel 1956 preparavo le mie prime lezioni sulla storia della teologia del XIX secolo.



La sua Habilitationsschrift del 1955 sul tema Analogia e Rivelazione è rimasta come una “Incompiuta”, almeno finora, e non è ancora stata pubblicata (*). Come si colloca questa lavoro nel contesto del suo iter teologico, e quando l’opera sarà completata e pubblicata?

La mia Habilitationsschrift del 1955 su Analogia e Rivelazione è rimasta incompiuta innanzitutto per un motivo estrinseco, perché a partire dal 1961 ero tutto preso nel far fronte agli attacchi al programma Rivelazione come storia. In connessione con questo mi sembrò allora anche necessario di scrivere una Cristologia, per applicare questo programma al tema centrale della teologia cristiana. Ma vi è anche un motivo più profondo del fatto che la mia Habilitationsschrift sia rimasta incompiuta. La storia del concetto di analogia doveva essere esposta a partire dalla filosofia presocratica fino al nostro secolo, e mentre nel 1955 io ero arrivato solo al XIII secolo, negli anni seguenti ho continuato l’esposizione fino a Kant. Ma poi durante il lavoro è avvenuto uno spostamento nelle mie concezioni in discussione con la dottrina dell’analogia. Soprattutto allora non ero soddisfatto di ciò che mi si proponeva con la parola-chiave ‘Rivelazione’ per una fondazione alternativa del discorso teologico su Dio nei confronti della dottrina dell’analogia. Tutta la mia evoluzione teologica può essere compresa come un continuo essere alle prese con questo problema. Vi è soprattutto una stretta connessione tra la mia critica al concetto di analogia e l’evoluzione della mia teologia della storia nella linea della teologia francescana del tardo XIII secolo e del XIV secolo con la sua accentuazione della contingenza dell’agire divino. Il punto di partenza per questo si trova già nella mia critica a Duns Scoto nella mia dissertazione di Heidelberg del 1953. L’alternativa alla dottrina dell’analogia per una fondazione del discorso cristiano su Dio, che da alcuni anni ritengo d’aver trovato, finora l’ho esposta in modo sistematico soltanto nelle mie lezioni accademiche di dogmatica. E dovrà essere pubblicata un giorno in questa forma. Ma prima ci sono altri progetti. Dopodiché tornerò volentieri ad impegnarmi con la storia del concetto di analogia.



Quando ha incominciato lo Heidelberger Kreis, che avrebbe dato il suo frutto maggiore nel fascicolo-programma Rivelazione come storia nel 1961? come funzionava il Circolo? come si è disciolto? e che cosa resta del lavoro fatto e dei progetti coltivati?

Lo Heidelberger Kreis è nato dal bisogno di noi studenti di Heidelberg di guadagnare una visione globale della teologia, che nei professori di Heidelberg incontravamo nella disparità delle varie discipline, e questo sulla base del lavoro di Gerhard von Rad, che si presentava come promettente di un nuovo orientamento per tutta la teologia. Lo scritto programmatico Rivelazione come storia del 1961 ha poi fatto il tentativo di collegare esegeticamente teologia storica e teologia sistematica, in riferimento soprattutto al problema, che allora sotto l’influsso di Karl Barth era considerato come fondamentale, del concetto di rivelazione. Il Circolo di Heidelberg, già a partire dal 1951, nelle sue riunioni dapprima settimanali, e successivamente dopo la partenza da Heidelberg di alcuni membri del Circolo a intervalli più distanziati, aveva trattato in modo analogo tutta una serie di altri temi teologici, e precisamente mediante una nuova formulazione delle questioni dogmatiche sulla base dei risultati della scienza esegetica e storica circa i relativi temi. I membri del Circolo avevano di volta in volta la funzione di farsi interpreti di una specifica disciplina teologica e di fare in modo che nelle discussioni le sue problematiche non venissero disattese. Il Circolo si è sciolto poco dopo l’apparizione di Rivelazione come storia. Accanto a motivi personali ha agito un importante motivo di fondo: alla lunga non ci fu più un pieno accordo sull’importanza fondamentale della risurrezione di Gesù per la teologia vista nella sua totalità. Alcuni membri del Circolo non volevano più vedere questa questione come la questione fondamentale. E siccome il Circolo fin dall’inizio si era proposto non solo di discutere, ma di pervenire di volta in volta ad una concezione che potesse essere condivisa da tutti i membri, è parso allora conveniente di por fine al lavoro comune.



Negli Anni Sessanta la teologia tedesca è stata influenzata dalla filosofia di Ernst Bloch. Lei stesso ha scritto, nel 1965, un saggio molto citato dal titolo Il Dio della speranza, che trae ispirazione dalla filosofia della speranza di Bloch. Come valuta oggi, complessivamente l’influenza di Ernst Bloch sulla teologia?

L’influsso di Ernst Bloch sulla mia teologia è stato spesso sopravvalutato. Io ho letto Bloch solo poco prima di finire il mio libro di cristologia, e dunque solo nel 1963, mentre Moltmann già da tempo e molto più profondamente era stato influenzato da lui. E constatai una certa convergenza della direzione escatologica della mia teologia con il pensiero di Bloch; ero dunque pronto a partecipare nel 1965 alla miscellanea in onore di Bloch. In riferimento all’allargamento filosofico della prospettiva, scoperta originariamente a partire dalla  cristologia ed in ispecie dalla tradizione della pasqua, riconosco d’aver ricevuto impulsi da Ernst Bloch. Ma Bloch non ha mai posto la questione nel modo, in cui a me pareva necessario fosse posta, e cioè nel senso di una rigorosa priorità ontologica del futuro come futuro di Dio. Per questo la possibilità di apprendere da Bloch era per me limitata. A ciò si aggiunga che la rigorosità del concetto filosofico non è mai stata la forza del pensiero di Bloch. Egli è stato piuttosto un grande scrittore, che impiegava tutta la vastità della sua cultura per dare coloritura ad un quadro visionario, che traeva la sua ispirazione da una congiunzione di fede giudaica e marxismo. Bloch tuttavia non ha mai raggiunto il rigore del lavoro concettuale di un Aristotele, di un Kant o di Hegel.



Nel I973 è apparsa presso la prestigiosa Casa Editrice Suhrkamp di Francoforte la sua opera Epistemologia e teologia. Quest’opera è stata vista da taluni critici come un «andare oltre e contro Barth». Come valuta Lei questa sua opera nel contesto della teologia tedesca del nostro secolo?

Il mio libro Epistemologia e teologia del 1973 è nato nel quadro di un progetto più vasto, di una interpretazione teologica della ragione, che dovrebbe assumere la forma sia di una esposizione storica come pure sistematica della critica della conoscenza. AI concetto di scienza era dedicato nel quadro di questo progetto un capitolo, che ha finito per superarne i limiti. Inoltre l’intensa discussione epistemologica di quegli anni suggeriva di trattare previamente questo tema in un apposito libro, al fine di dare spicco alla teologia sulla base di quella discussione generale. Il libro ha dunque ai miei occhi un valore parziale. Esso segna il punto in cui la mia fatica per un rinnovamento, fondato a partire dallo spirito dell’escatologia, della dottrina filosofica della conoscenza da una parte, e della tradizione ontologica e metafisica dall’altra, s’intrecciava con le problematiche attuali del nostro tempo.



A più riprese Lei ha parlato di una Teologia della ragione, che vorrebbe scrivere. A quando la realizzazione  di un tale progetto?

II progetto di una teologia della ragione è stato sviluppato a più riprese in forma di lezioni ed esiste in questa forma. Il mio proposito iniziale era quello di rielaborare questo progetto mediante una più ampia utilizzazione della storia della teoria filosofica della conoscenza come pure della discussione attuale delle questioni connesse. In questo modo però ne risulterebbe un’opera in più volumi, che mi distoglierebbe troppo da altri compiti più urgenti. Ho finito per dare la precedenza su questo progetto al mio libro di antropologia, che sto ultimando, al quale presumibilmente dovrebbe seguire una monografia sull’ecclesiologia. Solo quando sarà ultimata una presentazione globale della dogmatica dal punto di vista della dottrina su Dio, ritornerò a temi più filosofici, al progetto di una teologia della ragione e di una interpretazione della tradizione ontologica a partire dalla prospettiva dell’escatologia.



È stato scritto che alcuni suoi saggi sono l’espressione più chiara di una Hegelrenaissance in teologia. Come vede Lei il rapporto del suo pensiero con Hegel e, più in generale, della teologia cristiana moderna con Hegel?

Mi è difficile delineare nel breve giro di alcune frasi il mio rapporto con la filosofia di Hegel. Per un verso, considero Hegel come il più grande filosofo dell’epoca moderna. Egli è insieme il filosofo che si situa di fronte al cristianesimo con la più grande apertura. Ma ci sono motivi, che qualche anno fa ho esposto in una trattazione sul significato del cristianesimo nella filosofia di Hegel, i quali vietano che la teologia cristiana si possa identificare semplicemente con la filosofia di Hegel. E pertanto io non mi considero affatto un hegeliano, anche se alcuni dei miei discepoli hanno battuto questa strada. Per me, Hegel rappresenta la più grande sfida per un controprogetto, che non sia da meno del livello della sua riflessione dialettica, ma che debba essere in pari con esso.



Spesse volte Lei fa riferimento all’Illuminismo e alla necessità di raccogliere la sfida lanciata dall’Illuminismo per una razionalità critica anche in teologia. Ma, da una parte, non fa mai riferimento alla querelle sull’Illuminismo introdotta dai Francofortesi, e, dall’altra, Le è stato rimproverato – ad es. da alcuni rappresentanti della teologia della liberazione – di non fare i conti con la sfida lanciata dal secondo Illuminismo rappresentato da Marx e dalla filosofia della prassi in genere.

L'Illuminismo del XVIII secolo è stato un fenomeno molto complesso. In parte s’è rivolto contro il cristianesimo, anzi contro ogni religione. Ma questo forse è solo una linea marginale. Nella sua tendenza di fondo, l’Illuminismo inglese e quello tedesco, non era anticristiano. Ma conteneva la sfida per una riformulazione dei contenuti religiosi e cristiani sul terreno della ragione moderna. In questo senso mi sembra che l’Illuminismo sia fondamentale nei confronti dell'orientamento premoderno della teologia che si affida ad una istanza autoritativa che le garantisca in maniera previa la verità. Quello che, in connessione con il neomarxismo, si chiama il ‘secondo’ Illuminismo della Scuola di Francoforte, a mio avviso, sta in collegamento molto allentato con l’Illuminismo. Nella misura in cui qui si tratta di marxismo e di neomarxismo, io trovo che in questo movimento va perduta l’universalità della ragione illuminista. A me sembra ch'essa subisca una contrazione in favore di un’altra, questa volta marxista, fede nell’autorità. Con il marxismo mi sono confrontato con molto impegno fin dagli inizi dei miei studi a Berlino e presto sono giunto al risultato che si trattava di un tipo di pensiero significativo, ma anche del tutto datato al XIX secolo e logoro per il nostro tempo. Senza i paesi, che oggi fondano il loro ordinamento sociale su una ideologia marxista, sarebbe questa anche il giudizio generale. L’attualità del marxismo si fonda meno su radici razionali che non su radici politiche ed emotive. Per questo, proprio il neomarxismo della Scuola di Francoforte mi sembra rappresenti un limite alla sua pretesa di introdurre un rinnovamento dell’Illuminismo. Per quanta riguarda i teologi della liberazione, condivido con questi teologi il giudizio sulla necessità di un rinnovamento delle strutture sociali ed anche economiche della convivenza umana, a partire dallo spirito cristiano. Ma io non penso che il marxismo, con la sua invecchiata teoria dell’economia e con il suo messianismo secolarizzato, sia di un qualche aiuto. A me sembra che non sia la forza, bensì la debolezza dei teologi della liberazione, il fatto che essi siano in vasta misura dipendenti dallo strumentario analitico del marxismo, invece di approntare un proprio strumentario della teoria della società fondato su basi cristiane. II marxismo è oggi un’alternativa alla fede cristiana. In questa senso si può apprendere molto da esso. Ma non lo si può assumere, senza che vada perduta l’integrità della prospettiva cristiana.



Come valuta la situazione attuale della teologia nell’ecumene cristiana?

L’unità ecumenica cristiana è al centro dell'impiego pratico della mia teologia. Una cristianità ecumenica può essere solo pluralista, e la sua realizzazione sarà dunque possibile solo sui terreno di una comprensione della verità, che si sia liberata dal dogmatismo e dall’intolleranza dei secoli precedenti e, appunto per questo, renda possibili una nuova validità universale del cristianesimo ed una corrispondente azione per una ristrutturazione anche della convivenza sociale degli uomini. Purtroppo l'evoluzione degli ultimi dieci anni mostra una progressiva stagnazione del processo ecumenico per la realizzazione di una unità dei cristiani. Siamo di fronte ad una rassegnazione molto diffusa. Può darsi che dalla prospettiva di un paese profondamente segnato in senso cattolico-romano nella sua cultura e popolazione non appaia così urgente la necessità dell'unità cristiana. Ma in vista della situazione umana e specialmente in vista della cultura occidentale nella sua globalità non mi sembra possibile nessuna breccia verso un nuovo futuro del cristianesimo senza il superamento delle contrapposizioni confessionali. La chiave dell'operazione è nelle mani della chiesa cattolico-romana. Dal papa, che si comprende come il supremo detentore dell'ufficio dell'intera cristianità, che è responsabile dell’unità di tutti i cristiani, ci si dovrebbe attendere che si facesse interprete nel modo più acuto possibile non solo dell'unità dell’odierna chiesa cattolico-romana, ma dell'unità ecumenica di tutti i cristiani. I dialoghi ecumenici sulle contrapposizioni dottrinali confessionali sono progrediti negli ultimi due decenni molto più di quanto pensino la maggior parte dei cristiani. Ci si deve chiedere se, di fronte a questa situazione, le chiese abbiano ancora il diritto a rimanere separate e ad escludersi reciprocamente dalla comunione dell'eucarestia. Certo, questa questione dovrà trovare graduale soluzione nelle reciproche trattative delle chiese. Ma l’iniziativa decisiva, senza la quale nessun progresso è possibile nella questione ecumenica, deve partire dal papa. E se dal vescovo di Roma dovesse partire una tale iniziativa, allora troverebbe riconoscimento la sua pretesa di essere guida universale nella cristianità.


München, 22 ottobre 1979


Tratto dall’Appendice del volume: Rosino Gibellini, Teologia e ragione

 

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(*) È stata pubblicata solo recentemente: Analogie und Offenbarung. Eine kritische Untersuchung zur Geschichte des Analogiebegriffs in der Lehre von der Gotteserkenntnis, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2007)

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Wolfhart Pannenberg 
TEOLOGIA SISTEMATICA

vol. 1
Queriniana, Brescia 1990  (Biblioteca di teologia contemporanea 63 - pagine 544) 

vol. 2
Queriniana, Brescia 1994  (Biblioteca di teologia contemporanea 79 - pagine 576) 

vol. 3
Queriniana, Brescia 1996  (Biblioteca di teologia contemporanea 89 - pagine 752)  

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