20/05/2019
431. L'ARCIDONALD Quando il populismo fa il verso alla tivù di Susan Abraham
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Nel suo fascicolo dedicato a «Religione e populismo», la rivista internazionale Concilium dedica fra l’altro un congruo spazio a colui che è forse il più emblematico rappresentante, in Occidente, della demagogia populista, uomo esperto di certi tipi di performance televisive: il presidente Donald Trump. Non dimentichiamo che tutto è cominciato con il suo reality show televisivo, The Apprentice. In quella trasmissione, in cui la sua immagine era quella di un vero e proprio boss, Trump incarnava il desiderio di garantirsi il potere per mezzo della ricchezza. Susan Abraham, decano di facoltà alla Pacific School of Religion di Berkeley (California, USA), mette a fuoco con lucidità le caratteristiche del potente e risoluto uomo d’affari così come ama apparire al suo pubblico d’elezione, incarnando un ideale perduto – spesso caricaturale – di mascolinità patriottica bianca americana, e altresì facendo leva sulle ansie che scaturiscono, per interi strati della popolazione, dalla perdita di privilegio economico e culturale. Riportiamo qui di seguito alcuni stralci dell’articolo di Abraham dal titolo «Populismo maschilista e cristianesimo tossico negli Stati Uniti».

 

 

  1. Trump, l’uomo (il maschio) forte

 

Negli Stati Uniti il “cristianesimo muscolare” che difende i ruoli di genere tradizionali per uomini e donne dà impulso al discorso nazionalista. La storica americana Kristin Du Mez, per esempio, sostiene che il cristianesimo evangelico ha rimpiazzato il «Gesù dei vangeli con l’idolo del machismo». Dal momento che le prassi democratiche hanno eroso la supremazia dei maschi bianchi cristiani, è diffuso il sentore che anche Gesù e la cristianità stiano perdendo valore culturale. Du Mez sostiene che il voto evangelico militante maschilista si pone in continuità con gli sforzi vecchi di decenni per rinsaldare i “valori della famiglia” in quanto elemento essenziale dell’impegno evangelico nella politica statunitense, con la sua enfasi sui ruoli di genere tradizionali. 

Un altro elemento di grande successo è la sottile strategia adottata da Trump di legare il machismo cristiano e bianco alla sicurezza della nazione, che è una forma di demagogia. Nonostante le sue personali trasgressioni al modello tradizionale di matrimonio, le sue innumerevoli avventure con svariate donne, il parlare sfacciato e la millanteria di Trump affascinano gli uomini politicamente impegnati come un tipo di machismo che può mettere al sicuro i maschi bianchi e garantire la supremazia dell’America in quanto superpotenza mondiale. Come afferma Du Mez, «la mascolinità testosteronica di Trump si allinea molto bene con quella a lungo portata avanti dagli evangelici. Cosa rende un leader un leader forte? L’essere un uomo virile (bianco). E che dire della sua volgarità, della sua infedeltà, della sua arroganza e persino della violenza sessuale che ha perpetrato? Beh, gli uomini… sono uomini».

Ciò a cui Trump sta dando forma è l’idea che un uomo possa avere potere culturale anche di fronte alle perdite dovute all’impatto dei cambiamenti dei ruoli di genere e al successo del movimento femminista, proprio essendo un “autentico” uomo virile (che abusa e degrada le donne come oggetti sessuali), ma trattando la propria (terza) moglie e le proprie figlie in modo (in parte) diverso.

 

  1. Trump, l’uomo di spettacolo

 

Negli anni Settanta, una sitcom molto popolare intitolata Arcibaldo, trasmessa in Italia sui canali Mediaset, metteva in scena un uomo che era l’esatto opposto del «politicamente corretto». Il protagonista era Arcibaldo (per gli amici Archie) Bunker: impersonato da John Carroll O’Connor, offriva come intrattenimento sia uno sfogo comico sia una catarsi in forma di tragedia. Il razzismo, il sessismo e l’omofobia esplicite di Arcibaldo giocavano sulle ansie tipiche degli anni Settanta: l’instabilità del dopoguerra e la sua crescita lenta, i prezzi del carburante alle stelle, la perdita dei lavori manifatturieri e la deindustrializzazione, assieme alla competizione estera. Bunker dava voce alla rabbia e alla paura bianca dell’America come paese diversificato e meticcio. La serie televisiva, in quanto satira, rappresentava Arcibaldo e i suoi simili come reliquie di un tempo andato, ma allo stesso tempo come figure malinconiche: Bunker era il “padre severo”, che diceva le cose come stanno, evocando un tempo e uno spazio culturali immaginari condivisi da molti.

Per tante persone, Donald Trump è l’inveramento di Archie Bunker, irriverente, divertente, onesto e autentico, uno che evoca nostalgicamente il padre bianco rigoroso e severo. Di fatto, queste persone non prendono Trump alla lettera; oggi, educate da Archie Bunker, interpretano il suo comportamento come una satira politica contro le tanto odiate élite liberali. Chi lo ha votato capisce la natura performativa delle sue parole e delle sue azioni. Eppure, prendere Trump sul serio, come fa chi lo ha votato, significa anche capire che il fenomeno televisivo Arcibaldo era la “voce del popolo”, anche se ora, anziché un rozzo personaggio della TV, quello è diventato il presidente degli Stati Uniti. Trump è un Arcibaldo meglio dello stesso Archie Bunker! In quanto figure che detengono una posizione di forte potere, Trump e i suoi seguaci non posso essere “spenti” come si fa con una trasmissione televisiva. Sono qui, occupano il centro nevralgico del potere perché spetta loro di diritto.

 

  1. Trump, il giullare (fra wrestling e Miss America)

 

Trump sa creare e fomentare – ecco la sua genialità – uno spettacolo di mascolinità patriottica in cui molti uomini bianchi americani possono rispecchiarsi.

L’uso del tabù attraverso gestualità e comportamenti commediali offre, da parte di Trump, uno spazio esterno ai comportamenti religiosi e morali “puri”, scindendo in modo efficace la sfera del religioso da quella della commedia politica. Ora, nonostante Trump non sia chiaramente una persona religiosa, grazie al valore performativo dei suoi gesti si apre uno spazio affinché i credenti e le credenti possano supportarlo politicamente. Da questo punto di vista, Trump è il candidato ideale: incarna la separazione tra chiesa e stato (e che può permettersi di essere moralmente o religiosamente vago), mentre i suoi seguaci incarnano la presenza della religione politicizzata (e possono mettere al servizio della nazione il loro cristianesimo devoto)[1].

È facile comprendere come la performance di Trump calpesti il tabù, mentre al contempo immunizza gli spettatori dagli effetti di quella stessa performance. Il più grande successo di Trump sta nel suo valore d’intrattenimento – un intrattenimento carnevalesco, distante dalla realtà. Questo aspetto identifica Trump come l’esatto opposto di un attore “religioso”, come uno che ha la licenza, pari a un clown o un buffone, di infrangere impunemente le regole. L’ambito dell’immagine, della visualità e dell’intrattenimento diventa facilmente lo spazio in cui possono avvenire esplorazioni scandalose e fantastiche del sé e dell’altro, della vittoria e della supremazia, proprio come negli spettacoli televisivi americani del “wrestling professionale”[2]. Inoltre, Trump adopera le tattiche usate nei concorsi di bellezza (un tempo, ricordiamolo, possedeva Miss USA) per affermare standard contraddittori di femminilità per le donne: «I concorsi di bellezza fanno per la femminilità ciò che le competizioni di wrestling fanno per la mascolinità: creano un mondo di performance gestuali basate su nozioni di genere esagerate e idealizzate»[3].

Trump insomma domina con l’intrattenimento. E vince facendosi carico del tabù al posto dei suoi seguaci. È l’eroe mitico, un colosso che salva il suo popolo grazie alla mascolinità muscolare.

 

 







[1] Interessante, qui, per il caso degli Stati Uniti, la distinzione fra la separazione tra stato e chiesa, da un lato, e il rapporto tra religione e politica, dall’altro: K. Kruse, One Nation under God. How Corporate America invented Christian America, Basic Books, New York 2015.

[2] Non a caso, Trump possiede quote della WWE (World Wrestling Entertainment, un’azienda di intrattenimento) e ha costruito la sua immagine presidenziale attorno ai metodi culturisti dell’organizzazione.

[3] K. Hall – D.M. Goldstein – M.B. Ingram, The Hands of Donald Trump. Entertainment, Gesture, Spectacle, in Hau: Journal of Ethnographic Theory 6/2 (2016) 71-100, qui 81.









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