01/06/2012
223. LA SFIDA DELLE NUOVE ANTROPOLOGIE Intervista a Wolfhart Pannenberg a cura di Rosino Gibellini
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In Germania è stata riedita in seconda edizione l’opera “Antropologia in prospettiva teologica” (Göttingen 1983; 2° edizione 2011) di Wolfhart Pannenberg. L’attuale riedizione tedesca è una semplice ristampa. L’opera di Pannenberg è stata edita a suo tempo in «Biblioteca di teologia contemporanea» 51 (Queriniana 1987). L’edizione italiana è esaurita. Ma riproponiamo l’intervista fatta a Pannenberg in occasione dell’edizione in lingua italiana, e pubblicata su “Il Regno – Attualità 6/1987”. L’antropologia di Pannenberg prende avvio dalla categoria di “apertura al mondo”, introdotta da Scheler e utilizzata dalla recente antropologia comportamentistica di Portmann e di Gehlen. L’uomo, a differenza dell’animale, non è legato all’ambiente (“Umwelt”), ma è aperto al mondo (“Weltoffenheit”). Ma questa apertura al mondo, sempre secondo l’analisi di Scheler e a differenza di Gehlen, ha «un aspetto di potenzialità religiosa», che Pannenberg intende appunto sviluppare. L’apertura al mondo è rimando oltre il mondo, rimando ad un infinito spazio aperto, apertura radicale, riferimento a un assoluto di-fronte (“Gegenüber”), cui si dà il nome di Dio e di cui le religioni sono dimostrazione storica. L’apertura al mondo (“Weltoffenheit”) rimanda all’apertura a Dio (“Gottoffenheit”): «L’apertura illimitata al mondo deriva solo dalla destinazione dell’uomo al di là del mondo». Alcune linee della antropologia pannenberghiana, sulla base di scritti precedenti alla grande “Antropologia”, si possono trovare in “Teologia e ragione. Itinerario e opera di Wolfhart Pannenberg” (Gdt 122, Queriniana 1980, 136-147).



Alcune domande sulla sua vasta opera Antropologia in prospettiva teologica (1983), che riprende un tema appena accennato, anche se già ben delineato, nelle sue prime lezioni, raccolte poi in un rapido ma incisivo libro, Che cos'è l'uomo? L'antropologia alla luce della teologia (1962), che si proponeva «di approfondire teologicamente gli attuali studi antropologici di varia natura in relazione ai loro metodi e risultati». Come si è sviluppata in questo trentennio la sua riflessione teologica sull'uomo?

«Fin dai tempi della mia docenza a Wuppertal (1958-1961) mi ha occupato il problema che la dottrina cristiana dell'uomo deve essere messa in rapporto con gli enunciati delle scienze empiriche sull'uomo e con i tentativi filosofici della loro interpretazione integrale. Sono interessi che mi hanno accompagnato costantemente a partire dal 1962, con particolare e crescente attenzione alle discussioni in psicologia, sociologia e scienze della cultura. Inoltre io ho assunto il nesso che lega l'antropologia del nostro secolo (M. Scheler, A. Gehlen) con il pensiero di J. G. Herder, e che è stato evidenziato soprattutto da Gehlen, a fondamento dell'interpretazione teologica del concetto di "apertura-al-mondo" dell'uomo, sviluppato da questa filosofia antropologica. 

Il nesso storico con Herder giustifica l'assunzione del concetto di "apertura-al-mondo" come formula secolarizzata del concetto herderiano dell'uomo immagine di Dio, e permette di interpretarlo, a sua volta, teologicamente per il tramite del concetto di destinazione dell'uomo ad essere immagine di Dio, realizzando così una svolta che si rivela critica nei confronti della secolarizzazione di questo concetto, qual è avvenuta nell'antropologia filosofica. 

Questo è un esempio del modo di procedere, che costantemente seguo nel mio nuovo libro: qui viene esperito il tentativo di sottoporre ad esame i risultati, apparentemente secolari, cui giungono le scienze umane nelle loro ricerche sull'uomo, e di domandare se esse, a causa del loro restringersi a una problematica secolare, non lascino fuori metodicamente gli asserti, che sono rilevanti dal punto di vista religioso, dei fenomeni da esse analizzati. Con questo viene approntata una base di argomentazione, che permette di ricuperare, nel quadro dell'interpretazione teologica degli stessi fenomeni, la loro dimensione religiosa, metodicamente repressa dalle scienze umane secolari. L'interpretazione teologica non dovrebbe essere aggiunta dall'esterno ai fenomeni della realtà dell'uomo, che sono oggetto di studio da parte delle scienze umane. Altrimenti essa avrebbe soltanto un significato soggettivo e risulterebbe oggettivamente irrilevante. 

Il mio nuovo libro avanza la rivendicazione che soltanto una concezione della realtà umana, che includa anche la dimensione religiosa della vita umana, è in pari con l'umanità dell'uomo. Se il tema religione diventa tema connesso con la natura dell'uomo, allora non lo si può reprimere, così come non si può reprimere la sessualità, senza provocare con questo delle gravi conseguenze, capaci di ledere e di danneggiare la realtà della vita umana».



Nell'introduzione all'Antropologia lei delinea il rapporto fra teologia e antropologia, mostrando come il pensiero moderno, abbandonando l'impostazione della dogmatica e della metafisica, abbia operato una «concentrazione antropologica», che si impone anche alla riflessione teologica. La concentrazione antropologica, che si verifica nella filosofia e nella cultura moderna, impone una corrispondente concentrazione antropologica anche in teologia. Qual è la portata di tale «concentrazione antropologica» in teologia e quali i limiti?

«La concentrazione sull'antropologia, che è diventata lo caratteristica della modernità in tutte le discussioni sulla realtà di Dio e sul tema della religione, e dunque anche nella fondazione della teologia, riguarda soltanto l'approccio metodico. Quando parlo di una funzione teologico-fondamentale dell' antropologia, questo non significa che l'antropologia sia il fondante ultimo della teologia. Questo piuttosto può esserlo soltanto Dio. 

Nell'antropologia vengono prese soltanto delle decisioni previe, soprattutto nel  confronto con l'ateismo. Se si dovesse provare veramente che l'uomo non ha bisogno per natura della religione, ma che ha creato soltanto delle rappresentazioni religiose, e precisamente come espressione di una falsa comprensione di sé (come nel primo Feuerbach), o come espressione di uno smarrimento nevrotico (come in Freud), allora risulterebbe molto difficile giustificare come razionale il discorso di Dio. 

D'altra parte, la prova che la coscienza religiosa è ineliminabile dalla natura dell'uomo non rappresenta ancora una prova teoretica dell'esistenza di Dio. L'affermazione della realtà di Dio può essere convalidata soltanto nel contesto della rivendicazione alla verità avanzata dalle religioni e della prova che di essa sono in grado di esibire. Ma è certo che il significato costitutivo del tema della religione per la vita umana ne è un presupposto».
 



La sua Antropologia si articola in tre parti: L'uomo nella natura – L'uomo nella società – L'uomo nella storia; ed entra in discussione critica con le nuove antropologie (biologiche, sociologiche e storiche) nel tentativo di far emergere la dimensione teologica delle analisi settoriali delle antropologie extrateologiche, che si sono andate costituendo autonomamente senza nessun riferimento alla teologia. Qual è la sfida delle nuove antropologie? E qual è il contributo che può dare la teologia?

«La sfida fondamentale delle moderne antropologie, così come esse si incontrano con la teologia nella forma filosofica o nelle scienze umane, io la vedo nel fatto che in esse la dimensione religiosa della vita umana o viene totalmente repressa o viene trattata soltanto in modo marginale. Questo è comprensibile, in quanto le scienze umane nel contesto della cultura secolare sono nate dalla separazione tra teologia e metafisica. E tuttavia è possibile provare l'avvenuta repressione del significato fondamentale della religione per l'essere dell'uomo nei singoli fenomeni che sono oggetto di studio da parte delle scienze umane, e proprio a questa prova sono dirette le ricerche del mio libro nei diversi ambiti dell'antropologia. Tramite una riappropriazione critica delle ricerche delle scienze umane, che comporti una restituzione della repressa dimensione religiosa, è resa nuovamente possibile una concretizzazione degli enunciati fondamentali dell'antropologia teologica per le odierne conoscenze sull'uomo. In questo io vedo il contributo positivo sia delle scienze umane come pure dell'antropologia filosofica  per la teologia».



Come si caratterizzano e come si distinguono, a suo avviso, l'impostazione della teologia evangelica e quella della teologia cattolica in tema di antropologia?

«Dal punto di vista storico ci sono certamente delle accentuazioni specificamente evangeliche nell'antropologia teologica, in particolare un'accentuazione che si situa nella linea della tradizione dell'agostinismo, del peccato originale e delle sue conseguenze per quanto concerne la limitazione della libertà umana, come pure l'identificazione tra immagine di Dio e comunione attuale con Dio, in contrapposizione alla distinzione scolastica tra imago che appartiene alla natura dell'uomo e similitudo soprannaturale. Ma dubito che queste distinzioni storiche conservino ancora un rilevante significato d'attualità. 

Le sfide della cultura secolare, della moderna antropologia che essa esprime e dell'ateismo che fonda una comprensione dell'uomo puramente secolare, sono sfide che in egual misura concernono le diverse confessioni cristiane, e nei cui confronti è in gioco una nuova formulazione dell’immagine cristiana dell'uomo, che rimane comune alle diverse confessioni, e non pertanto questa o quella prospettiva confessionale. Le diverse tradizioni confessionali del cristianesimo dovrebbero essere considerate dall'odierna teologia come eredità comune, e pertanto sia nell'antropologia come pure in tutti gli altri temi della teologia dovrebbe essere sviluppata una prospettiva, che serva e corrisponda all'unità, da ricostituire in futuro, tra tutti i cristiani».



È largamente nota l'affermazione di Karl Rahner sui rapporti tra antropologia e cristologia: «L'antropologia è cristologia incompleta. La cristologia è antropologia che trascende se stessa». Sono altrettanto note le diffidenze di un teologo come von Balthasar sull'impostazione antropologico-trascendentale della teologia rahneriana. Lei stesso muove alla teologia trascendentale di Rahner l'imputazione di non prendere in considerazione la storia. Come segna lei il rapporto fra antropologia e cristologia?

«lo ho una grande simpatia per la stretta relazione istituita da Karl Rahner tra antropologia e cristologia. Con questa operazione viene ripreso il punto di vista dell’apostolo Paolo, che ha parlato di Gesù Cristo come del secondo Adamo, È la prospettiva, che aveva già trovato sviluppo in sant'Ireneo: l'incarnazione dev'essere compresa in generale come il compimento della creazione dell'uomo. E tuttavia io condivido le riserve di von Balthasar nei confronti di una concezione dell'antropologia come condizione "trascendentale" della cristologia e della teologia in generale. Con questa dottrina Rahner ha avuto il grande merito di rendere familiare alla teologia cattolica la concentrazione antropologica, che era stata sviluppata dalla teologia evangelica del secolo XIX. Ma l'interpretazione kantianizzante dell'antropologia come condizione "trascendentale" degli enunciati teologici si presta ad oscurare proprio il fatto che, nel rapporto tra antropologia e cristologia, è in gioco proprio la storia dell'essere dell'uomo. La natura umana non è una, intemporale, universale e identica, condizione di ciò che in vario e mutevole modo viene ad apparire nella storia, ma la stessa natura umana ha una storia che è in cammino dal primo al secondo Adamo».



Già nel saggio La questione su Dio (1965) e negli articoli raccolti nel libro Idea di Dio e libertà umana (1972), lei sottolineava che, se il topos dove, nell'attuale orizzonte culturale, si pone la questione su Dio è certamente la questione dell'uomo, tuttavia il topos dove sorge la questione non può condizionare l'impianto di tutta la teologia, che, altrimenti, finirebbe per essere weltlos, senza-mondo, e, in definitiva, unwirklich, derealizzata, senza realtà. È una tematica che lei ha affrontato in dialogo con uomini di scienza soprattutto nelle Considerazioni su una teologia della natura (1970). Il tema della natura si impone oggi con più urgenza e con modalità nuove per l'affermarsi del discorso ecologico, al quale dedica alcune pagine nella prima parte dell'Antropologia. Come vede il rapporto tra riflessione sull’uomo e riflessione sulla natura?

«Chi parla di un solo Dio, parla esplicitamente e implicitamente della realtà, che determina tutto, e non soltanto l'uomo. Anche per lo stesso uomo, Dio non potrebbe essere la realtà che tutto determina, se non fosse pure il signore della  natura. Inoltre, anche nell’epoca tecnologica la vita dello stesso uomo dipende ancora in larga misura da condizioni naturali. Anche se nella modernità l’antropologia è diventata il punto di partenza delle questioni su Dio, Dio può essere pensato come Dio, solo a condizione che Dio, cioè la realtà che tutto determina, sia pensato come colui che crea e dà compimento al mondo della natura con inlcusione dell’uomo. 

Certo, la problematica ecologica specialmente sotto il profilo etico è urgente, ma per una dottrina teologica della creazione sono fondamentali in prima linea la fisica, la cosmologia fisica, la biologia teoretica e la dottrina dell’evoluzione. Anche se le condizioni di dialogo con le scienze della natura sono oggi migliori per la teologia di quanto non lo fossero cent'anni fa, siamo ancora ben lontani dall'aver descritto anche soltanto in modo adeguato i compiti che qui incombono. 

Una critica inclusione dell'immagine del mondo, propria delle scienze della natura, nella teologia della creazione, è impossibile senza l'aiuto della filosofia, ma anche in filosofia risulta che la filosofia della natura appartiene agli ambiti meno elaborati. Questo potrebbe essere una conseguenza della decadenza della metafisica. La teologia deve avere un interesse al rinnovamento della metafisica, anche solo nell'interesse di una nuova plausibilità della dottrina cristiana del mondo come creazione. 

La crisi odierna dell'idea cristiana di Dio dipende non da ultimo dal fatto che oggi non abbiamo alcuna chiara immagine del rapporto tra Dio e mondo. La dottrina cristiana di Dio come creatore diventa allora troppo facilmente una formula vuota, che certamente ha il suggello della tradizione, ma che non è più chiaramente riferibile alla comprensione della realtà del mondo, che la scienza moderna ci ha mediato e ci ha reso ovvio. Si tratta di compiti, che vanno oltre l’ambito dell’antropologia. 

Per i problemi etici invece nel campo dell’ecologia disponiamo di una fondazione antropologica nella dottrina cristiana, secondo la quale l’uomo come immagine di Dio è destinato ad essere il rappresentante dell’autorità e della signoria del Creatore del mondo. La vocazione alla signoria non significa che l’uomo la possa esercitare a suo piacimento. Questo è soltanto la perversione del compito assegnato da Dio all’uomo, qual è stata operata dal secolarismo della cultura moderna. In questo modo l’uomo moderno ha fallito nel suo incarico alla signoria sul mondo come rappresentante della volontà creatrice di Dio, proprio in quanto non ha saputo conservare la creazione, così come essa corrisponde alla volontà del suo Creatore. Ad una comprensione cristiana dell’incarico, affidato all’uomo, di signoria sul mondo della natura, appartiene anche la responsabilità per il mantenimento e per la cura della creazione».
 





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Rosino Gibellini
Teologia e ragione
Itinerario e opera di Wolfhart Pannenberg


(Queriniana 1980
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