05/02/2008
107. Quale crisi del cristianesimo in Asia? di Adolfo Nicolás
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Il capitolo generale della Compagnia di Gesù ha eletto come nuovo Preposito generale il p. Adolfo Nicolás S.J. Nato in Spagna nel 1936, è stato missionario gesuita in Estremo Oriente per circa 45 anni, molti dei quali vissuti nelle Filippine, nella Corea del Sud e soprattutto in Giappone. Ha compiuto gli studi alla Sophia University di Tokio, dove ha pure insegnato teologia. Tra i suoi interessi accademici: la teologia sacramentaria, le tematiche dell’inculturazione e il dialogo interreligioso.
Il nuovo Preposito generale ha pubblicato un recente articolo sulla rivista internazionale di teologia
Concilium 3/2005 sul tema “Cristianesimo in crisi?”, di cui riportiamo le pagine più significative, che possono aiutare a delineare il profilo pastorale e teologico della nuova guida della Compagnia di Gesù.


In Asia siamo in situazione di crisi perché il nostro messaggio non è reso visibile dalla nostra vita. Il vangelo della misericordia e della riconciliazione è negato dalla nostra incapacità di riconciliare coloro che hanno fallito nelle loro promesse, o nei loro matrimoni. L’invito alla mensa del Signore non parla dell’ospitalità perché non diamo il benvenuto a quelli tra i nostri stessi fratelli e sorelle, cui è accaduto di nascere e crescere in un mondo o un ambiente religioso differente. La gioia e la semplicità del perdono e del servizio hanno lasciato il posto a un complicato sistema di controlli e regolamenti che rendono il vangelo qualcosa di distante dalle persone. Nelle chiese occidentali o più antiche c’è la possibilità di spiegare come e perché alcune di queste anomalie si sono sviluppate, ma in una conversazione a cuore aperto con persone di altre religioni in Asia, quelle stesse spiegazioni provocano solo meraviglia e disappunto.


Crisi nel nostro ministero pastorale e teologico

Il campo naturale di questa crisi è quello pastorale, dove, per nostra stessa vergogna e costernazione, sembrano occupare molto più spazio, nella predicazione e nelle direttive dei pastori, le norme e gli obblighi rispetto alla gioia, alla speranza e alla libertà: dove l’apprendere dottrine (spesso meno che intelligibili e raramente interessanti) occupa più spazio che la comunione, il servizio e l’ospitalità. Eppure il campo pastorale è il miglior luogo che noi, preti, religiosi e laici, abbiamo in comune, e nel quale cresciamo nello spirito del vangelo. La pastorale è fondamentalmente e radicalmente “incontro”, quella apertura pericolosa all’altro che ci fa sentire nudi di fronte alla verità, all’onestà e alla misericordia. Il lavoro pastorale è un invito continuo a divenire vuoti di sé, per essere “ricettivi” dell’altro e dell’altra, con le sue preoccupazioni, gioie, domande, scoraggiamenti o speranze. La relazione servizio-vuoto interiore è così pertinente che Paolo non esita ad applicarla a Gesù Cristo in molte lettere. È anche una relazione che ha pieno senso nella tradizione asiatica buddhista. Perciò quando, in Asia, scegliamo di diventare un pastore di successo, piuttosto che uno che fa il vuoto interiore e dona se stesso, perdiamo qualcosa della nostra natura in Cristo, ed entriamo in crisi.

La crisi non è meno profonda per ciò che riguarda la teologia. Le religioni asiatiche – specialmente il buddismo – sono una sfida continua per ogni parola teologica che produciamo. Mettono in questione la supposta “chiarezza” di molte delle nostre affermazioni e spiegazioni. Fondamentalmente perché è una chiarezza senza trasparenza, che esplica meglio i concetti e le definizioni che la vita, in tutti i suoi dolori e le sue gioie. Il senso critico verso il linguaggio religioso non è specificamente asiatico. Il cardinal Ratzinger, in uno dei suoi scritti sulla fede cristiana affermava, diversi decenni fa, che “tutte le affermazioni teologiche hanno un valore soltanto approssimativo” o qualcosa di analogo. Questa saggia e ispirata affermazione troverebbe nelle religioni asiatiche il più profondo assenso e la più radicale delle interpretazioni.

Al tempo stesso, i pensatori asiatici, imbevuti delle proprie tradizioni religiose, continuano a stupirsi dell’ambiguità e della leggerezza con cui usiamo termini così centrali e importanti quali “salvezza”, “fede”, “liberazione”, e simili. Il tipo di teologia che è diventata moneta corrente nei nostri seminari è rimasta distante dalla vita delle persone in Oriente e in Occidente; distanza che raddoppia quando viene utilizzata in Asia come se fosse “senso comune cattolico”. È un linguaggio in tensione, in conflitto, in disarmonia con altri linguaggi, immagini, percezioni, simboli e espressioni religiose che hanno dato una direzione, e un senso, una speranza, a milioni di persone. E per rimanere fedele alla metodologia delle domande accademiche occidentali, ha fallito nell’integrazione di conoscenze serie e modi di saggezza religiosa più liberanti, impossibili da sistematizzare, di svuotamento radicale, non-dualismo e trascendenza.


Crisi di spiritualità

È per questa ragione che alla radice e al cuore di questa crisi globale vi è la spiritualità. La crisi non è a livello della teoria; abbiamo una teoria eccellente della vita nello spirito. La crisi ha luogo a livello della pratica, dove la spiritualità non è una teoria esplicativa, o addirittura un sistema di pratiche devozionali, ma vita, incontro, crescita e comunione. Siamo davvero in grado di aiutare le persone ad avvicinarsi al Dio vivente di Gesù Cristo? Sappiamo accompagnare le persone nella lettura delle Scritture fino alla scoperta e alla trasformazione che questa scrittura deve produrre? Siamo veramente capaci di aiutare l’esperienza comunitaria nel passaggio pasquale rappresentato, realizzato e celebrato da ogni eucaristia? La prossimità a Cristo, alla sua parola, alla sua memoria è davvero una forza e un’ispirazione dinamica che cambia le relazioni, i valori, la solidarietà, il servizio reso al povero e la passione di lavorare per “un mondo differente”?

Ancora una volta tocchiamo un problema universale. I veri maestri spirituali di tutte le età sono più propensi a insegnare vie per arrivare a Dio che a dare risposte a domande che riguardano Dio. L’Asia ha prodotto una ricchezza incredibile di tali “vie”. La ricerca di saggezza o della divinità è molto concreta, e i maestri continuano a guidare le persone nel loro viaggio dell’anima. È in questo contesto che noi cristiani dobbiamo pensare e riconsiderare le nostre pratiche, dalle semplici devozioni alle celebrazioni sacramentali. Qual è la “via” cristiana nei paesi asiatici? La crisi delle nostre pratiche spirituali date per assodate dovrebbe essere un invito a riscoprire la loro ispirazione autentica, il loro dramma originario, il loro primo “viaggio” in contatto e nella sequela di Gesù e dei suoi seguaci. Il vangelo è più che un insieme di parole, e i sacramenti sono più che dei riti. L’Asia ci sta chiedendo perché queste pratiche non sono diventate parte della via cristiana attraverso le battaglie quotidiane delle persone, perché sono divenute una enclave per il clero e per i concettualmente “iniziati”. Perché un nutrimento così abbondante è tenuto lontano dagli affamati e dai poveri.

Non meraviglia, allora, che la crisi del cristianesimo colpisca soprattutto la stessa chiesa. La chiesa deve recuperare la sua umile posizione nel piano della salvezza. Come tutte le mediazioni umane, è soggetta alla legge della crescita e del decadimento, del peccato e della grazia, della morte e resurrezione. Fingere che sia altrimenti che così è un auto-inganno, è il rinnegamento della croce e della condizione di servo che Gesù ha assunto su di sé per tutte quelle persone (e istituzioni) che vogliono seguirlo fino alla fine. La chiesa in Asia è stata povera spesso, perseguitata in molti luoghi e per lunghi periodi, senza alcun potere e quasi invisibile in non pochi paesi… a loro credito, molti vescovi e altre figure religiose in Asia erano felici di questo essere umile della chiesa. Questa è l’immagine della chiesa di Cristo che ha più senso in Asia; una chiesa di casa nella povertà delle masse, e nell’ospitalità – mai discriminante – della speranza.

E tuttavia non è questa l’immagine che noi “ecclesiastici” comunichiamo più chiaramente. C’è una brama di visibilità, di influenza, di diverse forme di potere (incluso, specialmente, il potere “spirituale”), di successo visibile, cosa che svilisce la gioia di accompagnare Cristo in povertà e umiltà. La chiesa è stata molto restia ad aprire le proprie porte e a cambiare le proprie strutture in obbedienza allo Spirito di Cristo che le ha parlato nel Vaticano II. Per questo in Asia la chiesa appare spesso incoerente, e produce talora stupore e disappunto. Se fossimo consapevoli della crisi che stiamo di fatto attraversando, riconsidereremmo il nostro stile, il nostro linguaggio, le nostre celebrazioni alla ricerca di una maggiore armonia. L’Asia non riuscirà mai a comprendere come una chiesa “umile” possa tanto facilmente trascurare “altre vie di salvezza” o giudicarle come “minori della nostra”. L’Asia, con i suoi santi e mistici, i suoi testimoni ed eroici fedeli non comprenderà mai come una chiesa nata dal vangelo e condotta dallo Spirito di Gesù Cristo possa praticamente ignorare la ricchezza religiosa delle altre religioni e la salvezza reale ed efficace che hanno portato a migliaia di generazioni.


La crisi: il tempo della visita del Signore

Ebbene sì, la crisi. È difficile negarla o chiudere gli occhi. Ma la crisi è soprattutto opportunità e sfida, e questo mette tutti noi nella chiesa di fronte al compito di una nuova creazione. Una nuova creazione che sia di fatto una riscoperta del vangelo di Gesù Cristo e una nuova disponibilità a essere ricreati come individui e come comunità, ovvero come chiesa, dallo Spirito di Dio.

Dobbiamo ritornare nel viaggio pasquale dello svuotamento di sé; è la sola possibilità che abbiamo di incontrare il Cristo sofferente nel povero dell’Asia, nelle vittime di millenni di terremoti, tsunami, oppressione e ingiustizia. Lo svuotamento di sé giunge fino ai nostri concetti, le nostre teologie, le istituzioni, i mondi teoretici o devozionali. Aloysius Pieris parla di un nuovo battesimo nella religiosità asiatica, e della croce della povertà asiatica. La crisi è la benedizione che abbiamo bisogno di tenere sempre aperta e crescente, riscoprente e ricreante con lo Spirito del Signore. E il cristianesimo in Asia ha bisogno di questa nuova creazione per essere come Cristo ha sempre voluto fossero i suoi discepoli. Dobbiamo ripercorrere i passi di Gesù attraverso la Galilea verso Gerusalemme e da Gerusalemme al mondo intero. Le osservazioni e la compagnia di persone di altra fede e tradizione renderà il nostro viaggio più attento, più aperto alle intonazioni e alle sfumature che non abbiamo sentito la prima volta.

In definitiva dobbiamo diventare di nuovo “compagni” degli amici dell’Asia, con noi pellegrini nell’avventura dell’essere umani, e trovare la pienezza di umanità nel camminare con Dio nel riposto cuore della vita. Insieme nel vuoto interiore, così da poter tutti raggiungere una nuova pienezza. Proprio come Gesù che “da ricco divenne povero così che potessimo partecipare della sua ricchezza”.

Prima daremo il benvenuto alla crisi, e ci muoveremo in compagnia dello “Spirito creatore”, meglio sarà.


© 2008 by Teologi@Internet
Traduzione dall’inglese di Gianmaria Zamagni
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)
Teologi@Internet: giornale telematico fondato da Rosino Gibellini