15/12/2022
523. RIPENSARE L'OSPITALITA' In direzione di una kenosi socio-teologica di Néstor Medina
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Quando si pensa all’immigrazione (qui è disponibile per la consultazione il più recente Rapporto della Fondazione Caritas-Migrantes), la nozione di ospitalità affiora continuamente come canovaccio utile per comprendere l’atto di accogliere uno straniero; ma i modi tradizionali di comprendere e praticare l’ospitalità vanno messi in discussione. Esaltando l’ospitalità, per esempio, spesso ci si concentra su chi offre ospitalità: ma esaltarne la generosità rasenta, sotto sotto, l’autocelebrazione compiaciuta e sancisce altresì un pesante «debito invisibile» (Ilsup Ahn) nei suoi confronti da parte del migrante. Sembrano sottigliezze, ma così non è. Ecco dunque che il teologo di origini guatemalteche Néstor Medina formula un paio di proposte correttive. Sono tratte dal nuovo fascicolo della rivista Concilium, che sarà dedicato proprio al tema: Ospitalità e amicizia.

 

 

Parlare di ospitalità come di un atto astratto completamente slegato dalle strutture storiche che costringono molti a lasciare il proprio Paese in cerca di rifugio o di una nuova vita altrove è l’esito di un’analisi incompleta dei complessi giochi di potere messi in atto dai Paesi più ricchi. Ne consegue che è eticamente irresponsabile non accorgersi delle strutture geopolitiche ed economiche – storiche e contemporanee – che spingono molti a partire. Quindi, per distogliere i riflettori dall’ospitante e puntarli sullo straniero, su chi è in difficoltà, sul migrante, su chi ha bisogno di accoglienza, nel tentativo di riconoscere la storia della colonizzazione e il suo rapporto con la migrazione, propongo brevemente due concetti cruciali, utili per ripensare l’ospitalità.



L’immigrato al centro, come assoluta alterità

Il primo deriva dall’opera del filosofo ebreo lituano Emanuel Levinas e da ciò che egli chiama trascendenza. In Levinas la trascendenza opera in due modi specifici. In primo luogo emerge come il riconoscimento assoluto dell’irriducibilità dell’altro. Per coloro che migrano e sono spesso ridotti a uno status giuridico di non-esistenza, la nozione etica di trascendenza comporta l’affermazione dell’esistenza di un altro che si pone al di fuori del prevalente «sistema astratto universalizzante di ontologia dell’essere», che pretende di essere normativo. È il riconoscimento etico dell’assoluta umanità e alterità dell’altro.

La seconda accezione di trascendenza proposta da Levinas accentua l’attenzione iniziale sull’esistenza dell’assoluta alterità dell’altro. Qui egli riorienta l’esistenza come atto di ex-sistenza umana, che va al di là di se stessi, nel momento dell’incontro con l’altro. La trascendenza fa parte dell’umano e implica uscire da sé per andare verso la cura dell’altro. Secondo Levinas non c’è spazio per l’egoismo. Anzi, la trascendenza si fonda su un atto libero a favore degli interessi dell’altro. Andando oltre il riconoscimento dell’altro che esiste per forza propria, trascendenza significa essere eticamente obbligati a fare spazio all’altro.

Osservata dalla prospettiva dell’ospitalità, la doppia trascendenza di Levinas decentra l’ospitante per mettere al centro l’immigrato, lo straniero, colui che è dichiarato non-essere, la popolazione eccedente. L’implicazione pratica è che gli ospitanti trascendono se stessi, non tanto andando verso l’altro, quanto limitando la portata dei propri spazi esistenziali e facendo così effettivamente spazio all’altro. L’ospitalità non è qualcosa che si dà o si riconosce, non è un permesso da accordare: essa significa, piuttosto, assumere una posizione di ricettività accettando l’esistenza dell’altro.



La kenosis, come dovere di far spazio all’altro

Il secondo concetto si riferisce alla prima cristianità di Filippesi 2,5-11, quando Paolo parla di svuotamento di Cristo, o kenosis. Di solito il termine è usato in senso strettamente cristologico. Si può sostenere, del resto, che la kenosis di Gesù prosegue a livello culturale. La manifestazione divina nella cultura dei popoli infonde loro la capacità di partecipare del divino e può essere intesa come un’estensione dell’evento kenotico. Qui vorrei proporre la kenosis come dovere morale di fare spazio all’altro: oltre a sposarsi perfettamente con la nozione levinasiana di trascendenza, questa prospettiva approda all’ambito teologico.

Ciò che propongo è una kenosis socio-teologica, che richiede di imitare lo svuotamento di sé da parte di Cristo per fare spazio all’umanità nell’atto dell’incarnazione. Dicendo che è socio-teologica, intendo estendere la nostra comprensione teologica della kenosis fino ad abbracciare il contesto sociale dell’altro; questo ci spinge a interrogare le dinamiche dell’asimmetria sociale del potere geopolitico e ad attuare pratiche etiche di amicizia. Questa kenosis socio-teologica sposta l’attenzione verso i privilegi sociali che le nazioni hanno e dovrebbero diffondere quando incontrano i migranti.

Si noti il doppio movimento: questo atto kenotico socio-teologico bypassa colui che è ospitale e reinterpreta l’azione dell’ospitalità. Non si tratta di un atto di buona volontà che cede alla tentazione dell’autocompiacimento. Tutt’altro: la kenosis socio-teologica mette in discussione i privilegi della nazione e della persona che possono offrire ospitalità, interroga le circostanze storiche coloniali che hanno generato questo differenziale di potere tra ospitante e ospitato, e conduce verso un imperativo etico-morale che impone di rinunciare ai privilegi coloniali. Di conseguenza l’atto dell’ospitalità comporta saper letteralmente ritagliare spazio sociale quotidiano per l’altro, non per dare seguito a un invito condizionato, bensì per vivere una rinuncia etica a spazi coloniali di privilegio. In parole povere, l’ospitalità come atto kenotico è un cambiamento fondamentale delle dinamiche di potere.

È un dovere morale costitutivo, messo in atto da chi ha i mezzi per essere ospitale verso chi ha bisogno di ospitalità. In uno stato di crisi migratoria, come quello in cui versiamo attualmente, questo imperativo morale si accentua. È nostro dovere morale valutare le circostanze coloniali presenti e storiche che causano questa crisi e impegnarci nel faticoso processo di decolonizzazione, rinunciando a privilegi, risorse e potere. In questo modo l’ospitalità viene riconfigurata in un atto di accoglienza dell’altro come forma di rinuncia ai privilegi storicamente accordati dalla colonizzazione, dove le nazioni e gli individui più ricchi trascendono se stessi facendo spazio affinché altri abbiano la possibilità di vivere.



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