08/01/2008
105. Una speranza più grande. La seconda enciclica di Benedetto XVI di Rosino Gibellini
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Dopo l’enciclica sulla carità (2005/2006) appare ora l’enciclica sulla speranza (30 nov. 2007). Si può dunque prevedere, e attendere per il futuro (ma è già annunciata per il prossimo anno una enciclica sociale in occasione del 40° anniversario, ritardato, della grande enciclica Populorum progressio [1967]) una enciclica sulla fede. Il papa teologo continua la linea della riconduzione all’essenziale del discorso cristiano, già messa in opera nella sua Introduzione al cristianesimo (1968). Le tre virtù teologali, infatti, costituiscono i tre atteggiamenti fondamentali dell’esistenza cristiana. Il teologo della Gregoriana Juan Alfaro aveva pubblicato nel 1966 le sue dispense sulle virtù teologali, ancora usate dagli studenti, con il titolo emblematico Esistenza cristiana.

L’attuale enciclica Spe salvi - «nella speranza siamo stati salvati (Rom 8, 24) – si snoda in 50 paragrafi: brevi, leggibili e chiari nel dettato.

Si possono individuare tre tematiche principali:
1. la definizione biblico-teologica della speranza cristiana;
2. il confronto con le ideologie della modernità;
3. una rivisitazione dei Novissimi.

1. Innanzitutto: che cos’è la speranza cristiana? L’enciclica insiste nello stringere il rapporto tra fede e speranza fino ad affermare: «La fede è speranza» (n. 2). Si potrebbe spiegare così, utilizzando altre parole e immagini: la fede si espande in speranza, il respiro della fede è la speranza (secondo un linguaggio moltmanniano); nel linguaggio dell’enciclica: la fede s’intreccia alla speranza, la pienezza della fede comporta la speranza, speranza è equivalente di fede. Una certa concezione della fede insiste sui contenuti rivelati da accogliere nella fede, e pertanto sulla difficoltà della fede, ma, se si guarda alla fede nella sua pienezza, a ciò che dà la fede, al suo lato luminoso, si deve affermare che la fede è permeata di speranza, dischiude futuro, apre al futuro assoluto (nel linguaggio di Rahner), dà «la grande speranza che sorregge tutta la vita» (n. 27), «indica la via oltre la morte» (n. 6), e, così, «speranza è redenzione» (n. 2).

L’enciclica esamina attentamente l’espressione della Lettera agli Ebrei (11, 1): «La fede è la “sostanza” delle cose che si sperano», che rappresenta un testo classico in materia. Di questa celebre definizione il papa commenta due interpretazioni. La prima interpretazione, che si colloca sul versante soggettivo, si trova in Lutero e nella traduzione ecumenica della Bibbia in lingua tedesca, la intende così: «La fede è uno stare-saldi in ciò che si spera», e cioè la fede è convinzione di un futuro donato da Dio. La seconda interpretazione, che si colloca sul versante oggettivo ed è filologicamente argomentata citando il Kittel (il Grande Lessico del Nuovo Testamento), la intende così: «La fede è la prova delle cose sperate», e cioè la fede è già esperienza del futuro promesso e sperato. Questa seconda interpretazione è quella proposta dall’enciclica, che è correttiva della prima, ma insieme è inclusiva. La fede è anche convinzione, ma è convinzione sulla base dell’esperienza di vita nuova vissuta nella fede e aperta alla vita eterna; la fede è esperienza dialogica con Dio, che la morte non può interrompere. È questa la dimensione di speranza della fede, e la sua efficacia redentiva. Qui si potrebbe rimandare, ma l’enciclica non lo fa, al trattato pubblicato dal teologo Joseph Ratzinger, dal titolo Escatologia: morte e vita del 1977 (il teologo Ratzinger ha frequentato soprattutto due trattati teologici: l’ecclesiologia e l’escatologia), dove è ampiamente trattata la dimensione dialogica dell’esistenza cristiana.

La fede spera la salvezza da Dio: è la convinzione della fede, ma, ancor più, è già l’esperienza della fede, che vive la vita nel dialogo con Dio, che la morte non riuscirà ad interrompere. In questo senso, soggettivo (come convinzione), e oggettivo (come esperienza), la speranza, la speranza della fede, è redenzione: «Questa speranza, come speranza, è redenzione» (n. 3).


2. L’enciclica sottolinea anche il carattere comunitario e sociale della speranza cristiana, con rimando esplicito all’opera del teologo francese Henri de Lubac, Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma del 1937, dove si mostra che la cattolicità è socialità e solidarietà totale. Con la tesi illustrata da Cattolicismo, commentava von Balthasar – come citavo ne La teologia del XX secolo – «si prende posizione contro ogni limitazione giansenista della redenzione riservata agli “eletti”, ma anche contro ogni individualismo soterico. Se la chiesa avesse impedito di continuo queste deviazioni, presumibilmente il marxismo sarebbe stato superfluo». Forse, qui, si mostra un esempio di quella «autocritica del cristianesimo moderno» (n. 22), raccomandata dall’enciclica. La sottolineatura del carattere comunitario della salvezza, oggetto della speranza cristiana, fa da ponte al confronto con la Modernità (nn. 16-23), che ha già richiamato l’attenzione anche di lettori «laici».

A partire dall’età moderna – si citano il Novum Organum (1620) e l’utopia tecnocratica della Nuova Atlantide (1627) di Francesco Bacone – prende inizio un processo che trasforma la fede in «fede nel progresso», e la speranza in attesa del «regno dell’uomo», come regno della ragione e della libertà, nella versione illuminista (Kant) e nella versione comunista (Marx). Cosa è rimasto? – sembra domandare il papa.

Kant, che perorava il passaggio dalla fede ecclesiastica alla fede razionale, successivamente nello scritto La fine di tutte le cose (1795) prevede, attenendosi alla ragione, la possibilità di una «fine perversa di tutte le cose» (n. 19, n. 23). Per quanto riguarda il comunismo basta guardare alla realtà: esso ha lasciato dietro di sé «una distruzione desolante» (n. 21).

Sulla base di questa analisi il papa avanza due proposte decisive: «Un’autocritica dell’età moderna in dialogo con il cristianesimo e con la sua concezione della speranza»; ma, insieme, «un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se steso a partire dalle proprie radici» (n. 22). Decisamente il n. 22 – con queste due proposte – è il paragrafo più importante della parte culturale e filosofica dell’enciclica.

Proponendo «un’autocritica del mondo moderno» il papa continua a sollecitare la grande cultura ad un dialogo con il cristianesimo sul futuro dell’umanità dopo la caduta delle ideologie. E, così, continua quella strategia già evidenziata dal dialogo di Monaco di Baviera con Habermas (2004). Ma il papa sollecita anche – con una inusuale espressione, che ha richiamato l’attenzione degli osservatori – «un’autocritica del cristianesimo moderno». Ora, il libro di Henri de Lubac degli Anni Trenta, citato dal papa, che si situa nel contesto di un rinnovamento della teologia cattolica, che andrà poi sotto il nome di nouvelle théologie, credo che rappresenti, o possa rappresentare, un momento di questa autocritica, sempre da riprendere, ma che ha anche una storia. Essa ha continuato con l’evento del Concilio Vaticano II, e con le maggiori istanze della teologia cattolica ed ecumenica degli ultimi decenni, dove è viva la speranza nel Regno di Dio; ma, come si afferma nel documento conclusivo del Sinodo della Repubblica Federale tedesca del 1975, dal titolo Un credo per l’uomo d’oggi: La nostra speranza, – steso da Johann Baptist Metz e che era stato lodato anche sotto il profilo linguistico dallo scrittore tedesco Heinrich Böll –: «Il Regno di Dio non è indifferente rispetto all’andamento del commercio mondiale!». La «grande speranza» non ha alternative, ma resta il problema teorico e pratico di come articolare le speranze dell’umanità con il «“plusvalore” del cielo» (n. 35). Credo che questa autocritica del cristianesimo moderno, invocata dall’enciclica, sia stata e sia, per tentativi, il compito prevalente della teologia moderna. Ha scritto uno dei più noti teologi cattolici tedeschi contemporanei, Gisbert Greshake: «L’intera teologia moderna, là dove si trova realmente a confronto con il proprio tempo, è un continuo tentativo di mediazione inteso ad equilibrare tra loro la soteriologia tradizionale e l’esperienza moderna della soggettività e a sviluppare nuovi modelli di comprensione per la redenzione».


3. Una terza grande tematica dell’enciclica può essere individuata in una rivisitazione dei Novissimi (nn. 41-48), che, forse, rappresenta la parte più innovativa del documento papale. Il papa guarda con attenzione alla Scuola di Francoforte. I filosofi francofortesi hanno denunciato l’«ambiguità del progresso» (n. 22). Secondo le parole, citate, di Adorno: «Il progresso, visto da vicino, sarebbe il progresso dalla fionda alla megabomba» (n. 22). Horkheimer si spinge fino alla «nostalgia del totalmente Altro»; e Adorno nella citata Dialettica negativa (1966) confessa che solo «la risurrezione della carne» sarebbe «revoca» del passato di ingiustizia, sofferenza e morte, ma si tratta di una categoria estranea alla filosofia. Ma non è estranea alla speranza cristiana, anzi ne è la meta ultima e, per questo, «è redenzione». Si tratta di riproporla in modo più adeguato e più convincente, e l’enciclica lo fa, utilizzando anche la riflessione di «alcuni teologi» (n. 47), dove è facile, credo, individuare il nome di Rahner, e soprattutto di von Balthasar (ma si devono ricordare anche Barth e Moltmann), che hanno rinnovato in profondità il pensiero escatologico cristiano. In particolare, qui, sarebbe da citare la concentrazione cristologica dei novissimi operata da von Balthasar in un saggio del 1959 (pubblicato in Giornale di teologia con il titolo I novissimi nella teologia contemporanea, 1967): «È Dio il “fine ultimo” della sua creatura. Egli è il cielo per chi lo guadagna, l’inferno per chi lo perde, il giudizio per chi è esaminato da Lui, il purgatorio per chi è purificato da Lui. Egli è Colui per il quale muore tutto ciò che è mortale e che risuscita per Lui e in Lui». Da questa de-cosmologizzazione dei novissimi e da questa concentrazione cristologica delle realtà ultime l’enciclica offre una proponibile interpretazione del Giudizio, e delle sue conseguenze: purgatorio, inferno, paradiso, che congiunge giustizia e grazia, e che opera una dilatazione della speranza nella sua efficacia redentiva.

Rivolta ai filosofi, che sanno criticare le ideologie, e praticano una dialettica negativa, l’enciclica afferma – e sono grandi parole – : «Esiste la “revoca” della sofferenza passata che ristabilisce il diritto. Per questo la fede nel Giudizio è innanzitutto speranza – quella speranza, la cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli» (n. 43). Come dire: la speranza della fede conosce il segreto della vita e della storia.





NB. Una redazione più breve è stata pubblicata su L’Osservatore Romano (13 dicembre 2007) con il titolo La «Spe salvi» tra modernità ed escatologia.
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