11/01/2017
359. VIVERE LA FEDE NELLA SOCIETÀ DELLA GRATIFICAZIONE ISTANTANEA di Zygmunt Bauman
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Riproduciamo di seguito un estratto dell’articolo del noto sociologo Zygmunt Bauman (1925-2017), apparso in «Concilium. Rivista internazionale di teologia». Si tratta di un’analisi attualissima e lucidissima, a tratti persino spietata, della precarietà strutturale del nostro mondo. Parole su cui riflettere per comprendere sempre meglio il sentore di “crisi” e di instabilità che pervade oggi le nostre vite.

 

 



Gli antichi sapevano già la verità. Nel suo dialogo sulla Vita beata, Lucio Anneo Seneca mise in evidenza che, in maniera totalmente opposta ai piaceri della virtù, le delizie dell’estasi si raffreddano proprio nel momento in cui sono più bollenti; la loro capacità è talmente piccola da colmarsi istantaneamente fino all'esaurimento. Corroborati soltanto per un attimo fuggente, coloro che vanno in cerca del piacere sensuale cadono velocemente nel languore e nell'apatia. In altri termini, la loro felicità ha vita breve e i loro sogni sono autodistruttivi. Ammoniva Seneca: la gratificazione che viene più velocemente è anche quella che muore prima.

L'antico saggio aveva anche indovinato quale tipo di persona tende a scegliere una vita dedicata alla ricerca dei piaceri che portano istantaneamente alla gratificazione. In un altro dialogo, dedicato alla Brevità della vita, egli nota che questo tipo di vita è il destino di persone che dimenticano il passato, non si curano del presente e hanno timore del futuro.

Le osservazioni vere sulla difficoltà della situazione umana rimangono tali a lungo. La loro verità non è intaccata dalle prove della storia. Le intuizioni di Seneca appartengono senza dubbio a questa categoria. La fragilità endemica della gratificazione istantanea e lo stretto legame fra l'ossessione del piacere immediato, l'indifferenza verso ciò che è stato e la sfiducia in ciò che deve venire tendono a trovare conferma oggi così come la trovavano due millenni fa. Quel che è cambiato è il numero di coloro che sperimentano in prima persona la miseria del vivere in un tempo appiattito e segmentato. Ciò che a Seneca pareva soltanto il segno di una deviazione deplorevole dal retto cammino - il segno di una via smarrita e di una vita sprecata - è diventato la norma. Quella che era solitamente una scelta di pochi è ora il destino di molti. Per comprendere perché ciò sia accaduto, non sarà male seguire i sospetti di Seneca.

Un saggio di Pierre Bourdieu, uno dei più sensibili analisti sociali dei nostri tempi, si intitola: La precarietà è oggi ovunque. Il titolo dice tutto: precarietà, instabilità, vulnerabilità sono un carattere diffusissimo (oltre che il più dolorosamente sentito) delle condizioni di vita contemporanee. Il teorico francese parla di précarité, i tedeschi di Unsicherheit e Risikogesellschaft (insicurezza e società del rischio), gli italiani di incertezza e gli inglesi di insecurity. Ma tutti hanno in mente lo stesso aspetto della difficoltà umana, sperimentato in tutta la parte altamente sviluppata, modernizzata e benestante del globo, dove viene percepita come particolarmente snervante e deprimente per via della sua novità e del fatto di essere per molti versi priva di precedenti: il fenomeno che essi tentano di afferrare è l'esperienza combinata dell'insicurezza della posizione, dei diritti e dei mezzi di sostentamento, dell'incertezza quanto alla loro continuazione e stabilità futura e dell'in-sicurezza del proprio corpo, del proprio io e dei relativi prolungamenti: possessi, vicinato, comunità. La tendenza a dimenticare il passato, a non curarsi del presente e a temere il futuro veniva deprecata da Seneca come il fallimento personale di alcuni suoi contemporanei; oggi possiamo invece affermare che, nell'esperienza dei nostri simili, il passato non conta granché dal momento che non offre basi sicure per le prospettive della vita, il presente non riceve la giusta attenzione perché è praticamente fuori controllo, e vi sono buone ragioni per temere che il futuro abbia in serbo ulteriori e spiacevoli sorprese, prove e tribolazioni. Oggigiorno, la precarietà non è oggetto di scelta; è destino.

Aver fede significa aver fiducia nel significato della vita e attendersi che ciò che si fa o ci si astiene dal fare abbia un'importanza di lunga durata. La fede riesce facile quando l'esperienza di vita conferma che questa fiducia è ben fondata. Soltanto in un mondo relativamente stabile, in cui cose e atti mantengono il loro valore per un lungo periodo di tempo, un periodo paragonabile alla lunghezza della vita umana, è probabile che si dia tale conferma. In un mondo logico e coerente anche le azioni umane acquisiscono logica e coerenza. Come disse l'eminente filosofo morale Hans Jonas, vivendo in un mondo siffatto noi contiamo i giorni e i giorni contano. I nostri tempi sono tempi duri per la fede – per qualunque fede, sacra o profana. I nostri tempi sono tempi sfavorevoli alla fiducia e, più in generale, a propositi e sforzi di ampia portata, per l'evidente transitorietà e vulnerabilità di tutto (o quasi tutto) ciò che conta nella vita terrena.
Iniziamo dalla condizione preliminare di tutto il resto: i mezzi di sussistenza. Questi sono diventati estremamente fragili. Gli economisti tedeschi scrivono di una "società dei due terzi", aspettandosi che essa diventi presto di "un terzo", intendendo così che tutto ciò che serve per soddisfare la domanda del mercato può essere ora prodotto da due terzi della popolazione, e un terzo sarà presto sufficiente - lasciando il resto degli uomini e delle donne privi di occupazione, rendendoli economicamente inutili e socialmente ridondanti. Per quanto coraggiose possano essere le facce dei politici e audaci le loro promesse, la disoccupazione nei paesi ricchi è diventata "strutturale": non esiste, semplicemente, abbastanza lavoro per tutti.

Non serve grande immaginazione per delineare quanto sia divenuta fragile e incerta la vita delle persone che subiscono direttamente tali conseguenze. Il punto importante è tuttavia che le subiscono anche tutti gli altri, sebbene per il momento in maniera soltanto indiretta. Nel mondo della disoccupazione strutturale, nessuno può sentirsi al sicuro. Non esiste più nulla di simile a un impiego sicuro in un'azienda sicura; e non sono molte le abilità e le esperienze che, una volta acquisite, garantiscano l'offerta di un impiego e che l'impiego, una volta offerto, sia duraturo. Nessuno può ragionevolmente supporre di essere assicurato contro la prossima tornata di "ridimensionamento", "snellimento" o "razionalizzazione", contro i mutamenti erratici della domanda di mercato e le pressioni capricciose e tuttavia potenti della "competitività" e dell"'efficienza". "Flessibilità" è lo slogan del giorno. Esso predice occupazioni che non incorporano alcuna certezza di diritti: contratti a tempo determinato o rinnovabili, licenziamento senza preavviso e nessuna buonuscita.

Nessuno può sentirsi veramente insostituibile; anche la posizione più privilegiata può rivelarsi soltanto temporanea e "fino a nuovo ordine". E se gli esseri umani non contano, non contano neppure i giorni delle loro vite. Mancando una sicurezza sul lungo termine, la "gratificazione istantanea" appare, con le sue lusinghe, come una strategia ragionevole. Qualunque cosa la vita possa offrire, la offra hic et nunc - immediatamente. Chi sa che cosa potrà portare il domani? Il rinvio della soddisfazione ha perso il suo fascino: in fin dei conti, è assai incerto se il lavoro e gli sforzi investiti oggi rappresenteranno ancora un attivo al momento di raggiungere la ricompensa; è tutt'altro che certo, inoltre, che i premi che oggi appaiono attraenti saranno ancora desiderabili quando finalmente arriveranno. Gli attivi tendono a diventare passivi, i premi luccicanti si trasformano in simboli di vergogna, le mode vanno e vengono a velocità stupefacente, ogni oggetto di desiderio diventa obsoleto e sgradevole prima di poter essere pienamente goduto.

Se le cose stanno così, per evitare frustrazioni converrà allora astenersi dallo sviluppare abitudini e affetti o dall'assumere impegni duraturi. Gli oggetti del desiderio si godono meglio sul posto, per poi liberarsene; i mercati fanno in modo che siano costruiti in questo modo - che sia la gratificazione che l'obsolescenza siano istantanee. In questo modo, gli uomini e le donne vengono addestrati (costretti a imparare a loro spese) a percepire il mondo come un contenitore pieno di oggetti da gettare dopo l'uso, oggetti da adoperare una volta sola. Tutto il mondo – inclusi gli altri esseri umani. Ogni articolo è sostituibile, e per fortuna: cosa accadrebbe se apparisse all'orizzonte un prato più verde, se gioie più grandi - non ancora sperimentate - ci facessero cenno da lontano? In un mondo in cui il futuro è pieno di pericoli, ogni occasione che non venga sfruttata qui e ora è un'occasione perduta; il non sfruttarla è perciò imperdonabile e ingiustificato. Siccome gli impegni del giorno presente sono d'ostacolo alle occasioni del giorno successivo, il danno sarà tanto minore quanto più tali impegni saranno lievi e superficiali. “Adesso" è la parola-chiave di ogni strategia di vita, a qualunque cosa possa riferirsi. In un mondo incerto e imprevedibile, i viaggiatori abili, intelligenti e saggi si spostano con facilità, senza versare alcuna lacrima per ciò che potrebbe intralciarne le mosse.

In questo modo, la politica di "precarizzazione" condotta dagli operatori dei mercati del lavoro è assistita e spalleggiata da politiche di vita. L'una e le altre congiurano a produrre il medesimo risultato: l'affievolimento e l'appassimento, la rottura e la decomposizione dei vincoli umani, delle comunità e delle società. Impegni del tipo «finché morte non ci separi» divengono contratti «finché duri la soddisfazione», temporanei per loro stessa definizione e progetto – e suscettibili di essere rotti unilateralmente, in qualunque momento uno dei soci fiuti un maggior valore nell'uscire dalla relazione piuttosto che nel continuarla.
I legami e le relazioni sono visti, in altri termini, come cose da consumare, non da produrre: sono soggetti agli stessi criteri di valutazione cui è sottoposto ogni altro oggetto di consumo. Nel mercato dei beni di consumo, i prodotti ostensibilmente durevoli sono offerti di norma per un "periodo di prova", con la promessa della restituzione del denaro se l'acquirente è men che pienamente soddisfatto. Se i partner in una relazione sono visti in questi termini, il compito di entrambi non è più quello di "far funzionare il rapporto" - di fare in modo che vada avanti in ogni circostanza, di aiutarsi a vicenda nei momenti buoni e in quelli cattivi, di ridurre, se necessario, le proprie preferenze, di fare compromessi e sacrifici per il bene di un'unione duratura. Si tratta invece di ottenere soddisfazione da un prodotto pronto per l'uso; se il piacere ricavato non è all'altezza del livello promesso ed atteso, o se con la novità si esaurisce la gioia, non c'è ragione di rimanere attaccati al prodotto inferiore o invecchiato invece di trovarne un altro "nuovo e migliorato" al negozio.

Ciò che ne consegue è che la presupposta temporaneità delle relazioni tende a trasformarsi in una profezia che si autoadempie. Se il legame umano, come ogni altro oggetto di consumo, non è qualcosa da elaborare attraverso sforzi protratti e occasionali sacrifici, ma qualcosa da cui ci si aspetta una soddisfazione immediata, qualcosa che si rigetta in caso contrario e che si conserva ed utilizza soltanto finché continua a gratificare (e non più a lungo), allora non ha più molto senso compiere sforzi sempre più duri, e tanto meno sopportare disagi e scomodità, al fine di salvare la relazione. Un mondo saturo di incertezza e delle vite segmentate in episodi di breve durata (cui si chiede di apportare una gratificazione istantanea) intrattengono fra loro un rapporto di complicità, si sostengono e si rafforzano a vicenda.

Una parte cruciale di ogni fede è l'investimento di valore in qualcosa di più durevole della vita individuale, evanescente ed endemicamente mortale; qualcosa di duraturo, che resista all'impatto e all'erosione del tempo, forse addirittura qualcosa di immortale ed eterno. La morte individuale è inevitabile, ma la vita può essere utilizzata per negoziare e guadagnarsi un posto nell' eternità; può essere vissuta in maniera tale che la mortalità individuale sia trascesa - che la traccia lasciata dalla vita non vada totalmente cancellata. La fede può essere una faccenda spirituale, ma per resistere ha bisogno di un ancoraggio mondano; le sue radici devono affondare profondamente nell'esperienza della vita quotidiana.

Se la dedizione a valori duraturi è oggi in crisi, è perché l'idea di durata, di immortalità, è essa stessa in crisi. Ma l'immortalità è in crisi perché la fiducia quotidiana, di fondo, nel carattere duraturo delle cose verso cui e con cui la vita umana può orientarsi è minata dall'esperienza umana di ogni giorno. Tale erosione di fiducia è perpetrata a sua volta dall'endemica precarietà, fragilità, insicurezza e incertezza del posto umano nella società umana.

La promozione della competitività, e della ricerca "aperta a tutti" del massimo guadagno, a criterio sommo (o addirittura monopolizzante) della distinzione fra azione corretta e azione scorretta, fra azione giusta e azione sbagliata, è il fattore che reca la responsabilità ultima dell'"atmosfera di paura" che pervade la vita contemporanea della maggior parte degli uomini e delle donne, nonché della loro sensazione diffusa, forse universale, di insicurezza. La società non garantisce più, e neppure promette, rimedi collettivi alle sventure individuali. Agli individui è stata offerta una libertà di proporzioni inusitate (o meglio, gli individui vi sono stati gettati dentro), ma al prezzo di un'insicurezza analogamente inusitata. E quando c'è insicurezza, rimane poco tempo per preoccuparsi di valori che si librano al di sopra delle preoccupazioni quotidiane, come pure di tutto ciò che dura più a lungo dell'attimo fuggente.
Se non si farà qualcosa per rimediare allo spettro dell'insicurezza, la restaurazione della fede in valori permanenti e duraturi avrà ben poche probabilità di riuscita.
 

 [Traduzione dall’inglese di Giorgio Volpe]



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