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La grazia suppone la cultura
Duilio Albarello

La grazia suppone la cultura

Fede cristiana come agire nella storia

Prezzo di copertina: Euro 14,00 Prezzo scontato: Euro 13,30
Collana: Giornale di teologia 408
ISBN: 978-88-399-3408-6
Formato: 12,3 x 19,5 cm
Pagine: 192
© 2018

Descrizione

«La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve» (Evangelii gaudium, 115). Non può esistere una fede cristiana – ricorda con quell’espressione inconsueta papa Francesco – che non sia mediata dalla condizione storica e pratica dell’essere umano. La “legge dell’Incarnazione” richiede di considerare la storia come elemento costitutivo della fede: come suo spazio vitale concreto, verso cui uscire non per dare un’occhiata, ma per rimanere senza ritorno.
Il confronto con esponenti autorevoli del pensiero filosofico e teologico contemporaneo – Metz, Žižek, Milbank, Taylor, Habermas, Theobald... – permette allora di affrontare in maniera originale ed efficace alcune problematiche: la fenomenologia come modo nuovo di immaginare l’esperienza cristiana; il superamento del dualismo tra credere e conoscere; la misericordia come “architrave” del legame sociale ed ecclesiale; la sfida complessa del dialogo interreligioso. Perché è sempre più urgente investire le migliori risorse intellettuali e spirituali per riattivare il nesso vitale che congiunge la fede cristiana con l’azione storica.

Recensioni

La denuncia di Emmauel Mounier sul “pallore disincarnato”, inequivocabile sintomo di salute malferma, del cattolicesimo degli anni Quaranta del secolo scorso, con cui inizia il saggio, andrebbe probabilmente rivolta con periodicità regolare a ogni generazione di credenti, essendo sempre alto il rischio di un ripiegamento intimistico. Opportunamente, quindi, l’attuale pontefice invita i cristiani ad adeguare la presenza storica della fede alle sfide attuali e su questa linea lo studio di D. Albarello si propone di avviare una riflessione aperta per individuare delle piste percorribili oggi per fare della fede, con l’agire da essa ispirato, il lievito della cultura, come ha sempre richiesto la “legge dell’Incarnazione”.

L’assunzione della dimensione storica della fede nella chiesa di Roma è stata faticosa e questa ha trovato per lungo tempo piú opportuno riporre la propria fiducia nella visione essenzialistica e gerarchica della realtà, elaborata soprattutto da san Tommaso sulle cui spalle, pur molto robuste, non si dovrebbe tuttavia far gravare per intero la responsabilità di questa scelta oggi non più condivisibile. Essa, infatti, è stata determinata, ma l’A. non ne fa cenno mentre cita invece il Modernismo, anche dalla controversia con la Riforma protestante che ha visto i due contendenti attestarsi su posizioni opposte, storia della fede come constatazione di una sostanziale identità di questa a partire dalle origini apostoliche per i cattolici e, viceversa, storia come degrado progressivo e irreversibile della fede degli esordi cristiani per i seguaci di Lutero. Posizioni conflittuali che tuttavia convergono entrambe nella svalutazione della relazione tra fede e storia.

Quanto ai contenuti offerti, Albarello invita i cristiani a soffermarsi sulle situazioni concrete, anche quelle apparentemente più negative e in un contesto non facile per la fede (l’A. lo chiama Tecnoevo) caratterizzato da un approccio scientifico e tecnico all’intera realtà, con uno sguardo di attenta dedizione che viene definito “agapico”, il quale fonda la sua speranza sull’affidabilità che Dio ha sempre mostrato nell’offrire la salvezza a ogni uomo.

Questa ripresa creativa del passato inizia ricostruendo in sintesi la proposta di teologia politica di J.B. Metz, che si proponeva di mettere insieme esperienza cristiana ed efficacia sociale della medesima, e vagliandola criticamente, per poi passare a una rivisitazione moderna della opposizione paolina fra legge e amore. Sviluppa poi le intuizioni dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium sulla relazione tra la fede cristiana e la cultura, chiarendo anzitutto quale immagine di cultura sia a questa sottesa. L’intento lodevole di superare il divorzio fra sapere e credere, che è alla radice della marginalizzazione della fede ridotta a questione privata e del suo potenziale di umanizzazione, viene perseguito dall’A. offrendo un ventaglio interessante di piste di lavoro che attendono di essere percorse.


A. Ricupero, in Studia Patavina 2/2019, 375-376

Un testo, quello del prof. Albarello, che è una bussola per quanti si trovano disorientati nell'intricato, perché confuso, discorrere teologico-ecclesiale. Avvertiti e consci della centralità imprescindibile dell'esperienza di fede non se ne viene a capo con l'inalienabile necessità di impastarla con gli imperativi di una quotidianità dentro cui si dipana gran parte della vita. La teologia, che di queste questioni si dovrebbe occupare, pare distrarsi in rasserenanti «circoli di lettura», oasi autoreferenziali dove tra dogmatismi intransigenti (a volte sprezzanti) e spiritualismi «artificiali» ci si nutre di derivati, di «estratti» vitaminici gratificanti anche se di dubbia provenienza. Da questo gioco resta fuori del tutto la vita quotidiana reale. La realtà. Non solo, ma resta fuori anche la responsabilità personale, quindi la propria libertà, quindi anche la fede, che lo si voglia o no. Infatti, il cristianesimo o impatta la realtà o non è, o coinvolge l'esistenza concreta a livello personale e sociale o non è. L’autore lo riafferma molte volte. Non solo, ma è chiaro nell'affermare che bisogna virare urgentemente dal piano delle idee a quello della storia se vogliamo uscire dal «pallore disincarnato» (Mounier) di un certo cattolicesimo (p. 5) «che si presenta lontano dalla vita quotidiana e dalle problematiche che la caratterizzano», «senza carne» (p. 6-7).

L’autore ci presenta in quest'opera una riflessione necessaria circa la «fede cristiana come agire nella storia» (sottotitolo) accordandosi al «tema», ripreso da papa Francesco nell'Esortazione apostolica Evangelii gaudium e riassunto nel virgolettato del titolo: «La grazia suppone la cultura» (EG 115). Lasciamo al lettore la perlustrazione dell'itinerario proposto dall'autore e la pertinenza delle sue analisi (pregevoli, agevoli ed efficaci le discussioni del pensiero di Metz, Zizek, Milbank, Habermas, Taylor, Beck, Theobald, Kristeva...), nella convinzione comunque che l’assunto tematizzato della storia come lo spazio vitale della fede sia la prospettiva - molto avversata, da altri confusa o temuta - del magistero pontificio attuale. Indubbiamente la riflessione teologica oggi in campo avverte l'urgenza della questione, anche se preferisce sostare sulle meno «spinose» tematiche della misericordia, delle periferie, della missione, ecc. là, cioè, dove il linguaggio praticato dalla teologia è più «conforme» a tali tematiche.

Il prof. Albarello ci ha presentato una pregevole riflessione, che interesserà di certo quanti non si accontentano delle note critiche al noto secolarismo e nemmeno delle requisitorie su questi nostri tempi più o meno «post»... e cercano piste più persuasive e valide di ricerca.


D. Passarin, in CredereOggi 229 (1/2019) 171-172

Leggere un saggio di teologia chiede concentrazione e un po' di desiderio. Il piccolo libro di Duilio Albarello, che fin dal titolo – La grazia suppone la cultura (Queriniana 2018) – ricalca Evangelii gaudium, ripaga gli sforzi e alimenta la passione. Per che cosa? È questo il punto. Bisognerebbe rispondere: per la realtà. E solo in seconda battuta per la fede, la missione, la Chiesa, l'umanità o per Dio stesso. «La realtà – insegna papa Francesco – è superiore all'idea» (Evangelii gaudium 233): l'incarnazione di Cristo impedisce di preferire al presente, con la sua complessità, un ordine ideale di verità eterne, sovratemporali, concluse in se stesse e, al limite, da tradurre nelle situazioni specifiche.

Al contrario, le Scritture articolano narrazioni in cui la verità si dona sempre in rapporto a circostanze determinate. Come la fenomenologia ha lucidamente avvertito, da Husserl in poi, si tratta quindi di abbandonare l'astrattezza, che scompone il reale smarrendone il senso, per tornare «alle cose stesse». Osserva Albarello: «Si tratta di non mettere in primo piano i concetti e i preconcetti, che pretendono di inquadrare e ingabbiare subito in uno schema preconfezionato tutto ciò che si mostra; occorre piuttosto esser disponibili a vedere senza pregiudizi, in particolare per "guardare in faccia il volto dell'altro uomo"».

Se è vero quanto scrive Marion – «il fenomeno si dona sempre come tale staccandosi da un orizzonte, ritagliando nel tessuto di quest'orizzonte la forma e i tratti della propria apparizione» – è in particolare il manifestarsi dell’essere umano — meglio ancora, del volto altrui — a invocare un nuovo tipo di sapere. «Non è sufficiente un ragionamento corretto, così come non è sufficiente un esperimento esatto. È necessario un "sapere altro" rispetto a quello che immediatamente la logica e la tecnoscienza ci offrono. […] Abbiamo bisogno di un sapere che coincida proprio con la modalità dell'accogliere senza chiusure: un misto di empatia, di coinvolgimento e di reciprocità. Solo adottando questo tipo di disposizione nell'ambito dei rapporti interpersonali e sociali si ricostruiranno le condizioni per tornare a percepire quelle evidenze» che sono andate in crisi, rendendo oggi difficile configurare il senso delle diverse esperienze umane.

Il teologo piemontese non nasconde che l'urgenza di un radicale ripensamento del rapporto tra fede e cultura sia legata a un cambiamento d'epoca che impedisce la semplice ripetizione del già detto. «Quando sono scosse le fondamenta – si chiede il salmista – il giusto che cosa può fare?» (Salmo 11,3). Albarello sembra rispondere: occorre che il giusto elabori categorie nuove. È cambiato l'orizzonte dal quale i fenomeni vengono a noi. Di conseguenza «rispettare il principio della manifestazione richiede una buona dose di umiltà nel trattare le questioni che si presentano, in quanto non possiamo aver la presunzione di possedere già subito le risposte che sarebbero necessarie. Anche dal punto di vista ecclesiale occorrerebbe esercitarsi di più in questa umiltà, poiché non è scontato che tutti i punti che l'agenda della contemporaneità ci consegna possano trovare corrispondenza in una soluzione precostituita. […] Perciò occorre un impegno supplementare per decifrare l'orizzonte in trasformazione, così che sia permesso comprendere la realtà dell'uomo appunto nella forma in cui si manifesta non in generale, bensì nel contesto della nostra epoca».

Si tratta di un modo di procedere rigoroso, ma appagante, che presuppone non ci si fermi a quanto si rileva sul piano dei dati empirici: «C'è sempre di più di quanto appare immediatamente; emerge un'eccedenza, la quale ha a che fare con ilsenso della realtà umana». Se poi il focus della conoscenza è l'essere umano – non un oggetto, quindi, ma un soggetto – emerge come strutturale che «ognuno è portatore di un debito invisibile: quello che deriva dal non essere all'origine di se stessi». Esperienza comune, eppure ardua da riconoscere in una cultura che apprezza un tipo di autonomia in cui l'altro appare come condizionamento e minaccia. Si diventa liberi, invece, e si assume fiduciosamente il proprio compito solo ricevendosi all'interno di vincoli originari. «Per accettare il debito come un dono c'è bisogno di fidarsi dell'altro, di credere che […] si riveli portatore di una promessa». È la promessa «della possibilità di attuare sensatamente se stessi», per cui solo in una rete di rapporti «ciascuno impara giorno per giorno a dire "io"; anzi […] di trovare quel posto nella vita che è proprio il suo e che non può essere occupato da nessun altro». Albarello chiarifica così un nodo antropologico essenziale a lungo disconosciuto: «È proprio la fiducia senza garanzie che la promessa si attui, è questa fiducia di base a muovere, a mettere in moto le nostre valutazioni, le nostre decisioni, le nostre azioni. Privi di tale attesa fiduciosa rimarremmo bloccati, paralizzati dalla ricerca di sicurezze calcolabili e pianificabili». Questa evidenza, rilevata per via fenomenologica, mostra fede e cultura in modo non più estrinseco: infatti «l'altro in grado di promettere in maniera incondizionata e dunque davvero affidabile il compimento della vita» non è identificabile con alcun oggetto o soggetto determinato, ma attraverso la concretezza tangibile di presenze molteplici «è soltanto l'Altro trascendente, che l'esperienza religiosa nomina come "il divino" o più specificamente come "Dio"».

Nel contesto culturale europeo, e più in generale nella tensione occidentale alla libertà e alla felicità, cioè al compimento personale, la sintesi proposta dal nostro autore investe la possibilità stessa, per credenti e non credenti, di attuarsi in ciò cui tendono i loro sforzi. Se la realtà sia promessa o inganno diviene quindi "la" questione. Ebbene, «è precisamente questo nucleo il fondamentale dello eu-anghélion, della buona notizia che Gesù attesta: il Dio dei padri, l'abbà dei cieli, è Colui che si prende cura di quella promessa generativa che sta alla base della storia di ciascuno».

Va dunque demolito, anche all'interno della Chiesa, il sistema di equivoci «alimentato dal pregiudizio – ancora persistente – che la fede cristiana abbia a che fare con "verità del cielo"», quindi soprannaturali, alle quali per principio dovrebbe venire riconosciuto un legame non intrinseco, bensì soltanto ulteriore e aggiuntivo rispetto alle «verità – o più postmodernamente alle opinioni – della terra», naturali e razionali, con cui invece avrebbe a che fare la cultura.

Questo pregiudizio, legato alla prospettiva manualistica del duplex ordo cognitionis, a ben guardare risulta largamente operante ancora oggi e coincide con «la persuasione ingenua che la verità dell'evangelo sia coglibile in prima istanza dalla fede in modo puro, ossia senza alcun riferimento al tempo e alla cultura, e sia poi solo in un secondo momento da inscrivere […] in un determinato tempo e in una determinata cultura. In realtà la questione è da pensare secondo un paradigma del tutto diverso. Infatti la cultura riguarda la fede cristiana non come un'entità esterna con la quale dovrebbe essere messa a confronto, ma come una dimensione costitutiva, interiore alla realizzazione della fede stessa. Di conseguenza non può esistere una fede che non sia culturalmente mediata, per il fatto che non può esistere un accesso alla verità dell'evangelo indipendente dalla condizione storico-pratica dell'uomo».

L'essere umano, infatti, riceve se stesso entro una particolare maniera di abitare il mondo: la cultura non è una maledizione, né un condizionamento, ma l'offerta iniziale «di un modo sensato di rapportarsi a se stessi, agli altri e alla realtà tutta, che coinvolge ogni aspetto della vita ed è caratterizzato da tratti geografici-storici specifici».

La Chiesa annuncia uno scarto strutturale tra regno di Dio e culture, non cessando di domandarsi «quale contributo di discernimento e di trasformazione possa offrire il riferimento all'evento di Cristo, che si dona come la condizione di verità di tutte le culture senza coincidere con nessuna di esse». È a questo livello che la Chiesa intercetta l’istanza emancipatrice della modernità. Albarello afferma con vigore che «qui entra in gioco un criterio teologico fondamentale secondo cui fra il regno di Dio e la società umana si dà uno scarto strutturale, una costitutiva non sovrapponibilità, che solo la coscienza libera del soggetto può superare, attraverso la conversione all'evangelo».

Nessun essere umano, infatti, è realmente comprensibile se schiacciato nel proprio orizzonte: da esso emerge invece come fenomeno singolare, garantendo così di avere spazio e tempo di "nascere una seconda volta", in un rapporto alla rivelazione che rimane libero e mai risolto una volta per tutte. «Conseguentemente il principio tradizionale del primato della coscienza conduce ad affermare che un rapporto di tipo diretto si può stabilire solo fra senso cristologico e ripresa personale della cultura», cioè in quello che ciascuno fa dell'eredità ricevuta, assumendola e trafficandola come nessuno ha mai fatto prima o farà al suo posto. «Vivere secondo il senso cristologico non è mai un puro dato anagrafico o di appartenenza». Questo permette anche di chiarificare che «la relazione tra senso cristologico e cultura pubblica può essere solo di tipo indiretto»: non esiste quindi – né è mai esistita in senso stretto – una "cultura cristiana", ma ciò che socialmente può realizzarsi è che la vita pubblica e il sentire collettivo siano aperti, e non ostili, al giusto senso della vita determinato dall'evento di Cristo. A livello civile, quindi, si può arrivare nel migliore dei casi a garantire «le condizioni affinché la coscienza di ognuno possa liberamente riprenderlo», che è ben diverso dall'organizzare politicamente una società cristiana.

Con riferimento agli studi di Theobald e di Werbick, l'autore intravede un rilievo culturale del cristianesimo in Occidente nella messa in discussione della spietatezza di sistemi e processi in cui pare di essere ormai fatalmente inseriti.

La teologia ritroverebbe così il suo costitutivo compito anti-ideologico e anti-idolatrico, dal momento in cui è proprio in rapporto all'agire storico di Gesù Cristo «che la dinamica della "grazia" si presenta come l'alternativa più promettente». E cita Werbick, secondo il quale la parola grazia – chàris – nel Nuovo Testamento «ha a che fare con il fascino, con una risonanza benefica-benvolente», con un arrivare all'altro che lo induce a disporsi con curiosità, interesse e apertura, con simpatia.

Il contrario dell'esperienza drammaticamente diffusa nelle società avanzate di sentirsi messi fuori gioco, perché bloccati – scrive Albarello – «dentro un sistema effettivamente spietato, dove sembra non rimanga più alcuno spazio per il discernimento, le scelte, le azioni», in una parola per la "grazia".

In un quadro aggressivo e iper-competitivo, le dinamiche economiche e psicologiche della svalutazione, del disprezzo e dello sfruttamento degli esseri umani «rischiano di apparire come un destino ovvio e fatalistico, mentre al contrario è doveroso che sia smascherato il loro carattere di ingiustizia niente affatto inevitabile». Se la caratteristica principale del Dio attestato dalla Bibbia è fin dal principio quella di emancipare dalla schiavitù e di condurre alla libertà, allora possiamo oggi cogliere più distintamente che il regno di Dio «è già presente, per lo meno in forma inaugurale, ovunque si spezzi la logica ferrea e apparentemente ovvia del destino e si soccorre chi ne è travolto». La conversione resa possibile dalla grazia consiste appunto «nell'essere afferrati da una prospettiva di vita promettente».

Si tirano così le fila circa il rilievo culturale del tema della grazia, in un contesto – quello occidentale – in cui la libertà si incaglia nel proprio ripiegamento autoreferenziale. In quest'orizzonte, proprio perché «la grazia suppone la cultura», l'esperienza cristiana mette a disposizione di chiunque le voglia accogliere risorse abbondanti per liberare la libertà dalle secche che la rendono non solo "spietata", bensì letteralmente "sgraziata".


S. Massironi, in L’Osservatore Romano 24 gennaio 2019

«La grazia suppone la cultura» – locuzione di papa Francesco – è il titolo dell’ultimo libro del canonico Duilio Albarello, direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Fossano, che parafrasa un aforisma del XIII secolo; san Tommaso d’Aquino in effetti al posto di cultura parlava di natura.

Nel testo pubblicato dalla Queriniana (pp 188, euro 14) il teologo di Mondovì critica sia un concetto di natura statico e quasi avulso dal dinamismo vitale sia di conseguenza un modello di cattolicesimo sedentario, lontano dai problemi della vita quotidiana, proponendo al contrario come chiave di azione «una ripresa creativa del passato, uno sguardo agapico sul presente, un’attesa realistica del futuro» (p. 14), dove per sguardo agapico s’intende una prospettiva mossa e orientata da quella virtù che in greco si chiama agape, l’amore di dedizione.

La nostra epoca, che il libro definisce «Tecnoevo» (p. 23), è essenzialmente caratterizzata da un ripiegamento nel privato, anche a livello spirituale. Nasce quindi, conformemente al dettato del titolo, l’esigenza di mutare anche il modo di vivere la fede, spesso ridotta a una «religione dell’esoscheletro» (p. 174), ossia ridotta a sostegno di un’evanescente personalità, che nel mondo celeste cerca protezione fittizia e conforto illusorio, rifugiandosi in pratiche connotate dalla rigidità delle idee e delle forme inseguendo una fallace stabilità. La cultura da cambiare è anche quella dei rapporti interpersonali, segnata dalla logica dell’utilità e della prova. «L’imperativo dell’esperimento esige di interpretare e vivere qualunque relazione come prestazione, finché funziona; come scambio, finché conviene; comunque sempre con l’obiettivo della gratificazione che fa sentire vivi, finché dura» (p. 179). In questo contesto, compito della fede è aprire spazi per dare credito non solo a Dio ma anche semplicemente alla vita stessa, in un universo segnato dal pessimismo e dalla sfiducia di poter costruire insieme qualcosa di bello, per rendere questo mondo un posto migliore.

La ricerca del professor Albarello, che nella parte centrale del volume si pone intelligentemente in dialogo con autorevoli esponenti dell’attuale pensiero sia filosofico sia teologico, fa capire che occorre sempre di più un cattolicesimo “incarnato”, che intercetti le istanze delle persone dei nostri giorni, non isolandole in un mondo misticheggiante ma aiutandole a discernere la voce dello Spirito nella complessa realtà in cui siamo tutti immersi.


F. Casazza, in La Voce Alessandrina 17 gennaio 2019, 14

Fin dalle prime pagine si percepisce come il saggio di Duilio Albarello sia animato da un sincero desiderio di comprendere il presente interrogando e non solo osservando i mutamenti dell’attuale stagione ecclesiale. Nell’Introduzione al volume viene opportunamente ricordato il monito che papa Francesco rivolse il 10 novembre 2015 alla Chiesa italiana in occasione del Convegno nazionale di Firenze. In quella circostanza il papa osservò che il tempo presente non deve essere interpretato come un’epoca di cambiamento, ma come un autentico «cambiamento d’epoca» (Regnoatt. 10,2015,694).

Quello appena enunciato non è solo un criterio ermeneutico particolarmente utile per comprendere le trasformazioni della Chiesa o del mondo globalizzato. Assumere fino in fondo e in maniera coerente la prospettiva del «cambiamento d’epoca» vuol dire sperimentare un passo nuovo, esercitare uno sguardo inedito. Non si tratta di riadattare il nucleo della tradizione cristiana per renderlo più accattivante o spendibile sulla scena pubblica globale. Ciò che invece interessa è l’aspetto pratico e condiviso della fede: se il cambiamento d’epoca è in grado d’ispirare un autentico processo di ri-forma, occorre prestare attenzione alle «pratiche credenti» ovvero agli atteggiamenti e alle imprese comuni con cui la fede viene non solo personalmente creduta, ma anche comunitariamente esperita e socialmente comunicata.

Albarello offre con questo volume un aiuto prezioso e indispensabile nell’affrontare il compito appena delineato. Ispirazione e orientamento del libro è un passaggio a suo avviso cruciale dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, quello in cui si afferma che «la grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve» (n. 115; EV 29/2221). Come giustamente si osserva, Francesco ricorre a un’accezione umanistica dell’idea di cultura. Questa corre oggi il rischio di venire anestetizzata o musealizzata ogni qual volta la si riduce all’insieme delle sue oggettivazioni e dei suoi manufatti. Occorre invece recuperare e valorizzare l’aspetto «dinamico e partecipativo» (lett. enc. Laudato si’, n. 143; EV31/723) della cultura, entrare nei «processi culturali» sostando e lasciandosi coinvolgere nella specificità dei diversi «ambienti culturali». Tutto questo comporta, anche per la teologia contemporanea, un avvicinamento vigile e consapevole al dinamismo performativo delle culture.

È necessario ad esempio accorgersi dei modi con cui le cosiddette «sottoculture urbane» dimostrano d’essere processi laboriosi e creativi, manifestando sovente una vitalità partecipativa e coinvolgente insieme all’entusiasmo sorprendente di un «popolo» che nasce. «La nozione di cultura è uno strumento prezioso per comprendere le diverse espressioni della vita cristiana presenti nel popolo di Dio. Si tratta dello stile di vita di una determinata società, del modo peculiare che hanno i suoi membri di relazionarsi tra loro, con le altre culture e con Dio. Intesa così, la cultura comprende la totalità della vita di un popolo» (Evangelii gaudium, n. 115; EV 29/2221).

Il cambiamento d’epoca che coinvolge l’intera comunità ecclesiale non può prescindere da un lavoro attento e condiviso sulla «teologia del popolo» e sulla «teologia della cultura». Quest’ultima, in modo particolare, rappresenta il principale oggetto di riflessione e di novità per quanto riguarda il saggio di Duilio Albarello. La prospettiva che egli stesso adotta e persegue è quella di una teologia irriducibile «a un esercizio insieme intellettualistico e retorico, che presume di risolvere la complessità del reale nella costruzione artificiosa di un sistema chiuso in se stesso. L’intento è dunque di sollecitare l’istituzione teologica ad assumere secondo il suo “carisma” peculiare l’impresa della sintesi tra Vangelo e cultura, per chiarire gli snodi problematici e per istruirne le condizioni di praticabilità» (112s).

Particolarmente densa e interessante è la riflessione che l’autore propone nel I capitolo e che offre, già nel titolo, notevoli spunti per indagini e ricerche future: «Teologia fondamentale e teologia politica: le ragioni e i problemi di un rapporto ineludibile». A cinquant’anni dalla pubblicazione di Sulla teologia del mondo di Johann Baptist Metz, Albarello raccoglie l’eredità di un’opera essenziale per comprendere la nuova teologia politica e per pensare una teologia della cultura all’altezza del tempo presente. Negli anni Settanta del secolo scorso Metz immaginava una Chiesa capace di rinunciare ai linguaggi esoterici, per riconfigurare il suo ruolo pubblico e sociale. Si gettavano le basi di una teologia politica refrattaria alle tendenze privatistico-borghesi e sensibile alla memoria passionis, una teologia politica che fosse in grado di testimoniare le implicazioni pubbliche del Vangelo non per avanzare pretese autoreferenziali, ma per ricordare incessantemente le sofferenze altrui. Nel momento in cui ci si colloca oggi nell’alveo delle prospettive avanzate da Metz e dalla nuova teologia politica, è necessario «porre come correlato della grazia, ossia dell’iniziativa di Dio, non immediatamente la “politica”, bensì appunto la “cultura”, che comprende la prima, ma al contempo la reinquadra dentro un orizzonte più articolato, quindi più capace di coinvolgere l’integralità storico-concreta dell’umano nella sua irriducibile multidimensionalità» (39).

Il paradigma della teologia politica è centrale anche nel capitolo in cui l’autore propone una lettura critica del dibattito tra il filosofo sloveno Slavoj Žižek e il teologo inglese John Milbank. Sulla scorta dell’ecclesiologia paolina, la teologia della cultura è chiamata a declinare l’istanza veritativa del cristianesimo nei termini della conformazione e della fedeltà all’evento dell’incarnazione del figlio di Dio. Avendo la forma di un cammino progressivo e condiviso, la sequela di Cristo non può essere separata dalla dimensione comunitaria. La Chiesa è dunque costitutivamente segnata da un’apertura cosmopolita, accogliente e fiduciosa.

Albarello mette al centro della propria argomentazione il rapporto tra «l’ordine culturale» e il «vissuto della fede» emergente da una lettura attenta e puntuale dell’Evangelii gaudium. Egli illumina in questo modo alcuni tratti particolarmente significativi dell’ecclesiologia di Francesco: l’invito a superare la contrapposizione tra Chiesa e società; la capacità di riconoscere «la fonte nascosta eppure presente di quelle risorse di partecipazione, collaborazione e solidarietà che mantengono acceso il gusto di “vivere insieme” nella società» (100); la necessità di un’evangelizzazione della scoperta che sia capace di scorgere con fiducia i segni della presenza operante di Dio nelle pieghe di un popolo o di una società.

Con estrema puntualità e lungimiranza Albarello segnala il rapporto fecondo e liberante che unisce oggi le prospettive dell’evangelizzazione e la disponibilità ecclesiale al reciproco apprendimento. «Dal punto di vista culturale e sociale, in un contesto plurale, nessun soggetto coinvolto nel gioco della comunicazione collettiva può sollevare una pretesa di esclusività: una sana disponibilità all’apprendimento reciproco è da ritenere una dimensione interna al compito dell’evangelizzazione. Insomma, la Chiesa è sollecitata a de-centrarsi, a iniziare un processo di apprendimento che la conduce a entrare in contatto dialogico con “altri”, sino a prendere progressivamente coscienza dell’arricchimento di senso che può trarre da questo incontro» (108).


V. Rosito, in Il Regno Attualità 16/2018, 486

L’a., presbitero diocesano e docente alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, forte dell’insegnamento di Mounier – che polemizzò contro quella forma di cattolicesimo che si accontentava di un cattolicesimo ripiegato su se stesso, senza un confronto con la modernità – e dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, riflette sulla correlazione tra fede cristiana e agire nella storia superando la generica formula di «Chiesa in uscita». Ri-pensare l’agire storico del cattolicesimo significa, pertanto, custodire la Tradizione, memoria certamente da tutelare, ma assumerla attraverso una ripresa creativa intendendola «come trasmissione attiva e non come semplice ripetizione dell’identico».
D. Segna, in Il Regno Attualità 12/2018

Il paragrafo n. 115 dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, papa Francesco utilizza un’espressione che rimanda al suo tipico stile magisteriale ispirato alla volontà di anteporre in ogni situazione all’innalzamento di muri la costruzione di ponti: «La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve».

Si tratta di un’espressione inconsueta, in quanto la sua versione classica afferma piuttosto che ciò che la grazia suppone, sana e perfeziona, senza distruggere né rovinare, è la natura, secondo il famoso adagio di Tommaso d’Aquino «gratia supponit naturam, non destruit, sed perficit eam».

L’espressione è inserita nel contesto del richiamo che, in Evangelii gaudium, Francesco fa al n. 53 della Gaudium et spes, secondo la quale l’essere umano è da concepirsi sempre come culturalmente situato, dal momento che «ogniqualvolta si tratta della vita umana, natura e cultura sono quanto mai strettamente connesse».

Per “cultura” non si intende naturalmente il grado di istruzione e di conoscenza posseduta dagli individui, ma piuttosto, in termini spiccatamente umanistici, tutto ciò che deriva dalle forme civili del vivere che concorrono a plasmare i modi di pensare, sentire e agire degli esseri umani in quanto determinano la loro percezione della realtà.

Profondo intreccio tra grazia e cultura

È questa inedita affermazione che Duilio Albarello – presbitero della diocesi di Mondovì e docente di teologia fondamentale e antropologia teologica all’Istituto superiore di scienze religiose di Fossano (Cuneo), alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano e al Biennio di specializzazione in teologia morale a Torino – raccoglie nel suo libro La grazia suppone la cultura – Fede cristiana come agire nella storia, recentemente edito dall’Editrice Queriniana nella collana «Giornale di Teologia».

Titolo e sottotitolo hanno il pregio di focalizzare immediatamente il senso della riflessione proposta: indagare la dimensione culturale e storica della fede cristiana per restituirle, in coerenza con la rilevanza pratica della «svolta antropologica» maturata nel pensiero teologico del Novecento, concretezza e forza di umanizzazione, nell’intento di «superare le derive del dottrinalismo, del moralismo e dello spiritualismo» (p. 8). Nella duplice consapevolezza che nessuna epoca è in grado di tradurre compiutamente il mistero di fede custodito nelle parole e negli eventi di Gesù di Nazaret e che, nello stesso tempo, ogni epoca è in grado di gettare nuova luce su quelle parole e su quegli eventi.

Per chi confessa la fede cristiana, parlare di Dio comporta sempre che si parli dell’essere umano in carne e ossa e del modo con cui oggi la sua vita si sviluppa nel senso di pienezza di umanità. Ma parlare dell’uomo e della donna nella prospettiva cristiana di una loro pienezza di vita richiede che si parli di Dio, così come Gesù di Nazaret ce lo ha rivelato. In Gesù Cristo, entrato nella storia del mondo come uomo perfetto assumendola e ricapitolandola in sé, Dio rivela all’uomo e alla donna la loro umanità e la dignità divina che è loro propria.

Interrogarsi sulla correlazione tra fede cristiana e agire nella storia, tra grazia e cultura, è compito dell’intero “popolo di Dio” e non solo dei cultori della teologia. Non a caso l’espressione «la grazia suppone la cultura» è collocata nell’ambito della riflessione condotta da papa Francesco nel primo paragrafo – dal titolo “Tutto il popolo di Dio annuncia il Vangelo” – del terzo capitolo della Evangelii gaudium – “L’annuncio del Vangelo” – dove si afferma, da un lato, che soggetto dell’evangelizzazione è la Chiesa intesa come «popolo in cammino verso Dio» e, dall’altro, che «in virtù del battesimo ricevuto, ogni membro del popolo di Dio è diventato discepolo missionario».

Cattolicesimo pallido e disincarnato e identità religiosa esoscheletrica

Il saggio del teologo monregalese si apre con una citazione di Emmanuel Mounier, il promotore, attraverso la rivista Esprit, della spiritualità dell’engagement che già negli anni ’40 del secolo scorso denunciava il «pallore disincarnato di un certo cattolicesimo» fondato su una dottrina ritenuta granitica e ignaro della complessità della cultura che lo circonda (p. 5 e 6).

Per Albarello la denuncia di Mounier non perde di attualità. Anzi: «La preoccupazione di scongiurare il rischio di un cristianesimo senza carne», cioè di un cristianesimo irrilevante per le condizioni comuni dell’esistere («per gli affari e per gli amori», direbbe Mounier), è sostanzialmente «ciò che caratterizza in maniera più evidente lo stile e il messaggio di papa Francesco, il cui manifesto programmatico rimane a tutt’oggi l’esortazione apostolica Evangelii gaudium» (pp. 7 e 8).

Correlativamente, il saggio si chiude con la denuncia della tendenza, che si manifesta oggi in determinati ambienti ecclesiali, a ricercare – all’interno delle citate derive del dottrinalismo, del moralismo e dello spiritualismo – quella che si potrebbe definire una sorta di «religione dell’esoscheletro» (p. 174). Termine che, in zoologia, sta ad indicare la struttura rigida che funge da protezione e supporto di un invertebrato, di un corpo molle, senza struttura ossea. E che, in senso figurato, può efficacemente esprimere lo stile di chi spera di trovare nella religione – nelle sue istituzioni, nelle sue dottrine, nelle sue norme, nei suoi potenti simboli e nei suoi suggestivi rituali – una struttura esterna sufficientemente rigida e capace sia di sorreggere e di nascondere l’inconsistenza della vita interiore, sia di immunizzare nei confronti dell’incertezza endemica che caratterizza la contemporanea «società del rischio» (p. 174), con il suo potenziale destabilizzante a livello individuale e collettivo (p. 175).

Scrive Albarello: «La vocazione del cristiano non è fuggire dalle situazioni e dalle condizioni effettive della contemporaneità, ma è quella di interpretarle a partire da una prospettiva inedita, e di viverle con una coscienza diversa», cioè con quello «sguardo agapico, ossia orientato dall’agape, dalla dedizione», il quale è in grado di «sollecitare chi crede in Cristo a non preoccuparsi subito e soltanto di come cambiare le cose», ma piuttosto di «comprenderle e gestirle in maniera che, dentro qualunque situazione o circostanza, anche la più negativa, si possano sempre scorgere le buone occasioni, per realizzare il giusto senso del vivere, che Cristo ha attuato per primo e chiede ai suoi di testimoniare a favore di tutti» (p. 12). «Il contrario di una vita buona non è immediatamente una vita cattiva, malvagia, bensì è una vita vana, vuota, che non ha prospettive o si limita ad aspettative di corto respiro» (p. 13).

Natura, cultura e grazia nel disegno di Dio

Per il nostro autore lo scambio, nell’assioma scolastico «gratia supponit naturam et perficit eam», di “natura” con “cultura” non è per nulla innocuo. Esso innesca una dialettica molto interessante. Si potrebbe dire che l’uomo, per natura, è un essere culturale. Infatti, da una parte, l’essere umano è “natura”, nel senso che è legato ad un determinato dato fisico, biologico e ambientale che costituisce la sua condizione concreta. Tuttavia, dall’altra parte, nello stesso tempo, l’essere umano è “cultura”, ossia è capace di trascendere, riprendere e plasmare questo dato in maniera creativa.

La tensione dinamica tra natura e cultura, tra ciò che l’essere umano è e ciò che l’essere umano può diventare, è precisamente ciò che apre lo spazio della libertà, e, dunque, anche lo spazio della storia. Il dono che Dio fa di se stesso attraverso Gesù Cristo è rivolto all’essere umano qui ed ora, situato storicamente, limitato e in cammino. Perciò, essere coerenti con la legge dell’incarnazione richiede di considerare la cultura, la storia, la società come il mondo vitale della fede, quel mondo verso cui la Chiesa si pone in atteggiamento di “uscita” non per dare una frettolosa occhiata ma per rimanervi stabilmente. «Occorre ammettere con franchezza che, per troppo tempo, il ministero ecclesiastico ha continuato a proporre e – fino a quando è stato possibile anche ad imporre – una maniera di intendere la realtà umana legata a categorie provenienti da contesti culturali superati e perciò diventate irricevibili dall’uomo e dalla donna di oggi» (p. 147).

In dialogo con la filosofia e la teologia contemporanee

In riferimento a questa rilevante problematica e con l’intento di aprire un ventaglio di piste di lavoro che richiedono di essere riprese e proseguite (p. 15), Albarello si confronta con esponenti della filosofia, come il filosofo e sociologo tedesco Jurgen Habermas, il filosofo canadese Charles Taylor, il filosofo sloveno Slavoj Zizech, e con esponenti della teologia, come l’inglese John Milbank, il francese Christoph Theobald e i tedeschi Johann Baptist Metz e Jurgen Werbick, a volte scorgendo ed evidenziando delle interessanti convergenze tra il magistero di papa Francesco e il loro pensiero.

In dialogo con questi autori e alla luce del magistero di papa Francesco, il prof. Albarello affronta tre questioni che a me sembrano di particolare importanza per il vissuto e il pensiero della fede oggi:

  • il riferimento alla fenomenologia per un modo nuovo di immaginare l’esperienza cristiana;
  • il rapporto tra esperienza umana ed esperienza cristiana, che rimanda più convenzionalmente al problema del rapporto tra fede e ragione;
  • la valorizzazione della misericordia come architrave del legame sociale ed ecclesiale.

«L’approccio fenomenologico permette di elaborare una visione della fede cristiana come esperienza di vita (principio dell’esperienza), che si configura come relazione con Dio determinata dal rapporto credente con l’evento di Gesù Cristo (principio della manifestazione). Dentro questa relazione, l’uomo è intenzionalmente implicato come partner, in quanto la sua libertà è sollecitata ad una risposta che richiede una disposizione di fiducia e, al contempo, un coinvolgimento in prima persona, nella scelta di esporsi ed agire a beneficio di altri (principio del senso). È a partire da questo sfondo che si comprende il motivo per cui esiste un vincolo indissolubile e quindi anche una reciprocità fra confessione della fede ed impegno sul piano culturale e sociale» (pp. 126-127).

La questione del rapporto tra esperienza umana ed esperienza cristiana si può cogliere in un interrogativo del seguente tenore: l’esperienza cristiana sta semplicemente accanto, o sopra o sotto l’esperienza umana in quanto tale, oppure la fede nell’evangelo di Gesù consente di riconoscere e di realizzare il giusto e comune senso dell’umano?

Albarello non ha dubbi: le grandi tensioni che attraversano l’essere umano e il suo mondo – le tensioni alla verità, al bene, alla giustizia, alla felicità – possono trovare nell’evento di Gesù Cristo una risposta radicale e piena non riscontrabile altrove. «La convinzione che sta alla base di tale pretesa è che la fede nell’evangelo non è nemica di ciò che è umano, non esige una pregiudiziale rottura o estraniazione rispetto all’esperienza effettiva che l’uomo vive e sulla quale esercita criticamente il proprio pensiero» (p. 136). Il rapporto con Dio o comunque con il Mistero trascendente permette «un’autentica umanizzazione» e consente «la realizzazione di una vita buona per sé e per gli altri» (p. 166).

La realtà ecclesiale e la realtà sociale vanno guardate non secondo la parola d’ordine dell’intransigenza ma secondo il criterio della misericordia.

La strategia dell’intransigenza «ha contribuito in maniera determinante ad accrescere la distanza culturale che divide la Chiesa cattolica dalla società nel suo complesso; una distanza che rischia di trasformarsi sempre di più in una condizione di insignificanza». «La sfida radicale nel contesto contemporaneo è quella di mostrare che la fede cristiana è ancora capace di reggere la prova della vita, quindi che la verità dell’evangelo si presenta credibile e comunicabile all’interno dell’ordine culturale vigente» (p. 104).

Secondo il magistero di papa Francesco, tale sfida può essere raccolta restituendo il primato alla pratica della misericordia, all’interno della quale vanno declinati i quattro criteri elencati al paragrafo III – “Il bene comune e la pace sociale” – del quarto capitolo della Evangelii gaudium dedicato alla «dimensione sociale dell’evangelizzazione»: il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’idea; il tutto è superiore alla parte (pp. 105-110).

La fede nel linguaggio della cultura secolare moderna

Un’opera, questa del docente di teologia fondamentale Duilio Albarello, di grande interesse per almeno tre motivi: dimostra che le parole e la vita di Gesù di Nazaret sono in grado di «scaldare il cuore» (Lc 24,32) anche degli uomini e delle donne di oggi; è di prezioso aiuto a chi avverte l’esigenza di vivere in modo responsabile e umanizzante la proposta di fede cristiana; offre elementi di riflessione in grado di ravvivare la questione di Dio e della desiderabilità della fede cristiana nel nostro tempo.

Certo, al lettore non avvezzo a cimentarsi con il linguaggio delle scienze filosofico-teologiche, il saggio richiede una lettura attenta, paziente e intelligente, soprattutto là dove esso dialoga con esponenti della filosofia contemporanea.

In conclusione, mi piace scorgere nei seguenti tre enunciati il senso complessivo del libro:

  • «Risulta sempre più urgente investire le migliori risorse intellettuali e spirituali per riattivare il nesso vitale che congiunge la fede cristiana con l’azione storica, ossia per dare rilievo all’effettiva implicazione antropologica, che l’incontro e il confronto con l’evento di Gesù Cristo intrinsecamente possiede… e che trova il suo spazio di realizzazione in particolare nella pratica della misericordia» (pp. 183-184).
  • «La fede nell’evangelo di Gesù si offre come la possibilità più promettente di riconoscere e di realizzare il giusto senso dell’umano che è comune, mettendolo nella condizione di attraversare e superare l’aggressione del male, nelle sue tante forme» (p. 136).
  • «La verità dell’evangelo individua il terreno di prova decisivo proprio nella sua forza di autentica umanizzazione: se tale forza venisse meno o comunque non fosse più percepita, ne risulterebbe compromesso il carattere affidabile di quella stessa verità» (p. 145).

A. Lebra, in SettimanaNews.it 6 giugno 2018

Si può elaborare un discorso filosofico a partire dal concetto di misericordia? Come secoli fa fece san Tommaso sviluppando quello di natura (“Gratiam naturam non tollit, sed perficit”), nell’epoca della morte di Dio – ma sarebbe più corretto dire della morte dell’uomo se l’orizzonte della trascendenza viene eliminato – le basi per una nuova umanizzazione, dinanzi ai rischi di uno strapotere dell’economia e della tecnologia, possono ritrovarsi appunto nell’affermazione della logica del dono e del perdono.Che non è altro che quella del Vangelo. Lo ricorda papa Francesco citando la Lettera di Giacomo: «Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia. La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio». Una filosofia dunque che non prescinda dal cristianesimo? Può sembrare paradossale, ma è proprio dai pensatori non credenti che viene la richiesta.

Dopo le immense tragedie del secolo scorso, nessun filosofo può più permettersi di snobbare il lascito evangelico, e di conseguenza di ignorare l’eccesso di sofferenza che ancor oggi permane nel mondo, che vediamo in noi e davanti a noi. Ce lo fa capire un libro appena uscito da Queriniana, «La grazia suppone la cultura» (pagine 192, euro 14,00), scritto da Duilio Albarello, che insegna teologia a Fossano e Milano. Il titolo è virgolettato perché riprende una frase della Evangelii Gaudium, che a sua volta riscrive il noto assioma dell’Aquinate: da Metz a Žižek, da Milbank ad Habermas, da Taylor a Beck, da Theobald alla Kristeva, lo sforzo del volume è quello di evidenziare una ricerca comune nel pensiero di alcuni protagonisti della cultura contemporanea. Credenti e non. A partire da Johann-Baptist Metz, noto per aver rimesso a fuoco il concetto di “teologia politica”. Nelle sue opere più recenti, come Memoria passionis (Queriniana 2009), il teologo e gesuita tedesco ambisce a riformulare il discorso su Dio «tramite la sua esposizione alla prova radicale, costituita dalla sofferenza patita dall’innocente e dalla vittima dell’ingiustizia». Si tratta di assumere uno sguardo apocalittico che porta a cercare “le tracce di Dio nel volto degli uomini sofferenti, per dare al loro grido un ricordo e al loro tempo un termine”. Metz insomma sottolinea il compito della Chiesa come autorità critico-profetica nei confronti della società.

Idea condivisa da Slavoj Žižek, uno dei filosofi più presenti sulla scena contemporanea, che da non credente e neomarxista qual è, a partire dallo studio di san Paolo giunge a proporre una terza via fra liberalismo e fondamentalismo, che chiama «materialismo cristiano apocalittico». La visione paolina si fonda su un nucleo agapico che oltre a una forte componente spirituale secondo il pensatore sloveno presenta una fortissima ansia di rinnovamento politico. Per Žižek il cristianesimo diventa una contro-etica, una forza traumatico-profetica che destabilizza l’ordine sociale esistente. In nome di che cosa? Del senso di comunità. Scrive infatti Žižek in Vivere alla fine dei tempi (Ponte alle grazie, 2011): «Rifiutando di ripagare il male con il male, vivendo in pace e condividendo i beni, la Chiesa testimonia del fatto che esiste un’alternativa a una società basata sulla violenza o sulla minaccia della violenza». Alla sua visione materiale e politica del cristianesimo che viene depurato del suo aspetto spirituale, si contrappone John Milbank, che con Žižek ha dialogato nel libro San Paolo Reloaded (Transeuropa, 2012). Per il pensatore anglicano la terapia di un materialismo evangelico non è abbastanza radicale per contrastare in modo efficace il «paganesimo del progresso» su quale si basano il dispositivo economico- politico e l’apparato tecnoscientifico del neoliberismo. Anche Milbank parla di «contro-etica» e persino di «contro-ontologia», ma proprio in forza di una logica universalistica che implica una fede che va oltre l’immanenza. Il paradosso dell’Incarnazione porta con sé la necessità di un dono incondizionato e gratuito che è ancora un modello per l’oggi, ma che è impossibile sganciare dalla trascendenza. Dice Milbank: «Solo un cristianesimo più benevolente, più festivo, può sperare di ristabilire una cristianità rinnovata e ora davvero globale; messo a confronto con le aporie del liberalismo secolare, può ancora in futuro avanzare la pretesa di essere l’autentico illuminismo e l’autentico romanticismo».

Una prospettiva cui sembra concordare Julia Kristeva, nel suo sforzo di disegnare la possibilità di rifondazione dell’umanesimo proprio unendo il meglio delle due tradizioni, quella illuminista e quella ebraico-cristiana. Per la filosofa francese non credente, di origine bulgara, è impossibile negare «il bisogno di credere» che ancora anima l’uomo contemporaneo. Dal suo punto di vista, Charles Taylor contrasta l’opinione scientista spesso dominante in Occidente che vede la credenza religiosa come una condizione di immaturità e di ignoranza, se non addirittura irrazionale. A questa posizione secolaristica il filosofo canadese non oppone il rigetto della civiltà dei diritti e della democrazia, ma un’opposizione leale al sistema moderno e postmoderno, per liberarlo dalle sue aporie grazie al riferimento al Vangelo in quanto capace di ispirare soluzioni più degne dell’uomo. «Dobbiamo trovare – si legge nel saggio L’età secolare (Feltrinelli, 2009) – il centro della nostra vita spirituale al di là del codice, più in profondità del codice, in reti di cura vivente, che non devono essere sacrificate al codice, e che anzi devono persino sovvertirlo». Giustamente Albarello nella sua disamina parla del tentativo di disegnare una «modernità cattolica», che «nella distinzione senza dissociazione tra il secolare e il religioso non si prefigga di soffocare il “respiro occidentale”». Egli poi mette in luce le analogie fra le analisi dei pensatori tedeschi Habermas e Beck con quelle elaborate dai teologi – ma anche dal Papa – di fronte all’individualismo imperante che rende assai difficoltosa la ricerca di un bene condiviso. E si affaccia, nella formulazione del teologo francese Christoph Théobald, la visione di una «mistica della fraternità», allo scopo di svelare in ogni essere umano il sensus Regni, la disponibilità a far prevalere le risorse di partecipazione e solidarietà verso gli altri.

Concetto che sembra far proprio anche il pensatore francese Jean-Luc Marion, erede di Lévinas e Ricoeur, che nel saggio Credere per vedere (Lindau, 2012) scrive: «La ragione si è limitata finora a interpretare il mondo, quindi a trasformarlo in oggetti che essa può dominare. Sarebbe ora di iniziare a rispettarlo. Rispettare il mondo significa vedere, dunque guardare in faccia il volto dell’altro uomo». Una prospettiva che trova d’accordo lo stesso autore di questo volume, che ha voluto non solo ripercorrere le posizioni dei principali intellettuali contemporanei credenti e non credenti, ma sviluppare una critica serrata verso un cattolicesimo che si presenta lontano dalla vita quotidiana. Un cattolicesimo che Albarello definisce «tascabile, ossia troppo sicuro della sua dottrina granitica per accorgersi della complessità spirituale e sociale in cui abita, oltre che ripiegato sull’intimismo spiritualistico di certe pratiche devozionali». Un cattolicesimo “senza carne”, lontano dalla spiritualità dell’engagement di Emmanuel Mounier.


R. Righetto, in Avvenire 5 giugno 2018

Scorrendo l'Esortazione apostolica Evangelii gaudium di papa Francesco al numero 115 si legge: «La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve». Questa è la frase che sintetizza – e allo stesso tempo segna la prospettiva del nuovo lavoro del teologo monregalese Duilio Albarello nella prestigiosa collana «Giornale di Teologia» edita dalla Queriniana.

A suo modo d'intendere papa Francesco utilizza tale espressione inconsueta, che ha innescato la riflessione raccolta in questo saggio. Non può esistere una fede cristiana che non sia culturalmente mediata, per il fatto che non si può accedere alla verità dell'evangelo indipendentemente dalla condizione storica e pratica dell'uomo. Essere coerenti con la ‘legge della incarnazione' richiede di considerare la storia concreta come lo spazio vitaIe della fede, quello spazio verso cui si esce non per dare un'occhiata, ma per rimanere senza ritorno.

Il saggio si apre con una citazione di Emmanuel Mounier, in cui denuncia il "pallore disincarnato" di un certo cattolicesimo degli anni Quaranta che crede di possedere una dottrina granitica sulla quale appoggiarsi, ignaro della complessità della cultura che lo circonda. Queste parole per Albarello non perdono di attualità. Si legge nell'introduzione: «Non è certamente un caso che la preoccupazione di scongiurare il rischio di un cristianesimo senza carne sia ciò che caratterizza in maniera più evidente lo stil e il messaggio di papa Francesco, il cui manifesto programmatico rimane a tutt'oggi l'Esortazione apostolica Evangelii gaudium».

Su questo sfondo si apre il tentativo dell'Autore di indagare la correlazione tra fede cristiana e agire nella storia. Correlazione che non può lasciare in disparte il confronto con esponenti autorevoli del pensiero filosofico e teologico contemporaneo. In particolare: Metz, Zizek, Milbank, Taylor, Habermas e Theobald.

Si affrontano in maniera originale alcune problematiche fondamentali per il vissuto e il pensiero della fede oggi: un modo nuovo di immaginare l'esperienza cristiana, il superamento del dualismo tra credere e conoscere, la misericordia come "architrave" del legame sociale ed ecclesiale, la sfida complessa del dialogo interreligioso.

Duilio Albarello è presbitero della diocesi di Mondovì, è docente stabile di Teologia fondamentale e di Antropologia teologica presso lo Sti e l'Issr di Fossano, di cui è Direttore; inoltre è docente di Teologia fondamentale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano e collabora con la Facoltà teologica di Torino.


F. Massobrio, in La Guida 26 aprile 2018

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