21/01/2011
181. L'ECUMENISMO È ANCORA UN TEMA? Intervista al cardinale Karl Lehmann sulla situazione dell’ecumenismo in Germania di Erich Garhammer (docente di teologia pastorale all’università di Würzburg)
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Intervistatore: Come descriverebbe Lei, prima del convegno ecumenico di Monaco, la situazione dell’ecumenismo in Germania?
Lehmann: Se si prendono in considerazione alcuni eventi recenti, si potrebbe fare un’analisi della situazione ecumenica piuttosto sotto tono e poco aperta alla fiducia. Io, però, non vorrei dare troppo peso a tutti questi eventi. Occorre, di tanto di tanto, come avviene in tutte le relazioni umane, fare i conti con ritardi, fraintendimenti, delusioni e periodi di magra. Siamo abituati. In questi quarant’anni dal concilio Vaticano II abbiamo già fatto molto. Ma è sempre stato chiaro che non ci troviamo di fronte soltanto ad uno sviluppo in salita, ma di continuo anche a della sabbia. Ciò vale per lo meno per alcune perturbazioni atmosferiche. Certamente dietro ci sono  anche dei problemi molto seri, come vedremo. Ma in fin dei conti, nel profondo della nostra comprensione della fede e della chiesa, non c’è nessuna reale alternativa alla via dell’unità. Il convegno ecumenico può ricordarcelo in un modo vivo, convincente e in grado di scuotere. Esso può modificare il cattivo umore diffuso, ma non si deve neppure sopravvalutare una tale assemblea di pochi giorni, diversamente si finisce soltanto con il favorire una nuova delusione.
Intervistatore: Di recente ci sono state delle irritazioni a motivo del testo-Gundlach, divenuto di pubblico dominio. Tale testo è un “incidente di percorso” oppure un simbolo dell’ attuale clima ecumenico?
Lehmann: In primo luogo ritengo questo cosiddetto “testo-Gundlach” un errore. Così, io credo, abbiamo potuto limitare e fermare, in modo anche relativamente rapido, i primi effetti negativi nei media. Per questo ci sono tra i responsabili delle due grandi chiese tante buone esperienze ed anche relazioni feconde. Naturalmente, il fatto soprattutto che venga commissionato un testo del genere – una simile idea  non nasce spontaneamente nella testa di un referente –  fa già riflettere. In questo testo c’erano, del resto, anche osservazioni e constatazioni sulla situazione della nostra chiesa, che noi stessi dobbiamo dolorosamente accogliere e gestire. Mi  hanno spaventato nel “testo-Gundlach” piuttosto un certo senso di superiorità e forse anche una sgradevole prepotenza. Gran parte dei media conosceva già prima il testo, ma ha taciuto. Quando poi esso era già di dominio pubblico, molti l’hanno voluttuosamente divulgato e commentato. Nel complesso, dunque, piuttosto un “incidente di percorso” che può essere gestito, che però fa anche riflettere.
Intervistatore: Ritiene che il concetto di “ecumenismo dei profili”, introdotto dal  vescovo evangelico Wolfgang Huber, sia un concetto felice?
Lehmann:  Comprendo l’intento del concetto, ma nell’uso medio lo ritengo problematico. Questa perplessità io l’ho espressa già molto presto – subito al suo apparire  - in una riunione  accademica comune con il vescovo Wolfgang Huber: nonostante tutte le tendenze all’unità maggiore possibile, gli sforzi ecumenici non possono certamente perdere di vista e indebolire la fedeltà alla propria identità e la propria professione di fede. Pertanto, specialmente nel progredire di quanto abbiamo in comune   è necessaria, nell’ecumenismo, la salvaguardia  del profilo proprio. Ma nell’attuazione concreta ciò è, tuttavia, molto più difficile, poiché spesso questa rafforzata difesa dell’identità avviene di fatto proprio attraverso una delimitazione più o meno negativa rispetto agli altri, la quale  non di rado fa valere la propria superiorità. Io lo paragono volentieri al comportamento di un giovane nella pubertà, che spesso trova la propria identità soltanto ribadendo la sua unicità e distinguendosi soprattutto dai genitori. Se tale atteggiamento si irrigidisce, conduce naturalmente ad immaturità. Per me il vero ecumenismo si misura dalla gioia  per la forza del partner.
Intervistatore: Quale vescovo di Mainz, ma anche come presidente per molti anni della Conferenza episcopale tedesca, Lei conosce diversi progetti ecumenici locali. Quale di essi ritiene particolarmente degno di menzione? Quale è stata, per Lei personalmente, l’esperienza ecumenica che Le ha dato più gioia?
Lehmann: Da più punti di vista i nostri progetti ecumenici sono un po’ elitari, si librano al di sopra della quotidianità e appaiono alquanto elevati. Per questo molti fratelli cristiani non li seguono. Quanto a me i “progetti”  - la parola qui non  mi piace, ma non ne trovo un’altra migliore -  sono importanti, particolarmente quelli che rafforzano ed esprimono la comunione di fede nel quotidiano. In tal senso i servizi divini ecumenici non sono una manifestazione rara. La lettura comune della Bibbia e la vita che ne scaturisce sono per me del tutto importanti. Ma anche l’impegno per coloro che sono realmente poveri,  dei quali fanno parte ad esempio i senzatetto, i bambini bisognosi. Qui ogni comunità deve riflettere insieme con la comunità partner e chiedersi che cosa essa è in grado di fare, e se per farlo hanno le persone giuste.
Intervistatore: Il teologo Heinrich Fries ha parlato dell’unificazione della chiesa come di una possibilità reale. Ci sarà, prima del giudizio universale, l’unica chiesa e soprattutto come la si potrebbe pensare?
Lehmann: Prima di questa questione preferirei porre un altro problema, che per qualche tempo è stato discusso anche nell’ecumenismo, ma che oggi è passato troppo in secondo piano. Quale unità ci attendiamo e pensiamo? Questa domanda riguarda i “modelli di unità”, quante cose in comune sono necessarie e quali diversità tra le singole chiese possono rimanere. Ciò presuppone naturalmente di chiarire in quali ambiti deve esserci unità totale (ad esempio, professione di fede, dottrina, sacramento) e dove comincia il grande regno di una molteplicità consentita. Su ciò ci sono nell’ecumenismo risposte diversificate, ad esempio i modelli dell’unione organica in ambito anglicano, la diversità riconciliata nel luteranesimo e così via. Per lo più  bisogna chiarire la posizione e il valore del “ministero”. Qui si danno ancora le differenze maggiori e pure i maggiori contrasti. Negli ultimi anni, nonostante tutto il lavoro ecumenico, essi si sono talvolta ampliati. La discussione sulla “comunione tra le chiese” ci occuperà nei prossimi anni, questo è certissimo, più intensamente. Se poi, sotto il presupposto della unità necessaria, sarà possibile raggiungere un reciproco riconoscimento, in tal caso possono restare pure molte differenze, le quali possono essere anche una ricchezza, ma certamente non tali da creare separazione tra le chiese. Siamo sulla buona strada in questa direzione, ma resta ancora molto da fare. Se e quando raggiungeremo la meta, vorrei lasciarlo come domanda aperta.
Intervistatore:  Quale concetto, nella teologia dell’ecumenismo, è per Lei centrale e capace di futuro: ecumenismo della conversione, ecumenismo del ritorno, o che altro?
Lehmann: Un concetto, e addirittura uno soltanto, di per sé naturalmente non basta.  Occorre una intera rete di conoscenze e di modi di agire per arrivare ad un dinamismo realmente fecondo dell’ecumenismo. Per il nostro tempo mi sembra essere di particolare urgenza una “spiritualità dell’ecumenismo”. Essa include le parole chiave da Lei citate, come ad esempio conversione e riconciliazione. Ciò per molte ragioni. Lo sforzo ecumenico è indispensabile, richiede tutte le forze di cui disponiamo. Ma non siamo noi che creiamo l’unità. Di questo, però, nel quotidiano siamo poco consapevoli. Quanto più ci avviciniamo gli uni gli altri, tanto più avvertiamo certamente anche che, nonostante tutti gli studi e le ricerche teologiche importanti, che attestano realmente anche una autentica volontà di unità, c’è bisogno di una “spinta” per superare coraggiosamente in primo luogo  proprio gli ostacoli più piccoli. Talvolta c’è anche il pericolo che possiamo soccombere sotto prospettive più grandi, ma allora le poche differenze rimaste possono venir ingrandite fino a diventare ostacoli giganteschi. Qui si può essere responsabili, senza disprezzo della teologia e della cresciuta coscienza ecclesiale, a partire  dalla comune responsabilità spirituale, per fare pure un “salto” calcolato gli uni verso gli altri. Qui ogni parte deve osare un anticipo di fiducia. Io lo chiamo volentieri una “decisione ecclesiale”, che può diventare necessaria. Credo che qualcosa del genere è riuscito nel processo e nell’intesa sulla posizione comune nelle questioni fondamentali della dottrina della giustificazione, il 31 ottobre 1999 ad Augsburg. Per il resto so di essere qui in buona compagnia con due colleghi che, proprio sulla base della loro esperienza ecumenica, hanno incrementato molto bene l’esigenza di una maggiore spiritualità nell’ecumenismo attraverso due piccole pubblicazioni: il cardinale Walter Kasper (Wegweiser. Ökumene und Spiritualität [Segnavia. Ecumenismo e spiritualità], Freiburg i. Br. 2007) e il vescovo Paul-Werner Scheele (Ein Leib – ein Geist. Einführung in den geistlichen Ökumenismus [Un solo corpo – un solo Spirito. Introduzione all’ecumenismo spirituale], Paderborn 2006). Questo ecumenismo spirituale è stato curato eccellentemente anche in Francia: dall’Abbé Paul Couturier, del Gruppo di Dombes, e da Taizé. Infine, sarebbe così anche di nuovo riconoscibile che, al di là di ogni sforzo, è lo Spirito Santo il vero motore vitale del dinamismo ecumenico.
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Traduzione dal tedesco di Gianni Francesconi

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