14/06/2013
252. LA CIVILTÀ DEL CONVIVERE di Rosino Gibellini
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Interculturalità e multiculturalità sono fenomeni di vasta portata, che sono diventati oggetto di studio: è nata la xenologia (da xénos che, in greco, significa “lo straniero”), costituita da molteplici discipline.

Innanzitutto l’etnologia, che descrive lo straniero, anche se il grande etnologo Malinowski ha scritto: «Io sono nello stesso tempo colui che descrive lo straniero, ma insieme colui che lo inventa», in quanto la descrizione della etnologia non va esente da una strategia di incasellamento.

Un’altra disciplina è la storia dell’arte che vede lo straniero. È rimasta celebre la battuta di Picasso sull’arte nera: «L’arte nera? Io non la conosco». Atteggiamento diverso da Gauguin, che scriveva: «Voglio fondare a Tahiti l’atelier dei Tropici», anche se l’arte dei Tropici era assunta per arricchire l’arte occidentale.

Un’altra disciplina è la filosofia che pensa lo straniero, e qui i filosofi più interessanti sono Husserl, il fondatore della fenomenologia, Lévinas e Habermas. Il filosofo ebreo Lévinas, in particolare, introduce in filosofia l’idea dell’altro, Autrui, anche se l’altro è visto nella sua pura alterità, Illéité, e non è l’altro dell’incontro con lo straniero; l’altro rimane così al singolare e nella sua astrattezza. Il filosofo tedesco della politica Habermas ha teorizzato la filosofia dell’agire comunicativo, diretto nella società democratica a trovare il consenso attraverso l’argomentazione razionale, anche se nella teoria dell’agire comunicativo viene universalizzato il proprio contesto culturale.

Da tutti questi impulsi culturali nasce la necessità di elaborare una ermeneutica interculturale, l’unica adeguata al nuovo contesto del multiculturalismo. L’ermeneutica interculturale non è più, come nell’accezione classica da Schleiermacher a Gadamer e Ricoeur, ermeneutica di un testo, sia esso giuridico, letterario, biblico o religioso, ma una ermeneutica pratica, che si propone la comprensione dello straniero in vista della comunicazione e della convivenza.

Ma la situazione culturale e sociale in corso nelle nostre città non è solo caratterizzata dal passaggio dal monoculturalismo al multiculturalismo, ma anche da una nuova realtà, che va sotto il nome di meticciato. Meticciato deriva dal latino mixticius, che vuol dire nato da razza mista; ed è parola introdotta nelle nostre lingue dallo spagnolo mestizaje. Leggo in una statistica che a Roma, con il 7% degli stranieri, nel 2003 ci sono stati 1.342 matrimoni misti, a fronte di 9.590 matrimoni fra italiani e 1.069 fra stranieri. Quasi una famiglia su dieci nata nel 2003 è meticcia, e i loro figli saranno “misti”. Il multiculturalismo genera il meticciato: quando le culture interferiscono tra loro e si influenzano si attua il meticciato culturale; ma quando anche i corpi si incontrano si attua il meticciato biologico, in quanto sono generate nuove identità biologiche. Scrive uno studioso francese del fenomeno, Jacques Audinet, già docente all’Institut Catholique di Parigi: «Non c’è multiculturale senza meticciato. Poiché i gruppi umani in presenza gli uni degli altri su un stesso territorio si incontrano. Si mescolano e mescolano le lingue, i costumi, i simboli, i corpi. Essi generano una cosa diversa da se stessi, dei figli che saranno differenti dalla loro origine. Solo una violenza imposta, quella degli apartheids può impedire un tale processo. Il meticciato è l’effetto, il prolungamento del multiculturale». Il meticciato è fenomeno più duro del multiculturalismo. Si può percepirlo come una minaccia, come qualche politico italiano si è espresso, a cui però si potrebbe contrapporre le parole di un avveduto politico francese, il generale De Gaulle, che affermava: «L’avenir est au métissage», «Il futuro è del meticciato». De Gaulle lo aveva appreso da un grande umanista africano, il presidente del Sénégal, Léopold Sédar Senghor, che guardava al multiculturalismo e al meticciato come via a quella che chiamava, sulla scorta di Teilhard de Chardin, la «civilisation de l’Universel», la «civilizzazione dell’Universale». Scriveva il politico e scrittore Senghor nel 2000, in una sorta di testamento spirituale: «I tempi sono cambiati, ma io continuo a credere innanzitutto e aldisopra di tutto all’avvento di una cultura dell’Universale, che sarà fondata sul dialogo, sull’influenza reciproca di tutte le culture. Non si tratta di rinnegare la civiltà negro-africana. Al contrario, la posta in gioco è di approfondire e radicarci bene in essa senza cessare tuttavia di aprirci agli apporti fecondanti degli altri continenti e delle altre civiltà del mondo».

Per comprendere il meticciato in senso positivo e prospettico si dovrebbe visitare uno dei luoghi più suggestivi del mondo, la Plaza de las tres culturas di Città del Messico, che riproduce lo strato azteca con le rovine risalenti a quel tempo, lo strato coloniale del tempo della colonizzazione con una chiesa cattolica dei primi tempi della conquista spagnola, e finalmente l’orizzonte del Messico moderno con le sagome, visibili in lontananza, di filiere di condomini. Nel punto centrale della «Piazza delle tre culture» vi è una stele con una epigrafe dove si leggono queste parole: «Non fu una disfatta, né una vittoria, ma la nascita dolorosa del popolo meticcio  che è il Messico di oggi». Commenta un teologo contemporaneo messico-americano, Virgil Elizondo, che ha introdotto nella riflessione teologica la categoria di meticciato: «Quale veduta penetrante: passare dalla categoria di conquista a quella di nascita».

Avendo segnalato che il processo del meticciato è il prolungamento del multiculturalismo, ritorniamo a questa concettualità, che sta definendo ormai la fisionomia delle nostre città. Il termine multiculturalità è di uso recente, e si impone negli Anni Ottanta nel corso dei dibattiti e delle lotte per l’eguaglianza dei diversi gruppi minoritari (indiani, afroamericani, ispanici, asiatici) nel Nordamerica. Nei decenni precedenti si parlava dell’America in termini di melting pot, e cioé di “crogiolo delle razze” (parola questa impropria che va scomparendo, e compare al suo posto la parola etnia); oggi si è più prudenti e si parla in termini di arc-en-ciel, di società arcobaleno, o, in termini più bassi, di società macedonia, dove non c’è fusione o integrazione degli elementi che la compongono, ma dove tutti gli elementi che la compongono, pur non fondendosi, concorrono a configurare il tutto; ossia di società multiculturale, dove il problema è come articolare la molteplicità delle culture in un quadro universale democratico.

Il problema non è facile e l’esperimento è in corso. Disponiamo di due modelli: il modello francese e il modello canadese-britannico. Secondo il modello francese, la legge repubblicana è la stessa per tutti: le differenze hanno diritto di cittadinanza nella misura in cui non si oppongono alla legge comune e sono rimandate allo spazio privato. Esiste un quadro collettivo comune, e le differenze sono riconosciute, ma rinviate all’ambito dell’esistenza individuale. Secondo il modello canadese-britannico, all’interno di un quadro collettivo comune, si determina l’accettazione di differenze collettive. Qui il riconoscimento non è più solo un riconoscimento di particolarismi individuali, ma un riconoscimento di particolarismi collettivi, quelli di gruppi culturali distinti su un medesimo territorio. In questo secondo modello gioca di più il riconoscimento delle differenze.



Come orientarsi, dal punto di vista culturale ed etico, di fronte al fenomeno del multiculturalismo/meticciato, che i flussi migratori hanno creato negli ultimi decenni nelle nostre città? Vorrei dare alcune indicazioni di orientamento.


1. Si deve innanzitutto comprendere le migrazioni e i fattori che le determinano. Non si può fantasticare e immaginarsi quasi un esercito, anche se disorganizzato, che viene alla conquista della fortezza Europa: sarebbe un pensiero deviante, che alimenterebbe solo paura e sentimenti di ripulsa e di difesa. Si tratta, invece, pur nella pesantezza del fenomeno, – drammaticità da una parte, pesantezza dall’altra –, di flussi migratori, nel contesto del processo di globalizzazione, determinati dal sotto-sviluppo dei paesi di partenza dei migranti; e dalle guerre e insicurezza politica per quanto riguarda i rifugiati. Per dare una sola cifra tonda, orientativa: su 380 milioni di abitanti dell’UE, si registrano circa 20 milioni di immigrati, anche se il fenomeno è destinato ad incrementarsi nei prossimi decenni. Certo è una sfida lanciata alle nostre società in Europa. Lo ricordava il segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, davanti al parlamento francese nel 2004 con queste parole: «Il messaggio è chiaro: gli immigrati hanno bisogno dell’Europa, ma anche l’Europa ha bisogno degli immigrati. Una Europa ripiegata su se stessa diventerebbe più meschina, più povera, più debole, e anche più vecchia. Al contrario, una Europa aperta sarebbe più giusta, più ricca, più forte, più giovane, nella misura in cui voi sappiate gestire l’immigrazione. [...] Gli immigranti sono una parte della soluzione e non una parte del problema. Essi non devono diventare un capro espiatorio dei diversi malesseri della nostra società». Bisogna, quindi, saper guardare alle migrazioni come ad un viaggio di umanità, per i migranti e per noi: per noi, come un test, che mette a dura prova la nostra attitudine a diventare umani; come una occasione storica che ci porta a rivisitare la nostra visione di essere umano, di differenza, di avventura migratoria. Secondo l’antropologo Lévi-Strauss siamo tutti etnocentrici, ma si tratta di superare l’etnocentrismo negativo, che è escludente, attivando invece l’etnocentrismo nel suo aspetto positivo, che afferma la propria cultura, ma che sa dare spazio ad altre culture. Questo, credo, sia il primo elemento: comprendere le migrazioni nella loro dimensione storica-culturale come “avventura di umanità”.


2. Si tratta, inoltre, di comprendere lo straniero. Secondo lo studioso di Heidelberg, Theo Sundermeier, ci sono quattro modelli per comprendere lo straniero, quali si sono presentati nella storia e quali si possono rinvenire nella nostra situazione multiculturale.

a) Il primo modello è il modello della uguaglianza: gli stranieri sono esseri umani come noi, sono uguali a noi per umanità, e quindi, nel nostro spazio in cui si trovano a vivere, sono da assimilare a noi. Questo modello può apparire avanzato, quasi di stampo illuministico, ma non tiene conto delle differenze culturali e religiose.

b) Il secondo modello è il modello della alterità: gli stranieri sono diversi da noi per lingua, cultura e religione, e pertanto sono percepiti come una minaccia. Lo straniero è totalmente altro, è hostis (nemico), non hospes (ospite). In questo modello si enfatizza la differenza, e non si tiene nel dovuto conto l’equivalenza o l’uguaglianza in umanità. Il modello della alterità è il più regressivo, ma appare molto diffuso nella nostra società. Constata, infatti, il Documento della Caritas Italiana, Immigrazione “Segno dei tempi” (2003), che presenta un Dossier in ventisei “parole-chiave”, alla parola-chiave “Italia: visione d’insieme”: «Si riscontra un atteggiamento di diffidenza da parte degli italiani (la maggioranza degli italiani ritiene che gli immigrati non si possono più accogliere o li considera per lo più come delinquenti); la loro immagine viene alterata dai media (in prevalenza appaiono sotto un aspetto negativo».

c) Il terzo modello è il modello della complementarità, secondo il quale lo straniero serve ad arricchirci, materialmente e culturalmente. Qui si riconosce la differenza, ma viene subordinata alla nostra identità. Si tratta di una complementarità asimmetrica, che in definitiva strumentalizza lo straniero, che non viene riconosciuto nella sua dignità in sé e per sé.

d) Il quarto modello è chiamato il modello della convivenza (utilizzando, anche in studi di lingua inglese o tedesca, la parola italiana, o l’equivalente spagnola, convivencia, in quanto assente o meno espressiva nelle altre lingue occidentali). Nella convivenza si tengono insieme uguaglianza e differenza. La convivenza rispetta le differenze, ma le incontra; fa incontrare lo straniero, che «bussa alle nostre porte», come si esprimono i vescovi francesi. La convivenza non assimila, come nel primo modello; non esclude, come nel secondo modello; non subordina a sé, come nel terzo modello; ma crea spazi di comprensione dello straniero, e di comunicazione con lo straniero. Essa si va costituendo con tre elementi di fondo: l’aiuto reciproco: i vicini si aiutano nelle cose della vita quotidiana; l’apprendimento reciproco: i vicini parlano tra loro, si danno consigli e si aiutano nelle difficoltà; la festa, che fa uscire dal quotidiano e rende possibile, in qualche modo, l’interculturalità nella multiculturalità. «La convivenza mira alla reciprocità». E, nella reciprocità, la propria identità non è concepita come qualcosa di fisso, quasi un corsetto che ci raccoglie bene, ma come qualcosa di dinamico, che si costruisce nella relazionalità con gli altri e con i diversi. In questo senso la pratica della convivenza, che tende alla reciprocità, assume una dimensione etica.


3. Si potrebbe qui indicare il contributo che possono dare le diverse tradizioni religiose alla comunicazione e alla convivenza nelle nostre città multiculturali e multireligiose. Esse devono espungere ogni tratto tribale, che esclude gli altri, per attivare dal loro patrimonio sapienziale il respiro dell’universalità.

Mi limito al cristianesimo. Il pensiero cristiano ha elaborato in questi decenni le linee di una «teologia dello straniero». Essa ripensa le verità centrali della visione cristiana, utilizzando questa categoria: Dio come lo straniero, in quanto pensato come il totalmente Altro dal mondo e come il mistero assoluto; Cristo come l’ospite straniero, che, nel linguaggio del vangelo di Giovanni, «venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno ricevuto»; lo Spirito Santo come lo Spirito di pentecoste, che «non abolisce le differenze, come tali, ma toglie loro il senso di mutua inimicizia, le rende fluide, le rende “comprensibili”, garantisce la molteplicità dei carismi». E viene sottolineato il grande testo di Matteo 25, 38-43, in cui il Cristo giudice si identifica con i poveri, con chi ha fame e sete, con lo straniero (xénos): «Ero straniero e mi avete accolto»; «ciò che avete fatto allo straniero, lo avete fatto a me». Lo straniero è la presenza di Cristo. Ma vengono ricuperati anche testi dalla tradizione cristiana come la Lettera a Diogneto, che caratterizza i cristiani come minoranza e come stranieri nel mondo, come «residenti stranieri».

Sullo sfondo di questa tradizione, nonostante le ambiguità della storia, si comprendono le parole del papa Giovanni Paolo II nel messaggio mondiale dei migranti del 1995: «Nella Chiesa, nessuno è straniero e la Chiesa non è straniera a nessun uomo e a nessun luogo. In quanto sacramento di unità, e dunque segno e forza di aggregazione di tutto il genere umano, la Chiesa è il luogo dove gli immigranti anche in situazione illegale sono riconosciuti e accolti come fratelli. Le diverse diocesi hanno il dovere di mobilitarsi perché queste persone, costrette a vivere aldifuori della protezione della società civile, trovino un sentimento di fraternità nella comunità cristiana». Questo concetto di fraternità, adelphôtes, non si trova mai nelle opere pagane pre-cristiane; e tardivo nei testi dell’Antico Testamento e negli altri scritti giudaici; secondo il lessico del Nuovo Testamento non significa philadélphia, l’amore del fratello (che può subire restrizioni parentali, etniche, nazionali), ma significa philanthropía, amore dell’essere umano, amore del simile. La fraternità cristiana è amore del fratello, in quanto essere umano. La parola fraternità all’europeo richiama anche il motto della rivoluzione francese. Ma, in un recente testo (2004) per la pastorale dei migranti elaborato in Francia, si osserva, con una qualche ironia: «La Fraternità repubblicana si scrive con la maiuscola. Che sia la fraternità cristiana a farle rimettere i piedi per terra? La fraternità sono dei fratelli in carne e ossa, dei fratelli reali».

Ma: si può vivere insieme? Si può vivere-bene-insieme? Cito il saggio dello storico con vasta esperienza internazionale Andrea Riccardi, dal titolo Convivere (2006), dove si analizza l’intricata situazione internazionale, dopo la caduta delle ideologie, nel tempo della globalizzazione, del terrorismo internazionale, degli attentati di Madrid e di Londra, della rivolta della banlieu, e dove, alla fine, si propone come strategia, ma anche come diplomazia, e come azione pratica, quella che viene chiamata «la civiltà del convivere». Scrive, con lo sguardo rivolto in campo internazionale: «Siamo tutti diversi, difficilmente unificabili; ma anche uniti da tante connessioni culturali e politiche, finanziarie e geografiche, positive e negative. Sono scomparsi gli imperi e le ideologie unificanti. [...] È la realizzazione di una civiltà fatta di tante civiltà – se si vuole usare questa espressione – o di tanti universi culturali, religiosi e politici. La coscienza della necessità della civiltà del convivere è l’inizio di una cultura condivisa tra uomini e donne differenti».




Intervento al Convegno su “La città multiculturale”, Brescia 2007; testo che si riprende in occasione della conclusione dei lavori dell’Accademia Cattolica di Brescia sul tema “Religione e convivenza civile”, 2010-2013).

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