01/12/2023
548. ROSINO GIBELLINI - In Memoriam
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A un anno dalla scomparsa del caro Rosino Gibellini, lo ricordiamo con le parole di chi ha avuto modo di conoscerlo direttamente, crescendo e lavorando al suo fianco per lunghi anni. Sono ricordi personali, che ci restituiscono – oltre ai cenni biografici – tratti della personalità eccezionale di p. Rosino. Ad essi facciamo seguire il discorso letto da Claudio Baroni (presidente della Fondazione Morcelli Repossi), durante la cerimonia d’iscrizione al Famedio di p. Gibellini, tenutasi lo scorso 9 novembre alla presenza delle massime autorità cittadine.







Lo studioso che amava la Chiesa

 

Mamma Clementina soleva dire: «Se io fossi un libro, il mio Rosino mi avrebbe già mangiata». La insaziabile curiosità intellettuale è stata la molla segreta della sua vita. Agli esami di maturità all'Arnaldo sorprese gli esaminatori, che si sentirono in dovere di far notare ai Superiori che di intelligenze come la sua «ne nasce forse una ogni cinquant'anni». Eppure non aveva un grande tempo libero per studiare perché all'Istituto Artigianelli c'era da assistere giorno e notte i ragazzi, che lo ricorderanno come il «prefetto sempre con i libri in mano».

 

Gli esordi. Nato a Gambara nel 1926 è accolto nella Congregazione di S. Giovanni Battista Piamarta, fa i suoi studi liceali all'Istituto Sacro Cuore di Maderno e quelli teologici al Seminario diocesano di Brescia. Dopo l'ordinazione presbiterale, frequenta la Gregoriana dove si laurea brillantemente in teologia e dove scopre l'urgenza e il compito di far entrare la teologia nel discorso culturale italiano, traendola dall'esilio cui era stata costretta, il che poteva avvenire solo se la teologia usciva dal suo isolamento, imposto o cercato.

 

Ridare dignità alla teologia. Ecco un compito che gli si presenta chiaro: ridare dignità alla teologia italiana, mettendola a contatto con i grandi teologi stranieri che potevano lavorare in condizioni migliori, facendone conoscere le opere. Poi viene il concilio Vaticano II e il campo si allarga a nuove tematiche. C'è il dialogo tra i cristiani, che va sorretto dalla teologia ecumenica. Ci sono le grandi costruzioni sociopolitiche atee o secolaristiche, le quali vanno orientate da una teologia della speranza. C'è la dura conflittualità sociale che produce la teologia della liberazione e via procedendo. In breve: i grandi problemi del mondo pongono domande nuove alle risposte tradizionali della teologia, cioè al dato rivelato. Bisogna rimboccarsi le maniche.

 

Lo studio e la competenza. Padre Rosino non perde tempo: studia le lingue, visita i principali "santuari europei" del sapere teologico e, grazie anche alla ripresa dell’Editrice Queriniana, inizia una serie di pubblicazioni su queste tematiche, attraverso collane di prestigio, scegliendo autori affidabili, facendo introduzioni, organizzando dei dibattiti, tutti nella linea di apertura del concilio. Con una competenza che stupisce anche i grandi teologi. Nelle riunioni annuali della rivista Concilium, capita che, in un momento di impasse, qualcuno gli chieda: «Rosino, quale è lo status questionis?». E ci si attiene alle sue esplicazioni. Questa competenza storica e dottrinale gli permette di guidare con mano sicura la linea della Queriniana, dal momento che l’editore teologo sa benissimo fin dove ci si può spingere e dove ci si deve fermare.

Perché Rosino ama la Chiesa, la vuole servire al meglio, renderla ben attrezzata ad affrontare i tempi nuovi, che prevede difficili. Comprende quelli che procedono più cauti, non entra in polemica con quelli che lo attaccano; li ignora, guarda il futuro. Il futuro è il suo orizzonte.

 

L'attesa. Una nota personale: la più bella predica sull'Avvento che io abbia mai sentita, è stata la sua. Profonda e chiara, secondo il suo stile, frutto di una interiorità frequentata, non improvvisata. Il Signore è venuto a prenderlo alla vigilia dell'avvento 2022, per dirgli quelle parole tanto desiderate: «Ti ho tanto atteso. Tu che hai alimentato e sorretto l'attesa di tanti fratelli e sorelle».

p. Pier Giordano Cabra


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Padre Gibellini, eternamente giovane

 

«Signore, non ti chiediamo perché ce l’hai tolto, ma ti ringraziamo per il tempo che ce l’hai donato» (Sant’Agostino)

 

Padre Rosino l’ho sempre visto in filigrana, in modo confuso, come in uno specchio, percependo una grandezza oltre le mie possibilità. Come un lampo che squarcia la notte mostrando in una luce biancastra il paesaggio intorno che subito riaffonda nell’oscurità (E. Bloch).

Non c’ero quando il padre terminava gli studi a Roma, essendo Pio XII pontefice, e frequentava il cinematografo. Neppure quando era studente di filosofia all’Università Cattolica di Milano e si fermava dopo le lezioni a discutere con il professor Bontadini o la professoressa Vanni Rovighi. Non ho potuto seguirlo quando con Francesca o Paola o Giordana programmava i viaggi d’estate, o si faceva acquistare i biglietti sul Mediolanum per raggiungere in occasione del suo compleanno (22 luglio) Innsbruck e il suo amico Rahner. O quando partiva ogni novembre per gli Stati Uniti per partecipare ai lavori del Parlamento delle religioni di Chicago, Illinois, firmando per l’occasione le royalties dei libri di Raymond Brown. O faceva comprare i biglietti all’Arena di Verona per Hans Küng, o per Jürgen Moltmann e signora in viaggio da Tubinga verso il bel canto italiano. E come una balena di cui non vedi mai il volto, ma sempre i fianchi inarcuati nell’acqua e poi la coda che torreggia ed è inghiottita nel blu non ero con lui quando andava a fare il giro delle principali librerie alloggiando alla Casa del clero di via San Tomaso raccontandomi le novità e dicendomi che acquistava almeno un libro al giorno.

E l’oceano degli scrittori legati alla rivista Concilium che, dopo il trasferimento della casa editrice nella nuova sede, venivano a vedere la bibliotechina che è il polmone delle nostre attività redazionali. Quante volte sulla soglia del mio ufficio veniva presentato questo teologo o quella teologa. Sì perché i miei anni di lavoro sono coincisi con l’affermarsi delle teologhe e delle teologie sulle o delle donne. E nel silenzio di padre Gibellini c’era spazio per la suora che lavorava in cucina e per la teologa affermata. Quella volta a Roma, in occasione del convegno annuale di Concilium in via della Scrofa, che incontri! Conobbi Dietmar Mieth, Rosemary Radford Ruether, ed ebbi una lunga conversazione con Christoph Theobald, María Pilar Aquino e il teologo latino Virgil Elizondo.

Non c’ero quando il padre andava a Francoforte alla Fiera del libro. Tra gli aneddoti raccontava gli assaggi culinari agli stand e, raccontato da padre Gianfranco Ransenigo, quella notte teutonica per le vie deserte in cui gridò Ama l’amore, l’amore Ama...

È rimasta viva nei colloqui di padre Gibellini seduto in poltrona a leggere l’inserto domenicale de Il Sole 24 Ore la lunga amicizia con Joseph Ratzinger e la merenda con caffè e fetta di torta con la sorella del papa sulla strada di ritorno dalla Buchmesse, l’avvicinamento a Karl Barth negli anni del concilio, Hans Urs von Balthasar e Johann Baptist Metz, Hans Küng, Edward Schillebeckx, Gustavo Gutiérrez...

Mentre i giorni passano lentamente, da quel lunedì 28 novembre 2022, giorno dei suoi funerali, cosa resta? Cinque note: fede, acribia, non temere, rischio calcolato, amicizia. Sono i talenti che vanno consegnati a chi si affaccia al mondo dell’editoria e non solo. Ognuno/a faccia i conti con queste caratteristiche e poi... ci troveremo come d’estate a bere del Marzemino come Mozart lo cantò nel suo Don Giovanni. A Dio, caro, caro padre Gibellini!

Guido, un ex collaboratore

 

«Abituerò il mio cuore al suo orizzonte più lontano.

Meglio vivere nello sgomento delle sue stelle

che in un finto riparo, acquietato da una vicinanza»

(Rainer Maria Rilke, Poesie sparse, Parigi primavera 1913)



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Foresti e Gibellini, interpreti bresciani del Concilio Vaticano II

 

Mons. Bruno Foresti e padre Rosino Gibellini sono i due volti, le due manifestazioni più convincenti, di un concilio ecumenico, il Vaticano II, che è stato iniziato da un papa bergamasco e concluso da un papa bresciano. «Due uomini simili e diversi» – come li definiva Benedetto XVI. «Due santi pontefici», come sostiene papa Francesco. Giovanni XXIII, il papa buono, con il suo volto paterno e la sua impronta popolare. Paolo VI, il papa che ha voluto guardare negli occhi la modernità, che ha dialogato con la politica e l’arte, la cultura e la scienza.

Foresti e Gibellini declinano questi due volti con altrettanta forza. Foresti il pastore, il vescovo popolare nella sua ruvida schiettezza. Gibellini il teologo e il filosofo, l’editore di respiro internazionale. La sorte, la coincidenza dicevamo, hanno fatto sì che siano morti nello stesso anno e oggi siano iscritti insieme nel Famedio della città.

Mons. Bruno Foresti è stato vescovo ordinario di Brescia per quindici anni, dal 1983 al 1998. Un tempo non lungo, quei tre lustri, della sua vita giunta alla soglia del secolo. Eppure egli considerò questo periodo il fulcro della sua vicenda di uomo di chiesa e di vescovo, tanto da chiedere d’essere sepolto nella cattedrale della nostra città. Come è avvenuto proprio nel giorno nel quale avrebbe compiuto cento anni.

Nato a Tavernola Bergamasca nel maggio del 1923, scelto da Paolo VI nel 1974 come vescovo ausiliare e l’anno successivo confermato arcivescovo di Modena, a Brescia arriva nel giugno del 1983. Nell’omelia d’ingresso dice: «Mi è anche parso che troppi mi attribuiscono qualità e doti positive che io non possiedo e ciò mi dispiace, perché ne verranno delusi». E aggiunge: «Vi darò quei cinque pani e quei due pesci che possiedo; il Signore, se avrete fede, li moltiplicherà…». No, i bresciani, così come i modenesi prima di loro, non restano delusi da quel vescovo che confessa: «Mi piacerebbe essere ricordato come un vescovo amico dei poveri». Foresti è vescovo operoso, promotore di progetti e opere, eppure nella memoria di tutti resta impresso il suo stile: il suo viaggiare in lungo e in largo per la diocesi guidando personalmente la sua vecchia Fiat, il suo presentarsi alle porte dei preti e negli oratori senza particolari convenevoli, le sue visite ai malati, i suoi viaggi per raggiungere i mille missionari bresciani in ogni angolo del mondo. A chi gli donava libri rispondeva: «Dovreste regalarmi anche il tempo per leggerli».

Un tempo, quello per la lettura e lo studio, che padre Rosino Gibellini ha elevato a fulcro della sua vita. Rappresenta l’altro volto significativo dell’esperienza del Concilio: la sfida del pensiero, della ricerca, della cultura che diventa chiave per interpretare il mondo contemporaneo e la nostra via nella modernità.

Nato a Gambara nell’estate del 1926, ha solo dodici anni quando entra fra i Piamartini. All’Università Gregoriana di Roma si laurea con una tesi sul peccato originale. All’Università Cattolica di Milano è allievo della filosofa Sofia Vanni Rovighi e si laurea con una tesi su Pierre Teilhard de Chardin. Per sessant’anni è il fulcro dell’Editrice Queriniana. La rivista Concilium in quegli anni raggruppa i più grandi teologi venuti a Roma per partecipare ai lavori del Concilio. La Queriniana inizia a pubblicare opere di altissimo profilo e diffonde i testi di Küng, Barth, Bonhoeffer, von Balthasar, Ratzinger, Rahner, Moltmann, Schillebeeckx, Dupuis, Kasper. Guadagna subito un respiro internazionale con le antologie da lui curate sulle teologie femministe e sulle teologie di Africa, Asia, America Latina. In un capitolo de La teologia del XX secolo, suo capolavoro come autore, Gibellini sostiene che quel che caratterizza la teologia post-conciliare è la ricerca dell’umano nelle tracce del religioso. Per lui la teologia è tra i linguaggi più espressivi dell’umano proprio perché ricerca di Dio. Instancabile creatore di progetti, padre Gibellini legge, studia, traduce, interviene. E durante l’intera vita, viaggia incessantemente: Innsbruck, Monaco, Friburgo sono le prime tappe per incontrare i maggiori teologi tedeschi; ma poi anche negli Stati Uniti, in America Latina, in India, Africa e Giappone. Il suo testamento spirituale si può intravedere in Meditazioni sulle realtà ultime con il superamento del problema dell’inferno, a favore di una considerazione del Dio misericordioso che salva tutti. «Dio, e non il male, ha l’ultima parola».

Provvidenziale la coincidenza che vede ora iscritti questi due nomi nel Famedio, testimonianza di grande umanità in tempi che spesso ci appaiono così disumani.


Claudio Baroni






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