22/03/2021
481. AL CONFINE? Ambiguità e dinamiche della gestione europea dei confini di Michelle Becka e Johannes Ulrich
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In questo articolo di Concilium 1-2021 Michelle Becka e Johannes Ulrich, docenti di etica all’Università di Würzburg, si interrogano dapprima sul significato dei “confini”, in termini generali, sottolineando l’ambiguità del concetto, e in una seconda parte del loro contributo – quella che qui riportiamo – si accostano nello specifico alla problematica dei confini europei: come è possibile che un continente senza frontiere si sia trasformato nella cosiddetta “Fortezza Europa”? La loro analisi proseguirà individuando una rete di confini orizzontali e confini verticali, per desumere quegli spazi d’azione che potrebbero rendere possibili nuove manifestazioni di solidarietà nel vecchio continente.



Da Schengen…

Da più di venticinque anni le frontiere europee interne non sono più delle frontiere per le persone. Le sbarre e i controlli al confine sono sbiaditi nella memoria e la nuova mancanza di limiti ha caratterizzato nel frattempo la vita delle cittadine e dei cittadini d’Europa: i viaggi, gli scambi scolastici, i soggiorni di studio, i progetti culturali e sportivi hanno formato negli anni una consapevolezza di non essere soltanto tedeschi, spagnoli, francesi o austriaci, ma europei.

Questo progetto senza precedenti ebbe inizio nella cittadina belga di Schengen quando Germania, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo il 14 giugno 1985 sottoscrissero un accordo che porta lo stesso nome[1]. Un’Europa che guarda indietro a una lunga storia di stati e staterelli che si fanno la guerra fra loro dichiara la volontà di eliminare le frontiere tra queste realtà.

L’idea dell’Europa senza frontiere è fin dall’inizio un’idea di libertà: dapprima di libertà delle merci e del commercio, che si estende poi alla libertà di circolazione delle persone. Ed è un’idea di pace, perché l’integrazione di stati democratici rafforza la loro coesione. La mancanza di confini interni ha messo radici in maniera così profonda nell’identità del continente che, di fronte all’ipotesi di richiusura delle frontiere, il commissario europeo per gli affari interni D. Avramopoulos ha ammonito: «Se Schengen cessa di esistere, l’Europa morirà». L’Europa senza frontiere è un modello di successo per il tentativo di collaborazione e armonizzazione sovranazionale, oltre che come «spazio di libertà, sicurezza e giustizia» (Trattato di Amsterdam, 1997).

Ma questa è soltanto una parte della storia.

… a Dublino

Il processo di europeizzazione e di eliminazione delle frontiere interne è accompagnato dall’esclusione verso l’esterno. Con la caduta dei confini interni risalta ancora di più il confine esterno. La Convenzione di Dublino[2], che dovrebbe regolamentare la competenza dei Paesi in caso di richieste di asilo, fin dall’inizio è stata «l’ombra restrittiva della libertà di circolazione nello spazio Schengen» (D. Lorenz). Due i pensieri fondamentali della Convenzione di Dublino: da un lato i richiedenti asilo nell’UE dovrebbero essere assegnati a un Paese concreto che ha l’obbligo di elaborarne la richiesta d’asilo; dall’altra dovrebbero ottenere soltanto questa unica possibilità nello spazio Schengen. In sostanza dovrebbe essere responsabile lo stato membro che, rilasciando il visto oppure omettendo di proteggere i confini esterni, ne ha “provocato” l’ingresso nel Paese (e, di conseguenza, la richiesta di asilo).

È chiaro che questo regolamento addossa ai Paesi del Sud Europa la responsabilità dei procedimenti atti ad accertare la legittimità della richiesta di asilo, mentre i Paesi che non si trovano ai confini esterni dell’Unione europea (o che contano pochi attraversamenti irregolari del confine) possono aspettarsi di non rispondere praticamente ad alcuna richiesta di asilo. Secondo questa logica gli stati di frontiera passano addirittura per coloro che hanno causato il caso di asilo: poiché non sono in grado di proteggere le loro frontiere, permettono lo sconfinamento e sono quindi responsabili per il richiedente asilo. Il motivo per cui qualcuno richieda asilo, nella fissazione sull’atto burocratico in sé, risulta irrilevante.

Nella realtà, questa pratica del “costituire una frontiera” (doing border) portò in fretta a un sovraccarico del sistema. I motivi furono tra l’altro che chi cercava asilo non si voleva lasciar imporre in quale Paese presentare domanda, che i Paesi confinanti si rifiutarono dapprincipio di accollarsi la responsabilità del procedimento atto ad accertare la legittimità della richiesta di asilo e che furono portate a termine soltanto poche consegne (espulsioni nel Paese di primo ingresso). Per questi e per altri motivi si è arrivati a delle successive revisioni della Convenzione. Quei due concetti di fondo però non sono stati annullati: fino a oggi la responsabilità nel trattare l’immigrazione verso l’Europa verte sui Paesi sudeuropei e non esiste nemmeno un sistema delle quote – richiesto più volte – di distribuzione dei rifugiati nei Paesi membri.

Diversi modi della gestione dei confini

Mentre il pensiero politico dai tempi di Dublino I è rimasto invariato, nell’organizzazione del “regime di confine” si possono constatare diversi motivi conduttori.

Fin dall’inizio la tutela dei confini è stata legata a strategie di esternalizzazione. Dapprima per la tutela delle exclavi spagnole di Ceuta e Melilla, poi in modo più ampio con il processo di Barcellona, noto anche come Partenariato euromediterraneo, alcuni Paesi del Nord Africa e dell’Africa occidentale sono stati coinvolti nella gestione dei confini esterni dell’Europa. Nonostante molte difficoltà, seguirono dei trattati con il Marocco, con la Libia e con la Turchia. Nel maggio 2016, in cambio di diverse contropartite, la Turchia si impegnava a impedire il passaggio del confine con l’Unione europea da parte di immigrati illegali (soprattutto di rifugiati dalla Siria). Alla Turchia si è chiesto dunque di farsi carico della tutela dei confini dell’Europa: l’attività di controllo delle frontiere è stata spostata dall’altra parte del confine. 

In parallelo a queste strategie di esternalizzazione si è arrivati a una fase di umanizzazione di breve durata: la tragedia del barcone ribaltatosi davanti alle coste di Lampedusa con almeno 366 morti, nel 2013, ha segnato un punto di svolta nella percezione generale, portando in primo piano il salvataggio di vite umane nel Mediterraneo. Politicamente questa fase di umanizzazione ha trovato espressione in Mare Nostrum, un’operazione della Marina militare italiana durata dall’ottobre del 2013 all’ottobre del 2014 nella quale fu data priorità al salvataggio di profughi in mare. La tarda estate del 2015, con l’accoglienza di un gran numero di rifugiati in Germania e in altri Paesi, ha rappresentato il culmine – ma allo stesso tempo la fine – di questa fase di umanizzazione. In questa cosiddetta crisi dei rifugiati si è constatata una crisi dell’Europa, più precisamente il fallimento delle politiche di frontiera, poiché la maggior parte dei Paesi non aveva corrisposto alle richieste di solidarietà.

Seguiva un’ulteriore modifica nella politica di gestione dei confini. Quando si parla di “mettere in sicurezza” le frontiere si intuisce che acquista importanza la tutela (securization) dei confini esterni – e, legata a questa, la promessa di sicurezza per i Paesi dell’Unione europea –, che viene praticata sempre più in termini militari. Ciò si evidenzia, in maniera esemplare, nel cambiamento del dibattito sul salvataggio in mare che, se nella “fase umanitaria” sembrava ancora imprescindibile, da qui in poi viene sempre più criminalizzato.

In che senso intendere il “confine”?

Il “confine” che trova espressione in questa politica è soprattutto delimitazione: lo spazio della libertà e della sicurezza che viene aperto verso l’interno viene difeso verso l’esterno.

L’idea retrostante è quella che ogni spazio d’azione necessita di delimitazioni: così fa anche l’Unione europea, che con la messa in sicurezza dei suoi confini vuole proteggere la propria capacità d’azione politica, il suo ordine. La questione, in sé legittima, diventa però problematica in questa traduzione pratica in termini politici. Da un lato, nei dibattiti che evocano la messa in pericolo dell’ordine non si trova praticamente alcuna motivazione del fatto che l’ordine esistente – e con questo la capacità d’azione – sia effettivamente messo a rischio dall’immigrazione. Dall’altro, ha luogo una fissazione su un solo confine, cioè sul confine esterno dell’Unione europea, mentre in realtà l’azione (politica) sottostà a svariate delimitazioni. Questi vari confini e delimitazioni d’azione vengono però lasciati da parte e la variabilità, l’arbitrio e la realtà dei confini vengono ignorati fissandosi sul solo confine esterno.

La strada che porta da Schengen a Dublino è allora molto più breve di quanto non abbia l’apparenza nella percezione generale. Per la costituzione di una “identità europea” dovrebbero quindi avere importanza entrambe le pratiche, quella della libertà ai confini interni e quella della difesa ai confini esterni. Si deve però tenere presente che non ci sono due continenti, ma soltanto uno; che non ci sono l’Europa di Schengen e l’Europa di Dublino, ma solo quest’unica Europa – e al momento c’è da temere per la sua forza di persuasione come progetto di pace.

Una soluzione della situazione di stallo morale e politico – che dovrebbe comprendere la lotta alle cause per cui si fugge dal proprio Paese d’origine, così come una giusta distribuzione dei profughi fra tutti gli stati dell’Unione europea – sembra però essere impossibile, nelle condizioni politiche date. Nel vicolo cieco politico per cui si darà «una soluzione europea o nessuna soluzione», un intero continente rimane bloccato nell’inazione.

Anche se una soluzione europea al momento sembra essere impossibile, nondimeno la crisi umanitaria richiede già oggi una risposta. Con lo sbiadirsi dei confini interni sono risaltati ancora di più i confini all’esterno e si è aperto un nuovo spazio politico di azione. I confini esterni – ironia della sorte – potrebbero non essere soltanto una parte del problema, ma rappresentare indirettamente anche la condizione di possibilità di una risposta europea comune alla crisi umanitaria.


[1] La messa in pratica di queste idee ancora vaghe si realizzò nella Convenzione di Schengen del 1990.

[2] L’Accordo di Dublino fu sottoscritto dai dodici il 15 giugno 1990 ed entrò in vigore nel settembre del 1997.



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