18/03/2022
506. FRATELLI E SORELLE, INNANZITUTTO! di Jean-Paul Vesco
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Già noto ai lettori di Queriniana, che ne hanno apprezzato non solo i contenuti ma anche lo stile comunicativo, Jean-Paul Vesco è un religioso domenicano francese divenuto nel 2013 vescovo di Orano, in Algeria, e recentissimamente divenuto arcivescovo di Algeri, la sede metropolitana. Nel testo che segue, proprio a partire da questo suo ruolo istituzionale, egli getta uno sguardo sulla necessaria articolazione tra fraternità, da una parte, e paternità, dall’altra. Vesco vede un gioco sottile e intrigante fra le due dimensioni spirituali dell’essere “con” e “per” gli altri nella comunità ecclesiale: un gioco fatto di alterità e di reciprocità al tempo stesso. E lo vede sfociare nientemeno che sulla logica della sinodalità: perché, nella lettura che ne dà l’avvocato parigino divenuto pastore in Nordafrica, il fratello “maggiore” (o il padre, se vogliamo) è colui che «sa seguire il principio d’unità, sa incoraggiare tutti nel modo in cui lo Spirito si esprime attraverso di loro». Accoglienza dell’altro/a e riconoscimento dell’altro/a e dei suoi carismi: per crescere tutti/e insieme, all’insegna dell’azione potente dello Spirito.

Generarsi reciprocamente

La spiritualità della vita religiosa insegna ad essere fratelli, prima ancora che preti. Per quanto mi riguarda, quella spiritualità mi ha plasmato nel profondo, sebbene io capisca bene perché nei seminari diocesani si preferisca insistere sul concetto di “paternità”. Ciò può dipendere, in parte, dal fatto che il ministero ordinato viene associato in maniera molto diretta all’ufficio di cura pastorale: al parroco viene affidato un popolo, del quale egli può considerarsi in qualche modo il padre.

Nella paternità spirituale, intravedo il rischio della deriva verso una relazione simbolica distorta perché troppo lontana dalla realtà della relazione di paternità. Porci come dei padri può alimentare l’illusione che noi, in quanto preti, non abbiamo bisogno di nessuno, essendo noi stessi quella fonte di generatività che ci si attende dal rapporto di paternità spirituale. Il concetto di fraternità spirituale, al contrario, lascia spazio al riconoscimento di una reciprocità salutare e reale, e di un generarsi reciproco che rende vivi anche noi!

È importante non perdere di vista il ritmo naturale della paternità (e maternità) biologica. Nel corso della vita, infatti, la relazione paterna si evolve: nei primi mesi i genitori vengono destabilizzati dall’arrivo del neonato, che scombussola tutti i loro punti di riferimento; segue il periodo dell’educazione, in cui i genitori diventano il modello con il quale il figlio si confronta e in base al quale si costruisce; viene poi un momento in cui si crea un’alterità, perché i bambini sono diventati adulti; infine, arriva il tempo in cui sono i figli a prendersi cura dei genitori. Nella paternità spirituale – spesso fossilizzata al periodo del rapporto educativo genitore-figlio – questo processo umano può facilmente finire oscurato. Ma è soltanto il patriarca che conserva la piena autorità fin sul letto di morte: non così il padre. Il rischio è sempre che la paternità spirituale, in sé una buona cosa, si tramuti in una paternità patriarcale soffocante. La relazione è così sotto la minaccia di una “infantilizzazione” perpetua dell’altro.



Una forma di alterità

Il modello della fraternità spirituale mi sembra più “vero”, nella misura in cui è più aderente alla realtà esistenziale della fraternità umana. In un rapporto di fratellanza si onorano diversi ruoli: il fratello maggiore e il fratello minore hanno un ruolo l’uno per l’altro, che possono evolvere nel corso del tempo e delle circostanze. Nella fraternità si vive inoltre una forma di alterità che ritroviamo anche, ma in misura minore, nella paternità, poiché siamo fratelli e sorelle di uno stesso padre.

L’autorità di un fratello normalmente non è dello stesso tipo dell’autorità di un padre. Non si deve alcunché al proprio fratello o alla propria sorella, al di là della gratitudine per quel che è stato per noi, in quanto nostro fratello o nostra sorella. Non gli siamo debitori della vita, e questo fa una grande differenza.

Come vescovo, allora, io vorrei essere un fratello, sia che si tratti dei preti o delle suore più anziani di me, sia degli studenti. Nel primo caso, mi risulta difficile pensarmi come padre, cosa che mi riuscirebbe più facile con gli studenti. Ma, pure nei riguardi di questi ultimi, mi sono reso conto che quando riesco a presentarmi come un loro fratello nel concreto della vita, si generano, dal punto di vista umano e spirituale, delle relazioni altrettanto o forse anche più forti rispetto a quando mi identificano, in maniera spesso un po’ automatica, con un padre solo in virtù del mio ruolo istituzionale.



Chiamato a essere fratello

Detto ciò, è chiaro che riconosco la realtà e la forza della paternità spirituale. Semplicemente, essa non può essere decisa per decreto e dunque istituzionalizzata. È così che intendo la raccomandazione di Gesù di non chiamare nessuno “padre”. Non si diventa padri a venticinque anni, per il solo fatto di essere stati ordinati al ministero. È questo il motivo per cui, nella necessaria articolazione tra fraternità e paternità, la fraternità viene per prima.

Mi sento profondamente e innanzitutto chiamato a essere fratello, forse a volte un fratello maggiore. Può accadere che questo rapporto divenga in alcuni casi un’occasione generativa, segno di una vera relazione di paternità spirituale. Per quanto mi riguarda, non ho un padre spirituale, ma dei fratelli e delle sorelle con i quali porto avanti un rapporto di alterità e di reciprocità. Tra di loro, alcuni fratelli e sorelle sono stati per me delle figure di paternità o maternità spirituale in qualche momento della mia vita. 

Certamente questo legame tra fraternità e paternità spirituale è sottile. Come vescovo, ho l’impressione d’intrattenere con i preti della mia diocesi una relazione fraterna, ma con un “qualcosina” di diverso rispetto a quando ero un prete tra di loro, o anche vicario generale.

Un anno fa, per esempio, mi sono preso cura di un prete anziano, poi deceduto per covid-19. Con altri membri della diocesi, l’ho accompagnato fino al suo ultimo respiro. Quando andavo a trovarlo all’ospedale per aiutarlo nella cura personale e dargli da mangiare, mi sentivo come se stessi facendo quel che avevo sempre temuto di dover fare un giorno con mio padre, pensando di non esserne in grado. Il mio modo d’essere fratello per quel prete ha consistito nel comportarmi con lui nel modo in cui un figlio si comporta con il proprio genitore, e non il contrario, con tutta l’autorità che può avere un figlio sul padre al termine della sua esistenza.



Principio d'unità

Tuttavia, il fatto che io fossi il suo vescovo, pur restando un fratello, faceva sì che quel “qualcosina” in più ci fosse: entrambi ne eravamo consapevoli, senza bisogno di esprimerlo a parole. Di cosa si trattava? Non saprei dirlo. La finezza di questa relazione non viene resa completamente dal concetto di paternità spirituale, per il quale il vescovo è padre dei “suoi” preti e il parroco è padre dei laici che gli sono affidati.

Il mio ruolo di vescovo, per come aspiro a viverlo io, è di essere quel fratello che sa seguire il principio d’unità, che sa incoraggiare tutti nel modo in cui lo Spirito si esprime attraverso di loro. Il mio modello di chiesa è quello sinodale, come descritto nella Prima lettera ai Corinzi di san Paolo, per cui ognuno possiede dei doni e deve esprimerli, come avviene nel corpo umano che è composto da un insieme di organi, tutti necessari, tutti interdipendenti gli uni dagli altri.

Anche se evidentemente il principio della sinodalità necessita che il cammino si compia “con Pietro” e “sotto Pietro”, poiché la chiesa non è una democrazia nel senso in cui la intendiamo abitualmente, tuttavia bisogna prestare ascolto a tutte le voci. La sinodalità si colloca in questa tensione tra l’orizzontalità della fraternità e la verticalità del principio di unità. L’una non può stare senza l’altra.

 

 

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