È difficile immaginare un modo più delicato e discreto per affrontare il tema della vita e della morte di quello usato da Catherine Chalier fin dal titolo del suo recente Come un chiarore furtivo. Nascere, morire, edito dalla Queriniana nella traduzione di Vincenzo Salvati (Brescia, 2024, pagine 288, euro 33).
A pochi sfugge quanto la questione dell'esistenza, nel suo rapporto con l'eternità, dell'apparire al mondo e dello scomparire, della creazione insomma, appaia centrale nella nostra epoca. Questo pur nel nascondimento generale nel quale tale questione viene tenuta, nell'attenzione posta a sfiorarla appena, mentre costituisce il motivo non remoto di ogni tensione psicologica presente nell'esperienza di uomini e donne calati nella modernità.
L'interrogativo non può essere rimosso, pena l'appannamento se non la perdita della consapevolezza di sé, della cognizione dell'orizzonte nel quale siamo immersi. Nel contempo vita e morte non possono neppure essere prese in considerazione frontalmente, troppo gravi e grandi, decisivi sono i dubbi e le incertezze che le circondano. Ogni fede in Dio, e ogni suo rifiuto, concerne la considerazione che se ne ha.
Chalier trova la misura giusta per affrontare la realtà della morte collegandola strettamente a quella della vita, della quale indubbiamente costituisce una componente più che qualificata, e riferendosi di continuo alla sapienza ebraica, capace di liberarsi di molte pretese razionalistiche che spesso caratterizzano la riflessione cristiana. Indubbiamente il pensiero rabbinico, attento al paradosso dell'esistenza e rispettoso dell'aspetto incomprensibile del divino, si presenta come ilpiù adatto per affrontare pacatamente il processo stupefacente dell'apparire e dello scomparire al mondo di donne e uomini, che seppure attraversano l'esistenza nei modi comuni a ogni altro ente, lo fanno coltivando, loro soli, il dubbio su un possibile altrove, la speranza di una continuità dai contorni indefiniti.
L'eternità alla quale donne e uomini ambiscono ha caratteri inconoscibili, è priva di tempo, governata da un Dio della cui onnipotenza tendiamo a dubitare, mentre non comprendiamo affatto il suo approccio al problema del male, del quale la morte è una costola particolarmente aggressiva.
Molto interessante l'individuazione del concetto proposto da Chalier di "morte propria", ossia di un'esperienza terminale vissuta nella sua forma più luminosa e rappresentata nella formula del “bacio di Dio”, accolto da Abramo come un dono definitivo. Subito però si presenta alla riflessione la realtà storica devastante della Shoah, nella quale la negazione per milioni di persone dell’esperienza di una morte propria diviene scandalosamente evidente.
Soccorre allora il ricorso ai testi di Etty Hillesum, che al centro dell'orrore del lager si impegnava ad aiutare un Dio, evidentemente non onnipotente, a «non morire dentro di lei», offrendo la bontà di cui era capace ai propri compagni di destino, e se possibile un aiuto persino più incisivo viene dagli scritti di Maurice Genevoix, proposti da Chalier nella intensa conclusione del volume. Genevoix, fante francese nella prima guerra mondiale, descrive con attenzione commossa la morte di ciascuno dei commilitoni alla quale fu costretto ad assistere, nel corso di ciò che descrive come «questa specie di farsa demenziale». In questo modo ogni morte conservò la preziosa unicità che la contraddistingueva, pur nelle condizioni disperate nelle quali accade, e non precipitò nell'anonimato che l'avrebbe privata di ogni dignità.
S. Valzania, in
L’Osservatore Romano 27 marzo 2024