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Humanæ Vitæ
Aristide Fumagalli

Humanæ Vitæ

Una pietra miliare

Prezzo di copertina: Euro 11,00 Prezzo scontato: Euro 10,45
Collana: Giornale di teologia 416
ISBN: 978-88-399-3416-1
Formato: 12,3 x 19,5 cm
Pagine: 112
© 2019

Descrizione

Humanae vitae: pietra d’inciampo che ha impedito l’aggiornamento della morale coniugale oppure pietra di confine che ha stabilito dei limiti invalicabili? Superando l’alternativa che ne ha polarizzato la recezione, questo libro interpreta l’enciclica di Paolo VI come una pietra miliare, il cui significato non è quello di congelare la dottrina morale della chiesa, ma di orientare il suo sviluppo.
Humanae vitae dichiara il nesso indissolubile tra la significazione unitiva e la significazione procreativa dell’atto coniugale. A fronte del privilegio solitamente accordato alla significazione procreativa, si recupera qui il valore della significazione unitiva, mettendo poi in luce come l’integralità dell’amore personale sia penalizzata non solo qualora un atto coniugale includa la contraccezione, ma anche qualora l’atto coniugale sia omesso.
Affrontando la spinosa questione del possibile conflitto delle due significazioni nella concretezza della vita coniugale, vengono infine indicati dei criteri per il discernimento di coscienza che i coniugi sono chiamati a operare per incarnare la comunione feconda dell’amore.

Recensioni

Il testo è una presentazione agile e sintetica ma, nel contempo, ragionata e documentata dell’enciclica di Paolo VI Humanae vitae, dei motivi del dibattito che è sorto dopo la sua pubblicazione e di alcune linee di interpretazione acquisite dal confronto con gli studi antropologici. Infatti, l’esposizione e gli approfondimenti offerti sono in grado di evidenziare i rilievi antropologici dei temi dell’enciclica, avendo come orizzonte la vita, le difficoltà e le scelte delle coppie di sposi. L’esperienza di accompagnamento di coppie risuona, al lettore attento, come uno dei punti di partenza da cui muove la riflessione sul testo di Paolo VI, assieme ad altri criteri interpretativi: il riferimento alla costituzione conciliare Gaudium et spes, una specifica concezione del magistero, la luce offerta dall’esortazione Amoris laetitia di Francesco. Innanzitutto, l’enciclica si inserisce in un «dinamismo magisteriale» (p. 14), come evidenziato dal pontefice che, nella sua Allocuzione, fa emergere il «carattere parziale del suo insegnamento» (p. 14).

Inoltre, i due rilievi messi in luce nella presentazione di Gaudium et spes vengono poi riproposti anche a proposito di Humanae vitae: come la costituzione pastorale presenta una prospettiva personalista ma mantiene «ancora un certo finalismo» (p. 30), cosí nell’enciclica è presente un «irrisolto eclettismo tra significazione e finalità procreativa» (p. 31), come emerge dall’uso alternato delle due espressioni. In particolare, in entrambi i testi il significato unitivo sembra essere letto in chiave personalista, mentre il significato procreativo è inteso come finalità.

È a questo proposito che l’A., evidenziando i limiti dell’interpretazione finalista, ritrovata a suo parere nella teoria dell’intenzione (che distingue tra intenzione della cosa che si sta facendo e intenzione ulteriore), propone la necessità di elaborare «una teoria dell’agire morale illuminata dal rinnovamento contemporaneo dell’antropologia, scientifica, filosofica e teologica» (p. 68). Tale esigenza è espressa anche attraverso le parole di Benedetto XVI che sosteneva come «ciò che [Humanae vitae] diceva era valido, ma il modo in cui veniva argomentato non era soddisfacente. Io cercavo un approccio antropologico piú ampio» (p. 52). L’obiettivo è di uscire dal vicolo cieco di far coincidere la procreazione come fine dell’amore coniugale, senza distinguere tra procreazione e attitudine a procreare: si tratta di superare «i limiti del finalismo» attraverso «un’interpretazione simbolica» (p. 87).

La via percorsa dall’A. segue tre passaggi rilevanti, che sviluppando l’uso del termine “significazione”, preferito rispetto a “significato” perché piú vicino al testo originale latino e piú dinamico, approfondiscono il nesso tra la significazione unitiva e la significazione procreativa: mentre la prima «unisce profondamente gli sposi», la seconda «li rende atti alla generazione di nuove vite» (HV 12).

Il primo passaggio consiste nell’affermazione che «non solo l’unione dei corpi, ma anche la loro fertilità biologica dovrebbe essere meglio intesa come espressione simbolica dell’amore coniugale, comunionale, e fecondo» (p. 35): entrambe le due significazioni dell’atto coniugale sono espresse sia nell’unione sessuale che nella fertilità biologica, anziché pensare che la comunione sia espressa soltanto dall’unione dei corpi e la fecondità dall’attitudine a procreare. È in questo che consiste la «connessione inscindibile» delle due significazioni di cui parla l’enciclica: unione sessuale e fertilità biologica esprimono entrambe la comunione dei coniugi e la fecondità personale, che «non sono dissociabili nell’amore coniugale» (p. 36). Quando si afferma che «nell’amore coniugale, infatti, come in ogni amore umano, si riflette il mistero del Dio amore, Uno nella comunione e Trino nella fecondità» (p. 36), l’espressione “come in ogni amore umano” meriterebbe una maggiore fondazione.

Collegato a questo primo passaggio, il secondo elemento offerto per l’interpretazione dell’enciclica è il fatto che Humane vitae vieti di separare le due significazioni e non i due processi biologici, che, come si è visto, esprimono ognuno entrambe le significazioni. Il terzo passaggio consiste nella considerazione dell’espressione dell’enciclica “leggi inscritte nella natura” «non solo rispetto al ciclo della fertilità femminile, ma anche rispetto al ritmo del desiderio erotico» (p. 41), recuperando la presenza delle «fasi dell’erotismo psico-fisico dell’uomo e della donna».

A partire da questi elementi e da una specifica teoria dell’agire umano, l’A. propone alcuni criteri di discernimento per le scelte dei coniugi, che si riassumono nel criterio sintetico offerto per la procreazione responsabile, ossia di «realizzare la maggior fecondità possibile» (p. 94). Tale criterio è maturato a partire dai seguenti elementi: innanzitutto, dalla consapevolezza, come si è visto, che la fecondità dell’amore non si esaurisca nella procreazione; in secondo luogo, alla luce dell’esortazione Amoris laetitia, viene recuperata la centralità dell’affermazione dell’amore che cresce. Nell’atto coniugale, infatti, i due coniugi aggiungono altri significati personali e di vita alle due significazioni di cui parla l’enciclica e, inoltre, la «significazione procreativa non è solamente presente o assente negli atti coniugali, ma può anche andare maturando». Per questo, dal momento che l’agire umano non si esaurisce in una somma di atti, il testo conclude che «un atto coniugale, qualora anche includesse l’uso di contraccettivi, [non] sia moralmente qualificabile nei soli termini di un atto contraccettivo» (p. 85). Se, infatti, «la categoria di “contraccezione” [è] chiara dal punto di vista fenomenico», essa «non è sufficiente e, quindi, adeguata» (p. 86) a indicare il profilo morale di ogni atto coniugale che vi ricorra.

Il volume si distingue per la sintesi e l’agilità del percorso, con la ricchezza interpretativa offerta dagli studi antropologici, con le conseguenti piste di riflessione e ricerca aperte.


F. Pesce, in Studia Patavina 67 (2020) 3, 542-544

Il libro presenta lo sviluppo della riflessione teologica sulla regolazione delle nascite, un argomento che ha agitato la vita della Chiesa soprattutto a partire dall'enciclica di Paolo VI Humanae vitae, del 25 luglio 1968. La Casti connubii (31 dicembre 1930) di Pio XI aveva condannato qualsiasi metodo che privasse l'atto coniugale della sua capacità generativa. L'insegnamento di Pio XII aveva messo in risalto la liceità del ricorso ai periodi infecondi del ciclo femminile per limitare le nascite. Era ancora presente la doppia finalità del matrimonio: la generazione della prole, fine primario; e il remedium concupiscentiae, fine secondario.

Il Vaticano II, nella Gaudium et spes, supera la distinzione tra fine primario e fine secondario del matrimonio. L'intimità coniugale è vista nel grande quadro del sacramento del matrimonio. In esso è impressa l'immagine di Dio, con l'istanza della sua piena realizzazione lungo l'intera storia della salvezza: all'orizzonte si stagliano le nozze di Cristo - l'Agnello - con la Chiesa nello splendore dell'escaton.

Il Concilio tuttavia non ha risolto il problema dei metodi per regolare le nascite, perché Paolo VI lo aveva riservato alla propria riflessione. La commissione scelta dal Papa non diede una risposta univoca: una consistente maggioranza ammetteva, a certe condizioni, la liceità dei metodi artificiali per regolare le nascite, contro una minoranza decisamente contraria. Dopo lunga riflessione Paolo VI, nell'Humanae vitae, ribadì l'illiceità del ricorso a metodi artificiali per la regolazione delle nascite. Egli tuttavia avviò un discorso teologico, coerente con il Vaticano II, che avrebbe avuto in seguito uno sviluppo. L'intervento del Papa suscitò una forte reazione nell'opinione pubblica in generale, e nella Chiesa cattolica in particolare. Si aprirono allora tre itinerari diversi.

Il primo, quasi passato sotto silenzio dal nostro A., crea strutture pastorali per diffondere l'insegnamento sui metodi naturali e per promuovere il cammino interiore della coppia. Il secondo è caratterizzato dal fatto che i vescovi e i confessori vanno incontro alle difficoltà di coscienza di tante coppie. Si parlerà di peccato veniale, di cammino graduale, e di tutte quelle attenuanti che la teologia morale ha scoperto lungo i secoli. Il terzo itinerario stimola l'approfondimento della riflessione teologica, il cui sviluppo è magistralmente disegnato dal volume di Fumagalli. Il richiamo alla legge naturale, che distingue tra fine primario e fine secondario del matrimonio, era già stato superato dal Vaticano II nella Gaudium et spes, che metteva in risalto la «significazione» personale dell'intimità. In questo quadro ci si chiede se essa sia definibile soltanto ed esclusivamente in base all'atto coniugale, o piuttosto non sia strettamente legata all'«insieme» del vissuto coniugale, alla diversità delle sue manifestazioni, all'indole e al cammino della coppia. Si parlerà allora, assieme all'A., della ricchezza «simbolica» dell'unione coniugale. In questa analisi ci viene incontro papa Francesco con l'esortazione apostolica Amoris laetitia.


F. Cultrera, in La Civiltà Cattolica 4078, 406-407

L’encyclique est-elle une pierre d’achoppement pour la morale conjugale ou une borne, repère à ne pas franchir ? Plus de 50 ans après sa parution, l’A. cherche à dépasser cette opposition en montrant qu’elle est une pierre milliaire : une stèle témoin. Sa thèse est la suivante : HV ne rigidifie pas la doctrine morale de l’Église mais elle oriente son développement. De la perception d’un signe de contradiction, il faut parcourir un chemin pour comprendre la richesse symbolique de l’acte conjugal.

Il s’agit d’abord de définir le centre normatif de la doctrine, sa place dans la Tradition et étudier la double signification de l’acte conjugal : prendre conscience d’abord de la coprésence dans un seul acte d’une double signification, de ce qui différencie les deux significations (la finalité procréative suit un rythme cyclique !) et de la dissociation possible entre deux significations anthropologiques et non pas seulement deux processus biologiques. L’explication éclaire les enjeux. Le chap. 5 explicite le « privilège » de la signification procréative en soulignant le caractère illicite de la contraception et licite des méthodes naturelles. L’A. souligne les limites du personnalisme d’HV et l’approfondissement opéré par Jean-Paul ii. Il prend acte du conflit qui existe entre les deux significations et de l’oubli fréquent de la valeur unitive de l’acte conjugal.

Les deux derniers chap. sont originaux et attirent l’attention. L’acte conjugal est exposé dans sa richesse symbolique. À cette lumière sont mises en évidence de multiples significations : l’horizon est élargi au niveau des valeurs en jeu. Il s’agit aussi de rendre compte de la passion érotique présente dans la signification procréative : cet aspect est valorisant. Par ailleurs, le rappel de l’importance de la conscience est bien présent : il devrait s’élargir aux consciences personnelles qui sont appelées à poser un jugement de conscience commun. Est-ce toujours possible ? Par ailleurs, laisser tout à la mesure d’un débat de conscience, c’est perdre un peu la saveur et l’originalité de ce que les autres chapitres déployaient de l’enseignement d’HV.

Des critères de discernement sont proposés pour vivre en vérité la « donation personnelle réciproque ». Le critère fondamental est celui de la foi. Les époux sont appelés à correspondre au dessein créateur de l’auteur de la vie : ce dessein s’accomplit dans la Pâque du Christ qui sauve tout amour. Ce critère n’est pas d’abord pratique mais il permet de garder l’amour conjugal comme une vocation et la procréation responsable comme un acte bon, sans plonger seulement dans la matérialité des moyens. Ce critère peut mener ainsi à la décision responsable de ne pas procréer. Il convient ensuite d’accomplir les actes conjugaux en tant qu’ils expriment cette unité homme-femme : « une seule chair ». Les époux ne peuvent ainsi rien exclure de leur don mutuel de soi. C’est à cette lumière que les époux découvrent parfois le caractère impraticable ou l’impossibilité de vivre l’abstinence de rapports conjugaux. À eux de discerner « pourquoi et comment ». Certains seront amenés à réguler la natalité par une contraception artificielle : une grille de questions peut les aider à évaluer cette décision. L’A. suggère aussi que toute décision conjugale soit prise en cherchant la plus grande fécondité possible.

Aujourd’hui, il est étonnant d’arriver à ce type de critères sans parler de la loi de gradualité. Tout discernement des moyens de régulation devrait s’y référer en gardant à la conscience la loi anthropologique affirmée dans HV et l’existence d’une grâce spécifique du mariage offerte à chaque époux pour cheminer vers le respect commun des significations de l’acte de don mutuel.


A. Mattheeuws, in Nouvelle Revue Théologique 142-1 (2020)

Associo in questa recensione due testi di autori differenti, ambedue famosi e apprezzati cultori contemporanei di teologia morale e in particolare di morale sessuale, perché di fatto accomunati da una ricorrenza (il 50° anniversario della pubblicazione della enciclica Humanae vitae di papa Paolo VI, firmata dal pontefice il 25 luglio 1968), che intendono ricordare e celebrare, ed entrambi apparsi a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro nella ben nota collana di studi teologici «Giornale di Teologia» della editrice Queriniana.

Parto dal volume di Lintner, teologo moralista e docente allo Studio Teologico Accademico di Bressanone, la cui formazione e cultura è però decisamente di area germanofona. Il suo lavoro, suddiviso in due grandi capitoli più una conclusione, ha un taglio principalmente storico-teologico. Nel primo capitolo intende per prima cosa ragguagliare sull’iter che ha storicamente preceduto la redazione dell’enciclica (pp. 19-69), esaminando però non le discussioni tra teologi ante e postconcilio Vaticano II bensì il lavoro svolto da due organismi ecclesiali: 1) la Commissione Pontificia per lo studio della popolazione, della famiglia e della natalità, istituita da papa Giovanni XXIII già nel marzo 1963 e poi confermata e allargata da papa Montini; al termine aggiunge qualcosa anche sui lavori della Commissione episcopale istituita, sempre da Paolo VI, nel marzo 1966 per esaminare il Rapporto conclusivo (più precisamente i 3 rapporti) con cui si erano chiusi i lavori della suddetta Commissione; 2) la Sottocommissione conciliare sul matrimonio e la famiglia, incaricata della redazione della parte della costituzione Gaudium et spes relativa al matrimonio e alla famiglia (nn. 47-52) e le discussioni che anche in tale sede c’erano state circa il problema della regolazione della fertilità, come pure le vicende che avevano caratterizzato gli ultimi giorni di redazione e dibattito conciliare della GS (in particolare i 4 modi, ovvero proposte migliorative, avanzati da papa Paolo VI nella fase finale di stesura dei nn. 47-52).

A completare e impreziosire la panoramica, due brevi ma importanti excursus: il primo (pp. 23-27) sulla antecedente dottrina magisteriale cattolica in materia (a cominciare dall’enciclica Arcanum divinae sapientiae di Leone XIII fino alle allocuzioni pubbliche di Pio XII); il secondo (pp. 45-50) sul «Memorandum di Cracovia» redatto dal vescovo polacco Wojtiła, insieme ad altri teologi, quale contributo ai lavori della Commissione Pontificia di cui era membro.

Nella seconda parte del primo capitolo (pp. 70-87) l’autore si sofferma sulla redazione della enciclica Humanae vitae e ne illustra sinteticamente la struttura e i contenuti. Il secondo capitolo si occupa di altri tre aspetti ugualmente interessanti: 1) l’iniziale reazione alla pubblicazione dell’enciclica, con gli interventi di ben 38 Conferenze episcopali nazionali (però il testo riporta solo qualche stralcio dei documenti dei vescovi italiani, tedeschi e austriaci); 2) la ricezione che in HV si può riscontrare dei nn. 47-52 di GS; 3) la ricezione/rilettura che HV ha ricevuto nei tre pontificati posteriori di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco; circa quest’ultimo, il riferimento, oltre che ad Amoris laetitia, va ai due sinodi sulla famiglia del biennio 2014-2015.

Nella «Conclusione» (pp. 143-168) Lintner traccia un suo bilancio conclusivo e lo fa adoperando espressioni piuttosto forti e radicali, mutuate da altri teologi moralisti tedeschi, in particolare Schockenhoff. Parla, in rapporto alle conclusioni normative di HV, di una «decisione sbagliata» e aggiunge che anche lo sforzo del magistero di Giovanni Paolo II di fornire argomentazioni antropologiche di tipo personalista, in linea con gli orientamenti del Vaticano II, pur apprezzabile, non risulta convincente.

Nell’insieme un testo molto critico, ricco di osservazioni originali ed acute, dove l’autore, non nascondendo il suo rammarico per le decisioni finali del papa ma ancor più per le modalità con cui erano state prese, non ritiene decisivo l’apporto argomentativo wojtiliano e, sul piano etico mette anzi in luce come il magistero di Giovanni Paolo II non tenga sufficientemente conto della complessità del rapporto tra la legge e le situazioni contingenti e molteplici, né dia adeguato rilievo al ruolo della coscienza morale personale in rapporto alla legge.

Differente, e a mio parere più positivo, il secondo testo, quello di Aristide Fumagalli, anche lui docente di Teologia morale alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale con sede centrale a Milano. Già la scelta del titolo è significativa: Humanae vitae. Una pietra miliare, giacché, come si legge nell’«Introduzione» che funge anche da «chiave interpretativa» dell’intero volume, tra le due interpretazioni che hanno visto nell’enciclica o una pietra di confine che ha fissato limiti invalicabili o una pietra d’inciampo che ha impedito l’aggiornamento della morale coniugale, l’autore ne privilegia una terza che interpreta appunto la HV come «pietra miliare, il cui significato non è quello di interrompere, opportunamente o indebitamente, il cammino, ma di orientarlo» (p. 5) verso una migliore ricomprensione della dottrina enunciata.

Il volumetto è suddiviso in 10 brevi capitoli, che, senza ora esaminarli singolarmente, percorrono il seguente itinerario: dopo un’iniziale contestualizzazione dell’enciclica nel momento storico della sua redazione, si passa a mostrare come il suo messaggio si inserisca all’interno di una tradizione precedente che già affermava che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto alla vita; messa poi in luce la novità conciliare in relazione al tema matrimonio-famiglia, consistente essenzialmente in una nuova prospettiva improntata al personalismo, si presenta sinteticamente la dottrina della HV e se ne evidenzia il nucleo dottrinale principale: l’affermazione della inscindibile unità dei due significati, unitivo e procreativo, dell’atto coniugale, letta come l’espressione/applicazione dell’ottica personalista alla questione «regolazione delle nascite». I capitoli dal quarto all’ottavo sviluppano e approfondiscono la riflessione su tale doppia significazione dell’atto coniugale: si rileva che, malgrado l’intenzione personalista, HV ancora privilegia la prospettiva giusnaturalistica e biologistica e si ricorda l’integrazione apportata da Giovanni Paolo II col suo magistero sulla corporeità e l’amore coniugale, i possibili conflitti che possono nascere fra i due significati e i rispettivi valori morali e le vie per superarli, e infine il rischio che, nella proposta dei metodi naturali, si privilegi il significato procreativo a spese di quello unitivo. Il nono capitolo riflette sul ruolo del discernimento della coscienza dei coniugi nella scelta dei comportamenti da tenere.

Nell’ultimo capitolo l’autore indica l’attualità del messaggio di HV e in pari tempo la direzione verso cui l’enciclica apre, anche se direttamente non la percorre. Cito due frasi che mi paiono emblematiche: 1) l’annuncio fondamentale dell’enciclica (la pietra miliare del titolo) «è che la fecondità appartiene alla verità dell’amore… [ne è] una dimensione costitutiva e ineliminabile» (p. 99). Ciò la rende a un tempo tradizionale (perché sempre la Chiesa ha insegnato così) e profetica (per i tanti tentativi e modalità odierni di scindere i due significati, per motivi egoistici, eliminandone uno dei due: una unione coniugale senza generazione o una generazione senza unione coniugale); 2) tale pietra miliare «resta come l’ideale pieno della fecondità coniugale», ma «nella concretezza della condizione storica», ossia nelle concrete, mutevoli e talora imprevedibili circostanze della vita, tale ideale a volte «è solo parzialmente e imperfettamente praticabile ed è affidato alla responsabilità dei coniugi». Ciò è quanto insegna l’Amoris laetitia di papa Francesco che «promuove come criterio per vivere l’intera realtà del matrimonio […] il discernimento pastorale che mira all’individuazione hic et nunc della massima fecondità possibile» (p. 100).

Una prospettiva, a mio modo di vedere, positiva e affascinante, che non legge il singolo intervento magisteriale come qualcosa di concluso in sé, ma come parte di un cammino dove, in presenza di situazioni storiche sempre in evoluzione e in contesti storico-culturali molto vari, la Chiesa, intesa nella sua complessità e nell’interazione tra popolo di Dio, magistero e teologia, gradualmente, ma con crescente lucidità, arriva a discernere le vie giuste per dare risposte adeguate, di tempo in tempo, ai profondi interrogativi del cuore umano.


M. Cassani, in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 46 (2019) 480-483

“Humanae Vitae”. Ovvero, l’enciclica più contestata, difficilmente accolta e ancora studiata per la fermezza di una posizione considerata uno spartiacque. Le pubblicazioni, a tal riguardo, non mancano di approfondire i contenuti di uno scritto avversato con tanta veemenza e difeso con altrettanta passione. 

In questa linea si segnala il lavoro del sacerdote ambrosiano Aristide Fumagalli, “Humanae Vitae. Una pietra miliare” (Queriniana, 2019). Un testo che rientra nella collana “GdT” (Giornale di Teologia), diretta da Rosino Gibellini. 

L’importanza del documento firmato da Paolo VI il 25 luglio 1968 non si può comprendere appieno se non si considera la fatica e la crisi che hanno interessato il Pontefice nel dare alle stampe la sua ultima enciclica. Una decisione presa dopo aver pregato, in solitudine, affinché lo Spirito Santo illuminasse la coscienza in un momento di forte contrapposizione tra due correnti. Infatti il successore di Pietro doveva decidere tra due posizioni validamente argomentate su un tema ancora oggi di scottante attualità. 

Dinamiche ben descritte sinteticamente nel testo di Fumagalli, che ripercorre la genesi della vicenda storica. Avvenimenti risalenti agli anni del Concilio Vaticano II, durante i quali papa Giovanni XXIII istituì una Commissione pontificia per lo studio della popolazione. Ne risultò una posizione di maggioranza favorevole alla legittimazione della contraccezione ed una di minoranza che la negava categoricamente. Anche Paolo VI volle istituire, a tal proposito, una Commissione episcopale per valutarne i risultati. Il tutto fu consegnato nelle mani di Montini, chiamato a prendere la decisione finale. 

La domanda è: come considerare l’enciclica montiniana? Si tratta di una pietra d’inciampo per l’aggiornamento della dottrina nella morale coniugale? Un confine invalicabile? O piuttosto una pietra miliare che indica una direzione sicura? L’autore opta per una terza via e ne spiega il perché richiamando i punti fermi della dottrina cattolica. Il tutto si deve leggere all’interno di una chiamata all’amore a cui i coniugi rispondono generosamente con i propri atti. La dottrina della Chiesa viene collocata alla luce di una visione integrale dell’uomo e della sua alta vocazione. 

Nella stessa enciclica si può leggere che “per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e alla educazione di nuove vite” (HV, 8). Quando essi divengono coppia nasce già una nuova realtà. Lui genera una nuova lei e lei genera un nuovo lui. La novità di vita che la coppia si dà, vivendo in relazione, è espressione di amore. Fumagalli, presentando un capitolo sulla significazione dell’atto coniugale, spiega chiaramente il perché la dimensione unitiva e la dimensione procreativa fanno parte dello stesso atto e non possono essere divise. Per quanto la società ponga innanzi la possibilità tecnica di dividere l’atto, attraverso la contraccezione da un lato e la fecondazione artificiale dall’altro, nella verità dell’unione i due atti non possono essere divisi, pena il non rispettare l’altro come persona. L’enciclica, se letta alla luce degli insegnamenti di Giovanni Paolo II (ricordato anche come “il Papa della famiglia”), assume connotazioni più familiari e comprensibili. Infatti Karol Wojtyla è riuscito meglio di altri a inquadrare la dottrina di “Humanae Vitae” sviluppando i suoi fondamenti teologici e antropologici. 

Insomma, un testo quello di Fumagalli, prezioso per chiunque voglia continuare ad approfondire tematiche di questo genere. In particolare in questo contesto storico, dove le conseguenze di un attacco, inizialmente subdolo ma oggi più diretto, alla famiglia rischia di mettere in crisi quella che, da sempre, è considerata l’architrave della società.


D. De Angelis, in FrammentidiPace.it 8 dicembre 2019

Pietra d’inciampo, pietra di confine, oppure pietra miliare? L’a., sacerdote ambrosiano noto teologo morale, opta in questo suo snello saggio per la terza ipotesi. Humanae vitae, capitale enciclica di Paolo VI, in effetti più che aver impedito lo sviluppo di una superiore dottrina sociale, o di aver posto invalicabili «colonne d’Ercole», ha orientato il cammino successivo delle questioni morali ponendosi come inequivocabile «segno di contraddizione», laddove era in atto, sul finire degli anni Sessanta, la rivoluzione sessuale delle nuove generazioni. Un’enciclica, dunque, che suscitò critiche al suo apparire e che oggi, a distanza di decenni, invita ancora a riflettere sul discernimento della coscienza che i coniugi, chiamati alla loro specifica testimonianza, hanno il dovere di farsi carico.
D. Segna, in Il Regno Attualità 14/2019

Rev.mo Prof. Aristide Fumagalli, Lei è autore del libro Humanæ vitæ. Una pietra miliare edito da Queriniana: a distanza di cinquant’anni dalla sua promulgazione, quale interpretazione è possibile dare dell’enciclica di Paolo VI?
Nei cinque decenni ormai trascorsi, l’interpretazione dell’enciclica Humanae vitae ha visto contrapporsi i due poli di chi la considerava una pietra d’inciampo e chi, invece, una pietra di confine. Humanae vitae è stata interpretata come un’indebita pietra d’inciampo per l’auspicabile cambiamento dell’insegnamento morale della Chiesa, perché l’avrebbe impedito. È stata invece interpretata come una dovuta pietra di confine, perché avrebbe opportunamente fissato il limite che la morale cattolica non può e non deve oltrepassare. Fuoriuscendo dall’opposizione polemica che ritiene l’ultima enciclica di Paolo VI un improvvido o, al contrario, un provvidenziale pronunciamento, oggi si può meglio interpretare Humanae vitae come una pietra miliare, la quale né intralcia, né limita la dottrina morale della Chiesa, ma piuttosto orienta il suo sviluppo, fungendo da riferimento imprescindibile, certo, ma per il suo decorso. Humanae vitae è stata felicemente definita da Jean Guitton, il filosofo francese amico di Paolo VI, un’enciclica ferme mais non fermée.

Quale indissolubile nesso tra significazione unitiva e significazione procreativa dell’atto coniugale dichiara l’Humanae vitae?
Il nesso indissolubile che Humanae vitae dichiara sussistere tra le due significazioni dell’atto coniugale, unitiva e procreativa, riguarda l’unione profonda dei coniugi e la loro attitudine a generare, ovvero la comunione e la fecondità proprie dell’amore coniugale che nell’atto coniugale sono significate. Le due significazioni sessuali non sono sempre presenti negli atti coniugali, ma «secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna». La ciclicità della fertilità femminile fa sì che gli eventuali atti posti in periodo agenesiaco non implichino la significazione procreativa, ovvero l’attitudine a generare, come invece la implicano gli atti posti in periodo genesiaco. Qualora, in relazione al ciclo mestruale femminile, le due significazioni fossero entrambe presenti, la loro connessione è dichiarata da Paolo VI inscindibile, sia sotto il profilo teologico, poiché così Dio ha voluto, sia sotto il profilo morale, perché l’uomo non deve scinderle.

In che modo l’integralità dell’amore personale viene penalizzata qualora un atto coniugale includa la contraccezione?
La contraccezione è la volontaria esclusione dell’attitudine a generare propria degli atti coniugali, qualora essa, in periodo di fertilità, sia presente. L’esclusione dell’attitudine generativa non è semplicemente l’impedimento di una potenzialità fisica, ma una limitazione posta all’amore, che non può raccontarsi nei corpi nella sua totalità. Il linguaggio dei corpi, privato volontariamente della fertilità, non esprime integralmente la reciproca donazione di tutto se stessi da parte dei coniugi. Questa valutazione della contraccezione poggia su una concezione antropologica tale per cui la persona umana è una «totalità unificata» di spirito e corpo. Il corpo non è uno strumento che la persona “ha” a disposizione, ma “è” la persona che si esprime. Il corpo personale è dunque un linguaggio, la cui grammatica esige di essere riconosciuta e rispettata per manifestare l’amore.

Quali criteri possono guidare i coniugi nel discernimento di coscienza che essi sono chiamati a operare per incarnare la comunione feconda dell’amore?
L’amore coniugale è la storia di un cammino a due, insieme chiamati ad amarsi come Gesù ha reso possibile e ha insegnato ad amare, ovvero invitati a dare la vita l’un per l’altro e la loro comune vita ad altri. In corrispondenza a questa vocazione all’amore e alla vita, i coniugi hanno come criterio morale generale quello di realizzare la maggior fecondità possibile, la quale, benché abbia nella generazione dei figli la manifestazione più evidente, si estende a tutta la vitalità che l’amore di coppia comunica, ai due che lo vivono, anzitutto, e a coloro con i quali essi entrano in relazione. In riferimento più specifico alla fecondità procreativa o, altrimenti detto, alla paternità-maternità responsabile, si possono indicare altri tre criteri di discernimento. Il primo e fondamentale criterio è quello di corrispondere alla propria vocazione procreativa, facendo la volontà di Dio nella propria vita coniugale e familiare. La procreazione è la cooperazione all’opera creativa di Dio, la cui volontà è espressa nel Vangelo di Gesù. Uno stile di vita evangelico, secondo i valori della fede cristiana, è la condizione primaria per discernere se sia il tempo opportuno per generare un figlio. Qualora la coppia giungesse responsabilmente a comprendere che non sia tempo di generare un figlio, subentra un secondo criterio, relativo al modo in cui si possa vivere l’unione sessuale senza generare. Il modo privilegiato, raccomandato da Humanae vitae, è quello dei cosiddetti “metodi naturali”, i quali permettono di conoscere i tempi in cui l’unione sessuale non contempla l’attitudine generativa. Qualora, a seguito del discernimento di coppia, questa modalità non risultasse praticabile, un ulteriore criterio riguarda il ricorso alla contraccezione. In termini generali saranno da escludere i mezzi che implicano l’eventualità dell’aborto e da privilegiare quelli che meno influiscono sulla salute psico-fisica dei coniugi (la donna è spesso la più penalizzata) e meno ostacolano la coppia nel vivere la fecondità dell’amore.

In Letture.org 1 aprile 2019



In Letture.org 1 aprile 2019