L’autore, noto filosofo statunitense, proviene da una lunga attività accademica: docente prima di filosofia alla Villanova University in Pennsylvania (1968-2004) e poi di filosofia della religione presso la Syracuse University (2004-2011), continua, anche come emerito, un’intensa attività di conferenze e pubblicazioni. Maggiormente concentrato su temi e autori del pensiero contemporaneo lungo tutta la prima fase del suo insegnamento, si è poi dedicato più direttamente alla filosofia della religione, soprattutto nella fase finale della sua lunga carriera. Il suo percorso di ricerca ha in realtà seguito un filo rosso: dalla fenomenologia husserliana, ancora legata alla potenza intenzionale del soggetto, attraverso l’ermeneutica esistenziale heideggeriana, con la sua capacità di raggiungere il sicuro terreno di un’ontologia forte, egli percorre il sentiero delle critiche all’ontoteologia sino ai suoi epigoni più radicali. Caputo condivide così le istanze di una fenomenologia rovesciata e del ribaltamento assiale soggetto-oggetto, in direzione di una kenosi dell’essere, che si sottrae alla mira intenzionale soggettiva per consegnarsi solo come “evento” di autodonazione; egli sposa al tempo stesso la causa del decostruttivismo con i suoi effetti di deontologizzazione della verità e di disseminazione del senso. Tale percorso filosofico, già inizialmente intriso di questioni religiose, approda all’ultima fase della sua attività accademica nella tematizzazione esplicita di un pensiero più direttamente teologico. Il seme dell’interesse religioso è in realtà già presente in una delle prime opere, dedicata all’elemento mistico nel pensiero di Heidegger (1978: The mystical Element in Heidegger’s Thought), e si è sviluppato nel solco costante della critica a quell’ontoteologia che aveva sempre sostenuto una teologia dell’onnipotenza dell’Ipsum Esse Subsistens (1982: Heidegger and Aquinas). Caputo fa sua la presa di distanza dalla fenomenologia direttamente ontologizzante di Heidegger, soggettivamente autocratica (1993: Demythologising Heidegger), per assumere il rovesciamento prospettico di uno spiazzamento del soggetto nella sua incapacità di dominio di un senso ormai disseminato. Tra i molti autori del panorama filosofico contemporaneo Caputo dichiara così di prediligere Jacques Derrida, per la sua spietata metodica decostruttiva (1997: Deconstruction in a Nutshell. A Conversation with Jacques Derrida) e Jean-Luc Marion per la sua conversione dall’ontologia della verità alla donazione del senso come evento.
Il testo qui esaminato, come già altri testi della sua produzione più recente (da Philosophy and Theology e The Weakness of God. A Theology of the Event del 2006 a Cross and Cosmos. A Theology of difficult Glory del 2019) si colloca all’incrocio tra la prospettiva decostruzionista dell’ermeneutica radicale di Derrida e la svolta teologica della fenomenologia francese di Marion. La radicalizzazione di un immaginario filosofico ancorato al “Dio senza l’essere”, conduce Caputo all’approdo verso una “Teology without God”, rispondente alle istanze culturali postmoderne delle filosofie continentali della “morte di Dio” e ai paradigmi del pensiero debole (After the Death of God, del 2007, con Gianni Vattimo e The Insistence of God. A Theology of Perhaps, del 2013).
In tale orizzonte di pensiero si colloca il presente testo sulla follia di Dio come tentativo di elaborare una “teologia debole”, correlativa alla debolezza di Dio nell’orizzonte della sapientia crucis di cui parla Paolo in 1Cor 1-2: «una teologia dove i teologi deboli sono alquanto spaventati dalle cose elevate e dall’essere troppo inorgogliti, non solo dal sapere, ma anche dal potere» (6). Il fine dichiarato è nobilissimo, collocato nell’orizzonte cristologico della theologia crucis della kenosi del Dio crocifisso, nel solco dell’attestazione paolina. Vediamo se e come esso viene perseguito nello sviluppo dell’opera. Nel primo capitolo viene spazzata via la categoria dell’Essere Supremo, che ha attraversato l’intera riflessione cristiana, cogliendo la provvidenzialità dell’ateismo post-moderno come possibilità di un’autentica riflessione su Dio. Condividendo l’intuizione ana-teistica di Richard Kearney (senza tuttavia citarlo) di una possibilità di ritornare a Dio dopo Dio, di ritrovare cioè una fede più autentica solo per il passaggio antitetico sul terreno dell’ateismo, Caputo dichiara la sua dipendenza da Paul Tillich, teologo da lui molto apprezzato, dal quale mutua la categoria dell’incondizionale (das Unbedingte). Debitore della grande lezione dei mistici, per i quali Dio non può mai diventare “oggetto” di conoscenza o di pensiero, Tillich lo indica come Unconditional o Unconditioned: Colui che non può essere soggetto ad alcuna condizione e che chiede una relazione che non lo vincoli ad alcuna condizione, ne lo racchiuda in alcuna gabbia concettuale, neppure entro la collaudata categoria dell’Essere Supremo. In riferimento a Derrida, Caputo interpreta l’incondizionale divino come l’assolutamente indecostruibile, rispetto al quale l’intero nostro immaginario concettuale, metafisico e metaforico chiede di passare al vaglio di un radicale processo di decostruzione (cap. 2). L’esito radicale di tale processo è l’approdo a una sorta di proto-religione, una religione finalmente “laica”, intesa non come sfera separata dal mondano, ma come profondità raggiunta dall’umano autentico. Il coraggio di Esistere di Tillich e le Circonfessioni di Derrida sarebbero esemplificative di tale disposizione proto-religiosa, nella quale «la distinzione tra teismo e ateismo, teologia e filosofia, fede e ragione, religioso e secolare, s’indebolisce, sfuma e alla fine svanisce» (75). La proto-religione è una fede nell’incondizionale che anima segretamente la vita, al quale si è dato convenzionalmente il nome di Dio (cap. 3). I germi e le spinte culturali in tale direzione operano già in modo potente, cosicché l’autore si chiede quanto ancora durerà la “religione” intesa nel modo tradizionale (cap. 4). Sino a qui la pars destruens – o per meglio dire deconstruens – del lavoro, alla quale segue la proposta di un’assunzione di debolezza. Egli formula un elogio della debolezza (cap. 5) che tocca anzitutto l’Essere Supremo (cap. 6) ed elabora una teologia del “chissà”, una riflessione teologica che non ha più la certezza di un “oggetto” che abbia lo statuto di Ente, di una realtà che e-sista, ma che piuttosto in-sista in tutto ciò che l’umano manifesta di incondizionale nella latenza di atti di “giustizia” sprovvisti della consistenza dell’essere e profetici di messianismo debole, di un’escatologia dell’avvento dell’incondizionale pieno nell’umano autentico, con tutta l’incertezza del chissà, cioè della possibilità del contrario (cap. 7). L’incondizionale, che non esiste ma insiste, si manifesta “chiamando”, muovendo un appello interiore nel cuore della notte (cap. 8). Chi chiama non è Dio se non per convenzione: è il nome del «nostro desiderio che trascende il desiderio per ciò che è incondizionale nelle nostre vite, per ciò che ci chiama incondizionatamente a trasformare le nostre vite» (143). Una teologia così concepita non può essere che una teologia debole, non concettuale, ma metaforica, che meriti il nome di “teopoietica del regno di Dio” (cap. 9), di un “regno di Dio che non ha bisogno di Dio” (cap. 10). A questo punto Caputo esprime a pieno la sua opzione: «Al posto del Concetto hegeliano e del fondamento dell’essere di Tillich, io pongo l’inconcepibile, improgrammabile evento, la venuta di ciò che non possiamo veder arrivare, la speranza in un futuro che ci auguriamo anche non sia un disastro, e una buona dose di incredulità post moderna sul poter dire qualsiasi cosa di più» (169).
Rifiutando di diritto la distinzione tra filosofia e teologia, la sua riflessione si colloca necessariamente in ambito filosofico. La filosofia assorbe e integra totalmente la teologia: si disquisisce e si discetta sul divino a partire da se stessi e dal proprio raziocinio, senza alcun riferimento a una rivelazione, a una qualsiasi fede ecclesiale rispetto alla quale la teologia si determini come atto secondo, teso all’intelligenza dello iam creditum. La teologia sarebbe in tale accezione, non priva di equivocità, un ambito decisivo della stessa riflessione filosofica nel suo sporgersi oltre ciò che la ragione può raggiungere, ma sempre nella pretesa di un controllo razionale che funziona in definitiva come criterio valutativo unico. La teologia è in sé un procedimento “scientifico” che muove dai dati della fede per elaborarne, sotto un controllo metodico, un’intelligenza nell’oggi della storia in cui una chiesa vive e rende testimonianza di Colui in cui ha creduto. Non è la teologia che pone i dati, ma la relazione viva con un Dio che ha parlato ripetutamente e in differenti modi, sino a dire tutto, una volta per tutte, nel Figlio. D’altra parte l’autore stesso dichiara che la sua teologia sui generis non è interessata a Dio, ma all’incondizionale. Il compito è apparentemente nobile: quello di una decostruzione antiidolatrica, che infranga il legame tra il divino e le proiezioni umane di affermazione e di potere, sino alla giustificazione della violenza nel suo stretto nesso con il sacro. La nobile apparenza nasconde tuttavia l’operazione surrettizia di una nuova “costruzione”: quella di un divino anonimo, forse anemico, identificato ai desideri trascendenti dell’umano autentico. Dietro l’accattivante riferimento paolino alla sapientia crucis c’è una nescienza trinitaria: si misconosce la rivelazione del Dio cristiano, diluendone la precisa e nitida identità tripersonale, nell’anonima categoria dell’incondizionale. Tillich parlava del divino come ciò che ci concerne in modo ultimo e supremo (ultimate concern). Das Unbedingte non è il punto di arrivo se non di una riflessione filosofico-religiosa che si apre alla rivelazione del Padre di Gesù Cristo nello Spirito Santo. Tillich non avrebbe mai accettato un pensiero che non mettesse in gioco la compresenza di polarità correlate. Caputo rimuove la polarità e appiattisce il discorso teologico sul versante di una razionalità teosofica, che sviluppa una gnosi negativa. D’altra parte egli stesso dichiara che l’unica eresia per lui inaccettabile è il docetismo (7). Con questo egli intende probabilmente rifuggire dal divino disincarnato delle altezze celesti per abbracciare l’incondizionale divino tutto intriso di mondanità e di umanità nella sua più autentica espressione. Finisce tuttavia per negare al divino uno statuto personale, facendone pura controfigura dell’Autentico, dell’Evento da attendere in modo folle, senza certezze né condizioni. Ma tutto ciò ha un grado di realtà solo possibile: potrebbe deludere. È un “che cosa” posto nella pallida luce del “chissà”: un probabile senza personalità. Che proprio tutto ciò non sia ricaduta in quel docetismo che si cerca di fuggire? Non sembra neppure che rimanga “traccia” (per dirla con Derrida) significativa neppure di quella metafisica oblativa e amorevole dell’atto donativo, con il suo potere saturante, capace di convertire l’intenzionalità soggettiva in umile istanza ricettiva di un’alterità trasformante, così cara a Marion. Carica di stimoli e di fecondità decostruttiva quest’opera aiuta la riflessione teologica a purificare, all’ombra della croce, le proprie operazioni da ogni idolatria del concetto e da ogni brama possessiva dell’oggetto, ma non varca la soglia del sapere teologico, il cui oggetto è identico all’atto effettivo e affettivo del suo consegnarsi per amore a una risposta di fede amorosa, identica a un atto di conversione autentico nel quale si rinuncia ad afferrare per lasciarsi abbracciare. Solo a queste condizioni è riconosciuta al divino quell’identità realmente personale, libera e fedele che la fede biblica complessivamente e distributivamente attesta e che sembra fare difetto al radicalismo della Weak Theology.
L. Bassetti, in
Teresianum 2/2022, 671-675