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Migrazioni e modernità
Emanuele Iula

Migrazioni e modernità

Una lettura generativa

Prezzo di copertina: Euro 16,00 Prezzo scontato: Euro 15,20
Collana: Nuovi saggi 95
ISBN: 978-88-399-0995-4
Formato: 12 x 20 cm
Pagine: 224
© 2019

In breve

«E se scoprissimo che i fenomeni migratori, anziché una reazione a un qualche disagio, sono in realtà la risposta a una domanda ben più profonda?» Emanuele Iula

Descrizione

Questo testo lancia provocatoriamente una sfida che nasce da un ribaltamento di prospettiva. Se si vuole andare alla ricerca di un senso possibile del fenomeno della mobilità umana, è troppo poco limitarsi a sapere se coloro che si spostano hanno un futuro nel Paese d’arrivo. Al contrario, si potrebbe provare a chiedersi se queste persone danno un futuro e dischiudono prospettive alle società in cui giungono. Questo capovolgimento è la chiave di volta che il cosiddetto “pensiero generativo” vuole offrire al dibattito sulle migrazioni.
L’attualissimo lavoro di Emanuele Iula, più che voler essere esaustivo, punta sulla profondità del rapporto che si genera tra i dati raccolti dalle varie statistiche in circolazione e alcune interpretazioni di autori che si sono sforzati di andare oltre i dati, per cogliere un senso diverso e implicito al migrare. Per questa ragione, una delle direttrici seguite è stato il costante tentativo di dialogo con saperi e discipline diverse: filosofia, sociologia, antropologia e, non ultima, la teologia biblica. L’intento può apparire ambizioso. Forse lo è davvero. Ma consente di contribuire al dibattito più ampio.

Recensioni

Il libro Migrazioni & modernità di Emanuele Iula sj, specializzatosi in Etica generativa al Centre Sèvres – Facultès jésuite de Paris con dottorato in Filosofia, nasce da un ciclo di lezioni sul tema del rapporto tra migrazioni e modernità tenuto nell’anno accademico 2017-2018 presso la Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale - Sez. San Luigi (Napoli). È un contributo utile dal punto di vista scientifico su un argomento di grande attualità, trattato ai nostri giorni talora con superficialità o secondo stereotipi e luoghi comuni, che invece merita un approccio fondativo aperto a una visione ampia, il piú possibile condivisibile, capace di interpretare e raccogliere diverse sensibilità e modalità pratiche.

È su questa linea che si pone il lavoro di Iula: un lavoro articolato che viene condotto su piani diversi – biblico, antropologico, sociologico, filosofico e politico – secondo il principio di mediazione in vista di una rigenerazione sociale dell’uomo contemporaneo, per dare un futuro alle scelte di oggi e ai valori in cui crediamo. Nella breve Premessa ai sette capitoli del libro, l’A. anticipa i tre temi di fondo sui quali viene costruito l’intero percorso: l’etica generativa come ipotesi per dare un futuro ai nostri orientamenti sociali a condizione però di rinnovare i legami; il cambiamento di prospettiva nei confronti del fenomeno migratorio, di fronte al quale occorre chiedersi non solo quale futuro un paese riserva a chi entra, ma anche quale futuro e quali nuove prospettive vengano offerte al paese ospitante da coloro che arrivano; l’apertura al non facile tema dell’accoglienza.

Il percorso inizia affermando che, se si vuole comprendere in maniera adeguata il fenomeno delle migrazioni, bisogna avere il coraggio di fare un passo indietro rispetto alla quantità di dati accumulati dalle statistiche e dagli studi di vario genere, per cercare di cogliere il senso del migrare. Gli approcci filosofici e sociologici sono diversi e molto spesso anche problematici, in quanto si avverte che le migrazioni destabilizzano e sollevano questioni di politica pubblica. Occorre quindi osservare il fenomeno da un punto di vista prospettico ‘alto’ che consenta di “fare cultura”, secondo un orientamento simile a quello offerto dalla bussola che indica costantemente il nord come solo e unico dato: «Tutto ciò che ha il potere di destabilizzarci non è necessariamente accompagnato da intenzioni ostili, né distruttive, ma porta con sé il potere di rigenerarci. Senza un minimo di deviazione dalle abitudini acquisite, il progresso sociale non sarebbe possibile» (p. 24).

Tutta la riflessione generativa ruota attorno a un perno che è il concetto di legame: il legame con se stessi, con le proprie origini e con la propria terra. Parlare di generatività significa «parlare della libertà con cui è necessario vivere i propri rapporti con sé e con gli altri» (p. 45). La vicenda di Abramo (“paradigma abramitico”) può essere letta in chiave generativa perché mostra in quale modo entrano in gioco il legame e il decentramento, l’obbedienza a Dio e l’esperienza del triplice distacco (beni, tempo e spazio), l’uscita dalla propria terra (abitudini, regole e attitudini) e il pensare il futuro, l’irrappresentabile. Nella Bibbia ci sono altri racconti di migrazioni (i magi, la sacra famiglia) che mostrano come tutto ciò che «riteniamo essere una certezza inamovibile può essere reso piú elastico» (p. 59); tutte quelle relazioni che sono principio di incertezza possono diventare feconde piú di quelle del passato, se vissute in modo generativo ossia nell’intenzione di accogliere la novità di cui esse sono portatrici. In modo analogo possono essere comprese le migrazioni che hanno segnato la storia del Mediterraneo.

Una pista di interpretazione da sostituire a quella piú comune che cerca le cause che spiegano i fenomeni migratori è quella offerta da Arjun Appadurai (antropologo statunitense di origine indiana): egli propone di esplorare l’articolazione possibile tra mobilità umana e immaginazione, tra il migrare e il legame che l’individuo ha con se stesso, i suoi desideri e le scelte che fa per raggiungere ciò che vuole. Per Appadurai, «le migrazioni costituiscono una sorta di anticamera alla comprensione di un problema piú radicato e piú ampio […] che è quello della ricerca e formazione della propria identità» (p. 88).

L’immaginazione è perciò un «palcoscenico per l’azione, non solo per la fuga» (p. 94). Ma mentre l’etica della fuga fa leva sulla presa di distanza dal presente e non può avere una pianificazione riguardo all’avvenire, il piano dell’azione deve dotarsi di una prospettiva etica ad hoc (etica della scelta) che faciliti la sostenibilità dell’azione garantendone la sensatezza dal punto di vista razionale. Ciò conduce a delle domande importanti: cosa conta di piú per me? «Chi sto seguendo? Dove mi sta portando? Di chi posso fidarmi? Come faccio ad accorgermene?» (p. 101).

Il migrare è un’esperienza; è l’entrare in una vicenda di smarrimento ma anche di dialettica «tra autoctoni e immigrati nel momento in cui questi ultimi prendono effettivamente parte ai processi creativi interni a una società» (p. 119). Ciò richiede chiarificazioni in primo luogo a livello istituzionale (idea di stato moderno e dei suoi poteri in un determinato territorio), in secondo luogo a livello sociale (procedure di cittadinanza, di integrazione, di definizione di identità) e in terzo luogo a livello politico (stato plurale e diritti umani). Per questo occorre anzitutto rimuovere le barriere politiche, sociali e socio-culturali; i muri esistono perché non si accetta che i protagonisti del nostro cambiamento siano persone diverse da noi stessi. Il confronto con il ‘modello abramitico’ invece insegna che l’origine del cambiamento viene da fuori, da una volontà straniera.

Il punto di svolta sta nell’accoglienza che si svolge sul piano della volontà: «Abramo fa proprio, prende su di sé il volere di un altro» (p. 177). In tal modo l’accoglienza diventa generativa perché cede del potere nelle mani dell’altro; destabilizza, ma nel contempo crea le condizioni necessarie alla nascita di un legame che attraversa la frontiera stabilendo un ponte tra chi veniva definito dentro o fuori (cf. p. 184). Dopo aver presentato la figura della “ospitalità assoluta” (cf. pp. 185-191), proposta da Derrida e giudicata “esigente” dall’A. ma non del tutto estranea alla via ipotizzata dalla generatività, e aver considerato “gli abusi dell’ospitalità”, l’ultimo capitolo offre una sintesi del percorso puntando sul tema del “rigenerare la società”. È una possibilità reale che richiede, da una parte, di decostruire la figura del migrante da una griglia di ruoli e di automatismi e, dall’altra, di accettare il decentramento come fase di costruzione di legami importanti per il nostro futuro. Ciò richiede di mettere mano alla propria identità se si vuole essere coinvolti come individui nella rete delle relazioni della nostra vita.

«La vita è una questione di tessitura. Senza legami, non avrebbe senso parlare di migrazione generativa. Non si tratta dunque di sapere cosa farò nel futuro, ma chi è o chi sono le persone che vorrei accanto a me per poterlo realizzare» (p. 221). La prospettiva della generatività con cui guardare il fenomeno migratorio da un punto di vista “alto” e impegnativo – poiché riguarda l’identità del soggetto umano e della società – costituisce il pregio principale del libro di Iula. Si tratta di un contributo utile e costruttivo per un approccio ampio e aperto sulle molte questioni riguardanti le migrazioni.


G. Zambon, in Studia Patavina 67 (2020) 3, 563-565

Il saggio propone un approccio al fenomeno migratorio in un'ottica di 'generatività'. La figura del migrare è lumeggiata sotto più punti prospettici. Il suo senso è colto nel perseguimento dell'identità personale (10-12), e dunque nel «legame con se stessi» (24). Gli «approcci filosofici» (13-18) ne delineano il profilo 'sostanziale' di movimento e dislocazione, discontinuità di riferimenti, precarietà esistenziale; in un «approccio costruttivistico» sono messe in rilievo «le interazioni fra soggetto e situazione»; vi emerge, inoltre, «il tema della conflittualità sociale» e si configura una «aporia sociale» per la «impossibile coesistenza, all'interno di una medesima società, dei membri di culture differenti». In prospettiva sociologica (18-22), il fenomeno migratorio è visto caratterizzato dallo spostamento, nelle sue variazioni e combinazioni di spinta e di attrazione, fino alla figura del turista e dello studente universitario all'estero.

Il nodo problematico è individuato nel disorientamento provocato dall'ingresso dell’‘altro’ e dalla conseguente obsolescenza delle mappe culturali abituali. Peraltro, fra destabilizzazione degli equilibri stabiliti e progresso sociale è posto un nesso. Si tratta, pertanto, di «esplorare il modo in cui le migrazioni rigenerano la società» (24).

L’assunto è svolto in quattro passaggi con intermezzo. In apertura il richiamo al riferimento biblico ripropone le figure usuali di Abramo e della santa Famiglia, con l'aggiunta inusuale della figura dei Magi (29-59). In particolare, la valenza paradigmatica riconosciuta al migrare di Abramo quale prototipo di migrazione generativa poggia sulla categoria del 'decentramento': il suo migrare è nel segno della promessa, che ne fa uomo sbilanciato su possibilità che non può anticipare nella forma definitiva (26s).

È, quindi, a tema il movente del migrare. Sulla scorta dell'antropologo di riferimento, A. Appadurai, il suo scavo ruota attorno al rapporto di mobilità umana e immaginazione. L'asse si sposta decisamente sui fattori di attrazione, con una messa in pausa dei fattori di spinta, giusta la tesi di Appadurai per cui «l'immaginazione è oggi un palcoscenico per l'azione, non solo per la fuga» (94). Al fondo è all'opera il nesso identitario del soggetto con se stesso e si fa sentire la "fessura" ontologica (83), di ascendenza sartriana, della non coincidenza con sé. L'immaginazione assume valenza di «prassi generatrice di differenza» (90). La circolazione virtualmente illimitata di modelli di vita appariscenti e appetibili, amplificata dalla rete globale e dalla moltiplicazione delle connessioni, rafforza la capacità di presa sul soggetto da parte dell'immaginare il poter-essere-altrimenti, con la conseguente messa in movimento delle persone. D'altro lato, la libertà di movimento delle persone è di fatto sottoposta a limitazioni sul piano politico. Nella modernità globalizzata aumenta la sproporzione fra proliferazione di modelli di vita e controllo tendenzialmente rigido della mobilità. Invece di alterità da incontrare si hanno differenze da controllare. Entra in gioco, per dirla ancora con Apparudai, «il controllo tassonomico della differenza» (76). Su questa scia si impone il passaggio dal paradigma dell'altro, alla Lévinas, al paradigma del differente da decostruire. Si fa avanti la categoria della 'decostruzione', ripresa da J. Derrida: nel senso di rendere inutilizzabile la differenza "straniero/autoctono" (81). L’immaginazione assume valenza politica: non si lascia bloccare da confini, dogane, frontiere, soglie, ma passa da un lato all'altro di un confine nazionale. Emerge la figura di politica post-nazionale: a politiche interne di benessere non possono che corrispondere politiche estere di accoglienza di quanti si sentono attratti dal modello locale (90-93).

L’apologo narrativo costruito sulla fiaba I quattro musicanti di Brema dei fratelli Grimm costituisce l'intermezzo. Il messaggio è ricapitolato nella categotia heideggeriana della Geworfenheit, intesa come un «essere-gettato da un fuori verso un dentro» (123).

Il passo successivo intercetta il punto d'arrivo del migrare. Ci si imbatte nelle «cose e persone che non si muovono affatto, almeno all'apparenza» (126): in sostanza l'istituito, nella duplice modalità dell'ordinamento giuridico e dell'ordinamento culturale. Il primo profilo riporta allo Stato moderno di diritto. La sua configurazione è totalmente debitrice del positivismo giuridico di H. Kelsen. In particolare, la cittadinanza risulta non «dato politico naturale» ma status personale regolato dal diritto positivo e dunque dallo Stato (137s). Per dire del plesso culturale è assunta, ancora da A. Apadurai, la categoria di 'località': risultante della triangolazione di immediatezza sociale, interattività e relative tecnologie, relatività dei contesti (141ss). La 'località' produce appartenenza, di cui mantiene il controllo degli accessi. Cittadinanza e appartenenza costituiscono la variabile territoriale. Nella rinegoziazione della propria identità il migrante mira ad ottenere pieno riconoscimento nello Stato di arrivo su entrambi i livelli, di cittadinanza e di appartenenza sociale effettiva. Accantonate le illusioni di integrazione, assimilazione e simili, si affaccia la prospettiva transnazionale: «interazioni e legami che uniscono persone e istituzioni attraverso i confini degli Stati-nazione, connettendo così le società di origine con quelle di insediamento» (155). Tuttavia, poiché il rapporto al territorio non è da banalizzare, sorge l’interrogativo del numero di territori con cui mantenere contestualmente legami significativi. In simile situazione, ultimamente conflittuale, l'etica generativa si pone come questione della trasmissione di un patrimonio culturale, da parte sia di chi resta fermo sia di chi si sposta.

A seguire, sono a fuoco le dinamiche indotte dalla mobilità umana. L’ingresso dell'altro, lo straniero, che chiede spazio, e l'impatto di un mondo di vita su un altro smuovono resistenze e sollevano barriere, nel modo di frontiera, confine, soglia. Ma frontiera, confine, soglia sono anche «zone di passaggio che rendono possibile l'accesso dal fuori al dentro» (180). La categoria di «ospitalità assoluta» (185ss), ripresa da Derrida, in sintonia con la figura di «stato d'eccezione» (188) elaborata da G. Agamben, è fatta entrare in campo per dire di una accoglienza che si pone nella linea della 'generatività'. Su questa scia si attiva un «processo di transizione da una forma di sé e di rapporto con l'altro già conosciuta a una forma che non è bene definire a priori» (200). La corrispondenza di «ospitalità assoluta» e istruzione implicata nell'episodio evangelico della distribuzione dei pani in Gv 6 tiene il punto sullo stato del migrare: decisiva è la disponibilità personale a vedersi temporaneamente espropriato di qualcosa che per il soggetto è essenziale, come il controllo di casa propria (201ss).

Il finale ricapitola in chiave di 'etica generativa' la disanima fin qui condotta sul filo della 'decostruzione' del migrare. Inizia distinguendo fra loro le figure di «generazione» e «rigenerazione», connotate in termini di processi di produzione rispettivamente «esogeno», nel senso che «mette fuori di sé il suo prodotto finale» (205), ed «endogeno», nel senso che «non dà luogo a un prodotto esterno e oggettivabile in un nuovo essere» (207). In entrambi i casi gioca un suo ruolo la memoria, che assicura la continuità nella novità. Al «dissodamento sociale» operato dalla 'decostruzione' (213) segue la 'generatività': questa «raccoglie il lavoro della decostruzione nel momento in cui occorre ripensare la struttura sociale a partire dai legami su cui essa si fonda» (212). Si apre, quindi, un dittico: sul versante del 'generare', la figura del migrante, chiamato a vivere in prospettiva intergenerazionale la propria esperienza; sul versante del 'rigenerare', il cittadino autoctono, provocato al 'decentramento', nel senso di «anteporre il vantaggio di un altro che verrà al proprio che già c'è» (213) e di cogliere nelle migrazioni una forza di rigenerazione sociale, per cui «il futuro non è più una proiezione del presente, ma novità anch'essa da accogliere» (218). Perché questo accada, è necessario il passaggio intermedio del "lutto" (220), in una elaborazione della irreversibilità della situazione. Su questo sfondo, la speranza appare «figlia del decentramento» (221). Questo lo sguardo sul migrare alla luce della 'generatività'. La figura coniuga 'legame' e 'novità' e intende un «legame all'insegna della novità» (209), con riferimento all'individuo ma anche e soprattutto alla società. La ricognizione si avvale di una «bussola» (23.81), che segna il «nord generativo», «i legami interpersonali, il modo di favorirli e di rinnovarIi» (82). Nel mirino è non tanto «come deve essere la società di domani» quanto invece «come deve essere la matrice sociale, culturale, politica in grado di dare alla luce la novità che tutti aspettiamo» (205). Su questa scia, la figura di 'etica generativa' dice capacità «di aprire scenari innovativi per la società di domani» (204). Il migrare ne è momento decisivo.

Nel fitto delle figure e dei richiami che si rincorrono lungo la narrazione, più di un passaggio sollecita attenzione. L’arruolamento dei Magi nel campo dei migranti (47ss) suggerisce un'estensione della figura del migrare che ha come indotto una sua estenuazione d'intensità. Suscita perplessità la Geworfenheit heideggeriana intesa lungo l'asse dentro/fuori e come spostamento da un 'fuori' a un ‘dentro' (123). L'opposizione a quanto sembra reciprocamente escludente di 'bussola' e 'mappa' (23.81) suona stravagante: la bussola non è uno strumento più semplice, la mappa è sempre mappa orientata o da orientare, l'orienteering non è senza contestualità di bussola e mappa. La coppia 'esogeno'/‘endogeno' dice l'origine di un processo e non il suo esito (205). Che sia «ontologicamente prioritario» il «generante» rispetto al «generato» (206s) appare discutibile: l'uno non si dà senza l'altro, e viceversa. La continuità di 'decostruzione' e 'generatività' (211ss) è da sondare nella sua rispondenza alle pratiche derridiane. L’adozione come spunto risolutivo della figura derridiana di 'ospitalità assoluta' (185ss) non reca traccia del dilemma, pure derridiano, di "ospitalità incondizionata", che va al di là del diritto, e "ospitalità condizionata", circoscritta dal diritto e dal dovere, e non si cura dell'antinomia non dialettizzabile tra la legge e le leggi dell'ospitalità, pure presenti in Derrida.

In sintesi. Nel quadro della discussione su 'migrazione', fra i tre modelli di approccio frequentati nella letteratura e nel dibattito pubblico: assistenziale/pauperistico, provvidenziale, di giustizia sociale, il saggio sposa decisamente la figura provvidenziale. Al limite, si affaccia una visione postulatoria della migrazione: se non ci fosse, sarebbe da provocare, in vista di un rinnovamento/rigenerazione della stanca modernità occidentale. Quanto ai moventi del migrare, aspirazione a vivere meglio e necessità di sopravvivere, pull/push, 'attrazione'/‘spinta', il peso maggiore, e di fatto preponderante, è attribuito ai fattori di attrazione: in ultima analisi, la figura del profugo e del rifugiato sfugge in penombra. La frequentazione del riferimento biblico si muove in modo alquanto disinvolto e con andamento tendenzialmente allegorizzante: l'assegnazione di valenza paradigmatica passa a margine della fatica di rideterminare il messaggio biblico nelle condizioni storiche attuali e viceversa. Fra i due gruppi umani coinvolti nel fenomeno migratorio, il migrante e l'autoctono, il baricentro cade sull’‘altro’, sul migrante: è sintomatico che, a proposito di Abramo, non vi sia traccia delle sue negoziazioni con gli abitanti del luogo. Restano ultimamente in sospeso, o, se vogliamo, aperte, le coordinate del fenomeno migratorio: la temporalità, con il suo intrico di presente, passato, futuro, appare progressisticamente assorbita nel futuro “a venire", con sintonie derridiane; l'abbandono della mappa e l'esclusiva assegnata alla bussola e al suo “nord generativo" lasciano in ogni caso impregiudicata l'esigenza che punti di riferimento sono sempre da rintracciare e scenari sono da 'inventare' nel duplice significato del termine, sempre sul terreno, e dunque tenendo conto dei posizionamenti dei gruppi umani e delle culture. Il fenomeno migratorio non lascia le cose come prima: ma che nella storia non si resta fermi e non si ritorna indietro è lezione antica e sempre nuova. La pubblicazione si segnala per un dispiegamento sofisticato di strumentazione concettuale e per un massimalismo sottotraccia: con tutto questo, tuttavia, non si registra un incremento significativo del dibattito innescato dal migrare.


B. Seveso, in Teologia 1/2020, 141-143

Confrontarsi col tema dell’emigrazione non è mai cosa semplice, perché gli interrogativi su questo impegnativo argomento risultano essere sempre molto pregnanti; ed a volte anche fuorvianti. Occorre analizzare sicuramente, con attenzione e senza pregiudizio, le innumerevoli motivazioni che spingono donne e uomini a spostarsi dai propri paesi di provenienza ed affrontare viaggi non sempre sicuri. Ma occorre pure chiedersi quale contributo offra loro la nostra società, oltre che interrogarsi entro quali prospettive analizzare il contributo offerto ai migranti nell’attuale contesto sociale, politico ed economico europeo. Occorre viaggiare sul filo della reciprocità reciprocante, perché «è un lemma che richiama un dinamismo in cui vi è un qualcosa che va avanti e indietro, uno scambio, una donazione reciproca, una sorgività e una destinazione intenzionale» (Antonio Bergamo, Levinas e la curvatura dello spazio intersoggettivo, Roma, Città Nuova, 2018, p. 131).

Un interessante apporto a questo “viaggio” di conoscenza ce lo offre il recente lavoro di Emanuele Iula, gesuita di origini romane e docente di etica e di mediazione dei conflitti a Napoli, presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Sezione San Luigi. Nel suo volume Migrazioni & Modernità. Una lettura generativa, edito per Queriniana, lancia «provocatoriamente una sfida che nasce da un ribaltamento di prospettiva. Se si vuole andare alla ricerca di un senso possibile del fenomeno della mobilità umana, è troppo poco limitarsi a sapere se coloro che si spostano hanno un futuro nel Paese d’arrivo. Al contrario, si potrebbe provare a chiedersi se queste persone danno un futuro e dischiudono prospettive alle società in cui giungono. Questo capovolgimento è la chiave di volta che il cosiddetto “pensiero generativo” vuole offrire al dibattito sulle migrazioni» (dalla terza di copertina).

L’autore, sin dalle prime pagine del testo, invita il lettore ad affrontare un’attenta riflessione sulla identità del migrante, per avere chiaro l’obiettivo umano, teologico e pastorale per la definizione di un profilo pedagogico che non induca a idee fuorvianti: «Per cogliere il senso del migrante non basta interrogarsi sulle cause, siano esse prossime o remote. Occorre uno sguardo ulteriore, cioè capace di andare oltre. Per strutturare meglio la nostra intenzione di cogliere l’orizzonte più ampio entro cui le migrazioni si stagliano avremo bisogno di un percorso che permetta di entrare nel merito di una domanda non legata a contingenze, ma che non fa altro che esprimere qualcosa a cui ogni essere umano è sensibile: la propria identità» (pp. 11-12). Identità che dialogano, identità che si interrogano, identità che reciprocamente sono fonte e motivo di conoscenza, generano rapporti nuovi che muovo oltre i dati, i numeri, le statistiche, i confini, le differenze religiose e sociali.

Il volume di Iula è molto utile allo studio delle migrazioni con lo sguardo nuovo della “lettura generativa”; il testo ‒inoltre ‒apre interessanti riflessioni anche se, come lo stesso autore dichiara in premessa, «più dell’esaustività abbiamo puntato sulla profondità derivante dal confronto non solo con i dati raccolti dalle scienze sociali, ma anche con alcuni autori che, spingendosi oltre i dati, si sono sforzati di cogliere il senso del migrare come tale. Per questa ragione, una delle direttrici del nostro modo di procedere è stato il costante tentativo di dialogo con saperi afferenti a sfere disciplinari diverse: filosofia, sociologia, antropologia e, non ultima, la teologia biblica. L’intento può apparire ambizioso. Forse lo è davvero. Questo non ci impedisce tuttavia di contribuire al dibattito più ampio» (pp.6-7).

Sette intensi capitoli che scandiscono la riflessione dell’autore e inducono ad una rinnovata ricerca di senso sul concetto e sull’idea di migrazione nella società moderna. Ma cosa si intende quando si afferma che occorre una lettura generativa del fenomeno migratorio, quali sono le prospettive sulle quali tentare un approccio costruttivo? La risposta ci viene offerta dall’autore stesso a conclusione del percorso generato dalla sua ricerca: «L’invito dell’approccio generativo è di superare la tentazione di giudicare l’incompiutezza che determinati viaggi possono assumere, soprattutto quando non portano ai frutti desiderati agli occhi di chi li ha vissuti in prima persona. Da un lato bisogna interrogarsi sulla legittimità delle aspettative che c’erano all’inizio. Dall’altro, c’è l’aspetto dell’intergenerazionalità. L’implicazione per il migrante è duplice. La prima è l’aver stabilito che si ha l’intenzione di tessere un legame con un certo luogo. La seconda è che per vedere davvero i frutti più compiuti di un viaggio occorre aspettare la ricezione che, di tutta la vicenda, verrà fatta dalla generazione successiva» (pp. 214-215).

Pur essendo pienamente consci, tra l’altro, che «la gestione di una mobilità compatibile con un umanesimo del XXI secolo è complessa» siamo anche convinti che le «nuove forme di migrazione già adesso sconvolgono le regole del gioco» (Catherine Wihtol de Wenden, Il diritto di migrare, Roma, Ediesse, 2015, pp. 67-68). Torna, allora, in gioco la riflessione iniziale ‒di carattere prettamente antropologico e teologico ‒ sulle identità reciprocanti per rammentare che «[l]a vita è una questione di tessitura. Senza legami, non avrebbe alcun senso parlare di migrazione generativa. Non si tratta dunque di sapere cosa farò nel futuro, ma chi è o chi sono le persone che vorrei accanto a me per poterlo realizzare. Nella misura in cui si comincia a dare una risposta a questa domanda, il lutto è finito si può finalmente tornare a vivere con pianezza» (p. 221). È questa l’idea in cui Emanuele Iula ci invita a sperare.


P. Manca, in Studi Emigrazione 218 (2020) 324-326

Quando un tema è particolarmente scottante, è facile trovare libri che ne parlano con diverse prospettive, con risultati finali tra loro molto discordanti. Accostare le persone che emigrano, quelle che abitano i Paesi che li fanno entrare nei loro confini, attraverso la parola «generatività» è assolutamente affascinante e fecondo. Vuol dire, infatti, desiderare affrontare un qualcosa, abitualmente trattato come un problema, come un fattore positivo e propulsivo per costruire la nuova umanità di cui tutti, magari in maniere divergenti, sentiamo il bisogno. «Uno dei nodi cruciali che vive la nostra epoca è la domanda sulla sostenibilità. L’etica generativa fa suo questo interrogativo chiedendosi: di cosa abbiamo bisogno affinché le cose che ci stanno a cuore abbiano un futuro? Come è possibile dare un futuro alle nostre scelte, ai valori in cui crediamo, agli orientamenti che vogliamo imprimere alla società in cui viviamo? La pista che la generatività prova ad aprire ipotizza che un modo per fare tutto ciò è rinnovare i legami, cioè le condizioni basiche del nostro vivere insieme» (p. 5). Potrebbe succedere che alla fine del nostro domandare si scopra che siamo noi ad avere bisogno di legami nuovi e che rinnovino la nostra vita.

Possono essere un dono le persone che arrivano nei nostri Paesi? È una domanda che sta a monte di come, dove e con quali risorse accogliere. Ed è per questo che il lavoro di Iula è totalmente privo di cifre: è come se si domandasse se strutturalmente l’umanità abbia bisogno di gente che parta, che si decentri, che scopra nuove traiettorie dell’esistere; e se è bene che ci sia sempre chi accolga, in modo incondizionato. Le figure bibliche riportate all’inizio sono decisive in questa direzione: Abramo scopre, partendo e lasciando la sua terra, qual è la prospettiva (aperta a infinite generazioni) che Dio gli propone; i Magi realizzano i loro desideri seguendo la stella e tornando a casa loro per un’altra via; la Sacra famiglia scopre di dover custodire il bambino e scopre di doversi stabilire a Nazaret, periferia della storia.

È interessantissimo leggere perché la gente parte, oggi; vi è un innesco esistenziale, l’immaginazione (moltiplicata dai media) che potrebbe essere tradotta così: mi sposto perché ho saputo che... È «una scintilla che provoca un cambiamento a partire dal materiale infiammabile dell’insoddisfazione percepita nella propria vita. L’insoddisfazione è generativa perché introduce una differenza e quindi una pista di possibile rinnovamento di sé» (p. 71). Il paradosso è che la modernità globalizzata produce questa scintilla che è l’immaginazione, ma poi spende quasi ogni sua risorsa a impedire questa mobilità.

Lo spostamento necessario è passare dai beni (i veri produttori dell’immaginazione) ai legami interpersonali che sono creati da chi si sposta, fino a riflettere sul fatto che le migrazioni sono «una sorta di anticamera alla comprensione di un problema più radicato e più ampio […] che è quello della ricerca e della formazione della propria identità» (p. 88). Ciò che è totalmente altro può essere il fattore decisivo per capire chi sono, esattamente come Abramo, che «è generativo perché si fida di Dio e investe tutto su questo rapporto, non su ciò che otterrà in termini di ricavi o benefici» (p. 100). Queste prospettive si incontrano (o scontrano?) con la sovranità in ogni sua forma e con la grande conquista dei diritti inviolabili di ogni persona. Non si resta umani, non si genera una nuova umanità solo con leggi o uso della sovranità: la compassione non può essere imposta dall’ordine costituito. Ma possiamo sperare che lo Stato e i diversi poteri locali possano spendere al meglio le loro, sempre limitate, risorse per politiche capaci di far fiorire e crescere ogni uomo.

Che sia una sfida ardua lo testimonia il crescere di barriere che ostacolano l’accoglienza e la generatività delle società. Bisognerebbe, però, ragionare sul fatto che nella storia dell’uomo, ogni volta che si è eretto un muro, sono nati ulteriori problemi e difficoltà. Sarebbe anche utile prendere in considerazione come il conflitto faccia parte delle società plurali e che i sani conflitti aiutano a demolire strutture dannose per la fioritura dell’umano. Bisogna saper valorizzare le differenze nell’incontro con l’altro; per questo il sostantivo «frontiera», che racconta di uno stare di fronte, può aiutarci a superare fratture al momento concepite come insanabili.

Partendo da ipotesi estreme sull’accoglienza, in particolare attinte da Derrida, Iula propone, in qualche modo, di istituzionalizzare l’esperienza sempre destabilizzante dell’incontro con l’altro, del cedere parte di me a chi incontro. Istituzionalizzare sarebbe anche utile per dare il tempo alla società, finalmente proiettata verso la generatività, di completare i processi iniziati, anche solo a opera di singoli. Far nascere la nuova umanità richiede tempo; richiede anche una apertura della mente e del cuore che (ed è forse questo che rende il lavoro di Iula eccessivamente marginale ma ancor più affascinante) oggi non troviamo nel mondo.

Sperare, scrive il nostro autore, è tendere la mano (cf. p. 221). Oggi ci insegnano a chiuderla. Ma la vita è una tessitura di legami; «non si tratta di sapere cosa farò nel futuro, ma chi è o chi sono le persone che vorrei accanto a me per poterlo realizzare» (p. 221). Se vogliamo davvero pensare altrimenti sui fratelli che arrivano in Italia, il libro in questione è assolutamente necessario.


M. Prodi, in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 46 (2019) 487-489

Il grande tema della migrazione moderna viene affrontato attraverso la ricerca del senso che può avere sia per il migrante che per l’autoctono, in una prospettiva filosofica in dialogo con le altre discipline. La ricerca della propria identità è l’istanza a partire dalla quale viene fatta una suggestiva rilettura della migrazione di Abramo, insieme a quella di altre migrazioni presenti nella Bibbia. Si offre così l’esempio di un modo generativo di affrontare il tema, capace di aprire nuove prospettive, come quella di mostrare che l’accoglienza dei migranti può costituire una prospettiva di rinnovamento sociale, piuttosto che un problema per le società di oggi.
L. Bosi, in Il Regno Attualità 20/2019

Questo saggio si interroga sulla possibilità che qualsiasi tipo di spostamento contribuisca allo sviluppo dei paesi in cui giungono i migranti.

L’autore evoca la lezione di Abramo, padre spirituale dei migranti di oggi, il cui migrare verso una terra ancora sconosciuta gioca il ruolo di mediatore per la sua discendenza. La terra promessa non va intesa allora come una terra vera e propria, ma è pensata per modellare l’uomo al fine di renderlo recettivo verso quello che Dio gli dà. La fiducia in Dio si genera mediante l’atto stesso del migrare. Migrano i Magi, uomini di scienza, che con il loro viaggio realizzano un incontro fra visione scientifica e visione teologica. Migra altresì la sacra famiglia, fuggendo da minacce di morte: non ci si può confrontare con un uomo che non si è all’altezza di affrontare. Nel nuovo palcoscenico dell’immigrazione, se Dio dialoga con un uomo in viaggio, questo ha un valore simbolico, dal punto di vista sociologico, antropologico e filosofico.

Da un lato trovarsi in un luogo diverso dal proprio cambia la prospettiva; dall’altro la presenza dello straniero altera spesso l’ordine costituito delle cose. Un incontro con la diversità implica il rischio di un’incomprensione reciproca. Occorre quindi una mediazione da parte dello Stato. Questo ha il dovere di garantire l’identità di ciascuno e uguali diritti per tutti i cittadini. Se questo non avviene si ha una situazione di conflitto, ossia di un pluralismo difficile da contenere. L’accoglienza è comunque alla fonte di un rinnovamento della società. Tuttavia la violazione dell’ospitalità, in quanto un’entrata troppo massiccia dell’altro nella propria casa rischia di causare uno stravolgimento delle abitudini di vita, provoca spesso una reazione di difesa e di chiusura.

Di fronte a queste complicazioni, come riuscire a rigenerare la società? Attraverso un momento di riforma di sé. Nella misura in cui la società aumenta mediante la presenza di stranieri si rigenera e rinasce a nuova vita aprendo le porte al futuro e alla diversità.


T. Meldolesi, in Rocca 19 (1 ottobre 2019) 62

L’autore nella Premessa spiega la nuova prospettiva, chiamata “generativa”, con cui affronta il tema migratorio: invece di chiederci se coloro che si spostano hanno un futuro nel Paese d’arrivo, chiederci se, con il loro migrare, offrono prospettive nuove alle società in cui giungono.

Si parte dagli aspetti rischiosi che caratterizzano la migrazione: partire, attraversare, spostarsi... con le inevitabili peripezie, talvolta estreme, da affrontare, senza la certezza di punti di riferimento sociali, di affetti, con diversità di linguaggi e la provvisorietà a cui la vita è esposta. Ma la possibilità di avere punti di orientamento socio-urbanistici stabili, il buon rapporto con la comunità ospitante, pur con la diversità culturale, possono valorizzare le interazioni tra migranti e comunità accoglienti.

Risalendo poi ai motivi che possono indurre alla migrazione si pone in primo luogo quello del lavoro: la ricerca, anche di un lavoro temporaneo, spinge migranti irregolari, cioè privi di documenti o di permessi per attraversare le frontiere. Ci sono poi migranti che richiedono asilo e protezione da violenze, da catastrofi ambientali o ecologiche; altri per ricongiungimenti familiari. Di fronte a tali situazioni l’autore prosegue sottolineando che occorre superare le abitudini acquisite ed aprirsi ad una visione di “scambio” per il vantaggio di tutti.

Si tratta quindi di una “rigenerazione sociale”, tenendo presente che è proprio Abramo, con la migrazione verso un paese a lui sconosciuto, a darci un esempio di migrazione generativa. L’autore, citando i passi di Genesi, mostra che Abramo diventa padre di più nazioni, dando fiducia alla promessa Dio. Un secondo paradigma biblico sul tema della migrazione è quello dei Magi esposto nel Vangelo di Matteo: si dirigono verso un luogo all’inizio non ben definito (Gerusalemme) per una persona, Gesù, con l’incertezza della lunghezza del viaggio e quindi della sua durata. C’è poi la migrazione della Sacra Famiglia dalla minaccia di morte da parte di Erode, la cui violenza ha un fondamento politico. Sono tutti episodi pieni di difficoltà, ma insieme rivelano relazioni portatrici di novità feconde.

L’autore ricostruisce poi il fenomeno migratorio nel Mediterraneo partendo dalle origini, come è descritto nei testi greci, per arrivare ai Fenici, che portavano anche competenze delle loro terre; infine Roma: la sua presenza nel mare va dalla metà del III secolo a. C. fino al IV d. C., con l’estensione dell’Impero romano e la facilitazione del commercio.

L’autore prosegue notando, anche attraverso l’uso di brani di fiabe, come nel fenomeno migratorio si verificano due aspetti: chi arriva e cerca di capire come poter entrare meglio in una situazione; chi già c’era e oppone una legittima difesa dell’ordine e delle logiche già assodate. L’integrazione non è immediata, ma se positiva, diventa per chi arriva un arricchimento anche a disposizione di chi ospita. D’altra parte la modernità globalizzata fa sì che la vita del migrante, soprattutto all’inizio, è stretta nella tenaglia di un processo che dal punto di vista dello Stato, non può essere avviato facilmente, anche per ragioni burocratiche, dall’altro, quello delle realtà locali, implica un contatto culturale col diverso, per cui la situazione rimane bloccata.

Da qui la necessità di “Rimuovere le barriere” socio- culturali, come spiega l’autore nel 6° capitolo. L’accoglienza generativa richiede un’apertura democratica, cioè «non aver paura di imprimere alla propria vita, sociale e personale, una sterzata rispetto alle traiettorie esistenziali già in atto», ponendo un legame stabile con i relativi impegni normativi. Questo richiede tempo, la volontà di superare le difficoltà, in vista di un processo di rigenerazione, in cui i migranti stessi siano inclusi come protagonisti e non come succubi.

Nel libro, grazie anche ai riferimenti di diverse discipline (filosofia, sociologia, antropologia e teologia biblica) l’autore presenta l’evento migratorio sotto una nuova prospettiva, in quanto le persone danno un futuro e dischiudono prospettive alle società in cui giungono.


G. Stucchi, in ValtellinaNews.it 4 settembre 2019

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