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Per una teologia della presenza e dell’assenza di Dio
Anthony J. Godzieba

Per una teologia della presenza e dell’assenza di Dio

Prezzo di copertina: Euro 37,00 Prezzo scontato: Euro 35,15
Collana: Biblioteca di teologia contemporanea 206
ISBN: 978-88-399-3606-6
Formato: 15,7 x 23 cm
Pagine: 304
Titolo originale: A Theology of the Presence and Absence of God
© 2021

In breve

«È come un eccellente vino di un rinomato vigneto, invecchiato in ottime botti. Esperienza e tradizione, fede e ragione, riflessione e immaginazione, ineffabilità e incarnazione si uniscono a meraviglia in un libro che presenta il mistero dell’amore di Dio, figurato e testimoniato per il nostro tempo» (Lieven Boeve, Università cattolica di Lovanio).

Descrizione

In un mondo secolarizzato, imperniato sui consumi e altamente tecnologizzato, possiamo ancora fare esperienza del mistero di Dio? A partire da un’attenta analisi sociale della cultura occidentale e a partire dell’ascolto della grande tradizione cristiana della “domanda su Dio” (Anselmo d’Aosta), questo libro risponde positivamente.
Godzieba si concentra sul carattere dialettico di Dio – da un lato l’accessibilità (la sua “presenza”) e dall’altro l’eccesso (la sua “assenza”) – e sulla convinzione che «Dio è amore» (1 Gv 4,16). Se la conoscenza di Dio è diventata un problema nella cultura occidentale, la risposta cristiana ritrova nell’esperienza umana un «punto di accesso naturale alla fede», grazie al quale aprirsi al mistero di Dio come Trinità.
Il taglio contemporaneo del libro deriva dalla sua insistenza sulla fede come azione incarnata: è questo il modo più sincero di partecipare al mistero dell’amore di Dio, che è «la risposta al mistero del mondo e degli esseri umani» (Walter Kasper).

Recensioni

Il libro offre un percorso di riflessione teologica sull’esperienza contemporanea di Dio, in particolare sull’esperienza della rivelazione, utilizzando la categoria interpretativa – che l’autore chiama anche «metafora» – della presenza-assenza di Dio, riassuntiva di altre categorie dialettiche ben più note, come conoscenza-mistero, accessibilità-incontrollabilità e immanenza-trascendenza.

Nella storia della salvezza Dio è stato percepito come presente e operante, ma nello stesso tempo anche come Altro e Mistero; il concetto di «assenza» non si riferisce pertanto alla non-esistenza di Dio, ma a «quegli aspetti della realtà di Dio che superano le categorie della comprensione umana e sfuggono al nostro lessico» (p. 39). In tal modo l’esperienza religiosa può essere compresa come esperienza di rivelazione, in cui gli elementi della presenza di Dio contengono un’apertura ulteriore, una dimensione che può essere il punto di accesso alla pienezza della rivelazione cristiana.

Anthony Godzieba, docente emerito di teologia fondamentale presso l’Università di Villanova (Pennsylvania, Usa), oltre agli studi specifici di teo­logia, ha approfondito anche la dimensione religiosa dell’arte, nella pittura, architettura e musica, in quanto ritiene che «le arti hanno sempre utilizzato vari mezzi materiali per suscitare sentimenti particolari, con lo scopo di portare l’osservatore o l’ascoltatore a un’esperienza che trascende i limiti dei sensi» (p. 255), e quindi a un contatto con il mistero di Dio.

Il libro si articola in tre grandi parti: la presentazione del problema di Dio nella cultura occidentale (capp. 1-2); le risposte della teologia naturale cristiana (cap. 3); il contributo della teologia della Trinità (cap. 4). Si conclude con una breve fenomenologia della rivelazione e l’esemplificazione della sua presenza in opere di Caravaggio e Georges de La Tour (cap. 5).

L’autore prende spunto dalla situazione di privatizzazione della fede religiosa e di marginalizzazione della teologia nella società occidentale e dalle domande di senso e di conoscenza delle realtà ultime che vi emergono. Riferendosi al Proslogion di sant’Anselmo, ritiene che l’attuale anelito alla trascendenza esprima in realtà il desiderio di Dio all’interno del contesto secolare, e che quel desiderio contenga già una conoscenza della realtà di Dio: «Il desiderio umano di Dio può essere di per sé un indicatore della presenza di Dio, che parla direttamente a quel desiderio» (p. 16).

Citando le analisi di Bryan Turner e di Leszek Kołakowski sulla postmodernità e sul ruolo dei valori religiosi, l’autore mostra che la visione religiosa del mondo è la più realistica e la più emancipante e incontra il desiderio di trasformazione dell’uomo contemporaneo. L’arte e il simbolismo religioso stimolano infatti l’immaginazione umana, la quale da poetica può diventare sacramentale, nel senso che può cogliere la grazia di Dio che opera la salvezza; tuttavia, «perché il sacro si possa conoscere, esso deve abitare lo stesso spazio del profano e parlare il suo linguaggio, mantenendosi sacro» (p. 32).

Questa concezione dialettica della presenza di Dio nel mondo, che segue la logica dell’incarnazione, ha trovato però nella storia della cultura occidentale anche uno sviluppo diverso, che ha dato origine a una concezione di Dio che l’autore chiama «estrinsecistica». Con competenza e precisione, egli ripercorre l’itinerario che va dal nominalismo medievale all’autonomia moderna della soggettività, dai valori universali dell’Illuminismo ai maestri del sospetto dell’Ottocento, e propone una nuova teologia naturale cristiana, che «deve articolarsi in modo da poter esprimere l’intersezione del mistero di Dio con l’esperienza umana e fornire categorie adeguate per riflettere su questa intersezione» (p. 91).

Il percorso di Godzieba si sviluppa con una corretta integrazione tra fede e ragione, in cui la rivelazione divina si realizza in una relazione reciprocamente coinvolgente con chi la interpreta e l’accoglie nella fede. Vengono presentati i contributi classici di sant’Anselmo e san Tommaso e quelli contemporanei di Hans Küng e Walter Kasper.

La teologia di Kasper sorregge l’intera riflessione dell’autore: nel momento in cui egli espone la storia delle definizioni dogmatiche trinitarie e il loro significato per l’uomo contemporaneo, sono le posizioni kasperiane a prevalere e a guidare la riflessione sull’autocomunicazione di Dio. Al termine del percorso viene presentato l’importante concetto di discrezione divina, e la struttura della rivelazione appare come dono di sé, possibilità offerta all’uomo di realizzare la propria identità in pienezza.


L.M. Gilardi, in La Civiltà Cattolica 4123 (2 aprile 2022), 96-97

Si apre con una domanda e si chiude con una risposta entrambe semplici il primo libro in traduzione italiana del teologo Anthony J. Godzieba, docente emerito alla Villanova University di Philadelphia, i cui interessi incrociano la teologia fondamentale, la fenomenologia e l’estetica. L’autore si domanda se «nel nostro mondo secolarizzato, consumistico, tecnologizzato, possiamo ancora fare esperienza del mistero di Dio» (5) e risponde positivamente, congiungendo la teologia trinitaria e l’immagine del Dio amore in un itinerario che sfida gli stereotipi che complicano la strutturazione del discorso di fede oggi.

Non sono dunque la domanda iniziale o la risposta finale in sé a rappresentare il valore aggiunto del testo, ma l’itinerario che getta luce sulla loro persistenza e smentisce le impressioni di superficie, tendenti a rilevare in buona sostanza una crisi generalizzata della fede. Non così per l’autore di questo libro, che dedica le prime 90 pagine alla contestualizzazione del momento attuale attraverso un’analisi sociologica, filosofica e teologica (cf. 7-32) e un excursus storico-filosofico dalle chiare ripercussioni teologiche (dalla Bibbia alla filosofia greca, dal nominalismo alla prima eta moderna, dalla critica della religione del XIX secolo a oggi; cf. 33-88), con cui copre gli ambiti delle domande umane e della progressiva problematicità che il concetto di Dio ha assunto.

Obiettivo dichiarato è «fornire argomenti a sostegno della presenza amorevole, redentrice, liberante e trasformante di Dio nella vita umana e nel mondo» (8): tre poli – Dio, vita, mondo – i cui significati sono stati messi in discussione dal secolo scorso, che Godzieba affronta apertamente, cosciente che la teologia debba rinunciare ai suoi punti di partenza classici per considerarli, piuttosto, conclusioni da raggiungere (9). E ciò a causa della «privatizzazione o marginalizzazione dell’importanza di Dio e della fede religiosa nella società tradizionale» (10), che non può essere ignorata se si vuole che la comunità cristiana condivida lo stesso piano relazionale in cui si confrontano gli uomini e le donne di questo tempo.

Così Godzieba torna ed esamina lo statuto delle domande su Dio fino a rilevarne l’inadeguatezza. Il senso è denunciare l’impossibilità di una conoscenza precisa della natura divina, al punto che le nostre risposte «non saranno mai definitive» anche se, prosegue l’autore, «non saranno inutili» (17). Di Dio si ha sempre una conoscenza «mediata dall’esperienza del mondo e della cultura» in cui si è, tanto che i cristiani si collocano «in una tradizione di interpretazione delle esperienze» (18) che nel libro induce a una precisazione geo-temporale: l’autore sottolinea come scriva da Occidente e da occidentale, nella seconda decade del terzo millennio, a occidentali, in effetti rompendo con una teologia troppo devota all’universale e accettando che il da dove non sia ininfluente nella costruzione e valutazione di ogni teologia.

L’autore riconosce la pluralità della modernità, o, meglio, la sua frammentazione che oggi non esitiamo a definire postmodernità: un’epoca di contrasti (cf. 23) in cui la religione, seguendo il sociologo Bryan S. Turner, sembra non funzionare più da collante sociale ma può ancora «fornire il tipo di motivazione utopistica necessaria per un cambiamento sociale di massa» (24); un’epoca in cui è forse perfino più doveroso distinguere il sacro e il profano pur mantenendoli, se si legge il filosofo Leszek Kolakowski, in una dialettica costante (26); un’epoca, infine, in cui «una sintesi teologica» non è meno possibile che in passato, e è anzi richiesta da una congiuntura storica che può apprezzare la visione religiosa del mondo come «la più realistica di tutte» nel suo rivolgersi «al nostro desiderio di trasformazione del presente inadeguato» (29).

La tesi centrale del testo è che la teologia debba cominciare (o ricominciare) a pensare la realtà divina tramite un approccio sacramentale, creando legami, rimandi, assumendo, in breve, una postura aperta alle possibilità dell’esistenza. Tradizionalmente, infatti, un sacramento attua, rende presente ciò che esprime. Godzieba ripropone un metodo antico e al tempo stesso postmoderno, superando Turner e Kolakowski e la loro «disgiunzione tra sacro e secolare, tra credente e società dominante, tra Chiesa e mondo» (31), perché per il teologo il sacro diventa conoscibile solo se abita lo stesso spazio e parla lo stesso linguaggio del profano.

All’atto di chiedersi come pensare e parlare di Dio oggi, dunque, l’autore individua nella dialettica di presenza e assenza di Dio il cardine teologico mancante. E disattendendo questa tensione, radicale se non altro perché biblica, infatti, che a partire dal periodo tardomedievale si diffonde una concezione estrinsecista: una visione per cui Dio rimane, rispetto all’esperienza umana, essenzialmente estraneo, non solo perché anzitutto trascendente, misterioso o inconoscibile, ma prima ancora perché ridotto a entità sovrapposta alle esperienze vitali degli esseri umani, quasi costretto a un’insignificanza pratica in una vita che non lo riguarderebbe pienamente.

Per Godzieba, allora, «permettere all’interpretazione dialettica di Dio di apparire di nuovo nella sua pienezza rivelata ed essere riconosciuta come la forza vivificante del cristianesimo» (88) significa lavorare a una teologia naturale che eviti il teismo astratto e a una teologia teologica che mostri i punti di accesso alla fede. È a questi due passaggi, ovviamente, che l’autore dedica la parte più consistente del volume (cf. 89-243), anche perché determinanti al fine di cogliere l’approccio sacramentale di fondo.

Con la prima riflessione, il teologo intende mostrare soprattutto la plausibilità dell’esperienza di Dio in quanto «esperienza umana» (154). Con la seconda, il «carattere fondamentalmente religioso» di quest’ultima, ossia una certa «intenzionale apertura al mistero infinito» (161) che s’approfondisce solo come relazione, il che spiega il ricorso alla metafora personale quando si parla del Dio cristiano, perché «percepiamo la donazione che caratterizza il mistero infinito come un appello personale che crea una relazione personale che dà avvio alla nostra realizzazione come persone» (166).

L’ultimo capitolo (cf. 244-284) può quindi essere incentrato sulla dialettica della presenza e dell’assenza di Dio, colui il quale sperimentiamo «presente quando realizza i nostri desideri più intimi di amore e di senso, eppure assente in modo inquietante quando infrange le nostre aspettative e sfugge alle nostre categorie limitate di descrizione e di comprensione». E questo «paradosso della fede» (245) l’effettivo valore aggiunto del libro, che è infatti uno studio serio e non illusorio sulla struttura della rivelazione come la concepiscono i cristiani: atto che ha luogo «in relazioni performative, in azioni personali nel tempo» (279), la cui sperimentabilità segue la fiducia che la vita sia eccesso, sempre in avvenimento, e si realizzi in una relazionalità che include tutto e tutti.

Per una teologia della presenza e dell’assenza di Dio si offre al lettore come un invito coinvolgente e senza il timore di scoprirsi: non stupisce allora che la conclusione del volume coincida con ciò che per Mark Rothko «deve offrire aneliti di infinito in ogni situazione»: l’angolazione estetica, sia essa della pittura, dell’architettura, della musica.


A. Ballarò, in Il Regno Attualità 18/2021, 582