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Il sensibile e l’inatteso
Pierangelo Sequeri

Il sensibile e l’inatteso

Lezioni di estetica teologica

Prezzo di copertina: Euro 20,00 Prezzo scontato: Euro 19,00
Collana: Biblioteca di teologia contemporanea 179
ISBN: 978-88-399-0479-9
Formato: 16 x 23 cm
Pagine: 272
© 2016

In breve

Fede ecclesiale e teologia come possono pensare la bellezza? Con raffinatezza e maestria, Sequeri sa inscrivere la bellezza sensibile nel cuore stesso del Mistero cristiano.

Descrizione

A partire dall’evidenza rivelata dell’incarnazione del Figlio – l’inatteso teologico della verità del senso –, Sequeri propone una ricostruzione fenomenologica e ontologica della sensibilità spirituale, che la ragione teologica può restituire al suo fondamento. Di qui, l’attitudine estetica viene ricompresa come la marcatura creaturale della nostra irriducibile sensibilità per la qualità teologale della verità e per la giustizia delle affezioni.
Nonostante le ambiguità post-moderne in tema di bellezza e verità, il momento sembra favorevole per questa rifondazione estetica della ragione teologica. Anzi, esauriti gli ingenui tentativi di riconversione devota dell’arte bella e del sentimento romantico, la riapertura di questo orizzonte appare più che necessaria: sia per evitare che la ragione teologica evapori definitivamente nell’astrattezza del modello razionalistico della verità, sia per sottrarsi alla rischiosa sostituzione religiosa dell’eccitazione estetica.
La riabilitazione filosofica dell’estetica dello spirito, la quale rimette in campo i fondamentali ontologici dell’affezione e della generazione, invita la teologia alla compiuta integrazione dell’effettualità del suo principio: ossia, il miracolo e il sacramento della disposizione dello Spirito di Dio all’invenzione e al riscatto della forma sensibile del voler-bene, che procede dal Padre e dal Figlio.

Recensioni

L’ultimo lavoro del teologo milanese Pierangelo Sequeri, ora direttore del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, Il sensibile e l’inatteso. Lezioni di estetica teologica (Brescia, Queriniana, 2016), rappresenta un importante contributo per il ripensamento e il rinnovamento della teologia auspicati da Papa Francesco in Veritatis gaudium. La complessità e la ricchezza del pensiero del noto teologo milanese si inserisce nel suo pluriennale percorso di ricerca, volto a riannodare teologicamente la relazione tra il lògos e il pàthos, la ragione e i sentimenti che per troppo tempo sono cresciuti in modo parallelo e asimmetrico. L’estetica teologica per Sequeri non è primariamente da intendere come una riflessione sull’arte sacra. Più ampiamente, si tratta di recuperare la dimensione affettiva, estetica in senso percettivo, come costitutiva del sapere teologico, per evitare le derive razionaliste o irrazionali cui conduce una mancata integrazione tra la ragione e gli affetti, che hanno la loro sede nella sensibilità. Se negli ultimi secoli la teologia ha inseguito soprattutto «l’istanza illuminista della ragione, accettandone — pur nell’opposizione alla sua inclinazione immanentistica e naturalista — il piano di argomentazione, ora non può più evitare un confronto altrettanto serrato con la questione romantica», portatrice delle ragioni degli affetti e della sensibilità. Questo confronto è particolarmente urgente nella nostra epoca, che vede il trionfo culturale della percezione come denuncia lucidamente Sequeri: «L’estetizzazione odierna del mondo appare in prima istanza come un trionfo dell’esse est percipi: esistere significa l’essere percepito, e si risolve nell’insieme delle sensazioni e dei sentimenti che ci colpiscono».

Nel nostro mondo, l’eccedenza delle immagini rischia di anestetizzare l’insorgere del pensiero. Per questo, occorre recuperare un luogo fenomenologico e teologico che consenta di riscoprire il fondamento della dimensione estetica senza mortificare quella razionale. Riprendendo la lezione di von Balthasar, Sequeri argomenta per una resurrezione teologica dell’estetico capace di non rimanere imbrigliata nelle maglie della finitezza e, nel contempo, che sappia mostrare una sensibilità secondo lo Spirito. La carne come luogo dell’umanità e lo Spirito come presenza del divino nella storia non sono opposti e irriducibili l’uno all’altro. La loro armonica unione è il luogo fenomenologico in cui poter pensare «l’irriducibile spessore etico-affettivo dell’essere-personale». Per raggiungere questo recupero, occorre riappropriarsi di una riflessione sulle forze che reggono la vita, che una certa teologia ha relegato alle scienze della natura, impoverendole.

Nella tradizione cristiana, lo Spirito è sempre stato inteso proprio come una forza che anima la vita in tutte le sue forme. Accanto a questo, il secondo momento dell’itinerario delineato consiste nel recupero della dimensione della intersoggettività della coscienza, così come autori del calibro di Lévinas l’hanno descritta. Per superare il fondamento anaffettivo del legame tra lo spirito e la carne, il lògos e l’affetto, occorre ripensare fenomenologicamente il «luogo-non luogo della nascita (...) un tema non molto approfondito dalla teologia: frequentemente toccato, subito abbandonato». Solo nella relazione del sapersi voluto e amato nella generazione, il piccolo che entra nel mondo può sviluppare una piena coscienza di sé, per poi vivere con pienezza e in libertà i propri affetti. La generazione è un effetto senza causa, nel senso che è portatrice di una misteriosa e originaria germinazione dell’affettivo come del noetico. Il compito di ripensare in profondità questa relazione per la teologia non dovrebbe risultare particolarmente difficile, in considerazione del fatto che già il Simbolo niceno pone sotto questo prefisso, il Figlio rispetto al Padre nell’affermare che il primo è stato «generato non creato». Questo tema, comparso fin dall’inizio della storia della spiritualità cristiana, con il suo prezioso corollario del ruolo di mediazione umano divina del Cristo nella creazione stessa dell’uomo e del mondo, è andato progressivamente smarrito, a favore di una teologia più asettica delle processioni intratrinitarie e della progressiva estraneità tra Cristo e la creazione.

Va invece recuperata e valorizzata l’intuizione del concilio niceno, che ci indica nella generazione la relazione sorgiva del rapporto tra il Padre e il Figlio, toccando così uno snodo centrale dell’identità del Dio trinitario, in cui «dare-vita è il senso più radicale di essere vita; l’affezione in atto che vi corrisponde è il fondamento intrascendibile di ogni giustizia possibile dell’essere». Nella Trinità si trova così all’opera quella matrice generativa, che nel simbolo e nell’immagine si trova riproposta nella generazione umana, che assume così un valore insperato.

Se è vero infatti che la generazione da parte di Dio dell’uomo e della donna a immagine e somiglianza precede la generazione dell’uomo attraverso il diventare una carne sola, è però altrettanto vero che: «La struttura della “generazione” mostra chiaramente di contenere la potenza inclusiva di un principio (anzi del principio) radicale del dare la vita, nel modo personale del voler bene, che abbraccia circolarmente livelli di effettività profondamente distinti, eppure legati alla partecipazione del suo eterno archetipo: che è la generazione del Figlio».


M. Tibaldi, in L’Osservatore Romano 4 febbraio 2020, 4

Il testo offre dieci lezioni di estetica teologica, raccolte in quattro raggruppamenti e corredate ciascuna di preziose mappe concettuali ricapitolative. L’“estetica teologica” in oggetto non è una teologia del “bello” nella sua valenza metafisica, né della “forma” nel dominio della creazione artistica. Non è criteriologia per la lettura teologica di un’opera d’arte né, infine, trattazione sui principi dell’arte sacra. Essa aggredisce invece il nodo teorico della correlazione tra ragione teologica e pensiero estetico, della struttura della ragione teologica fondata sull’esperienza effettiva e affettiva del Dio incarnato, espressa in categorie estetiche, integrative dell’elemento sensibile e della dimensione affettiva.

Hans Urs von Balthasar, l’inventore di una teologica estetica, intendeva unire, nel registro della “bellezza”, il dono della rivelazione dall’alto e l’apertura alla sua accoglienza dal basso, lo splendore oggettivo del donarsi di Dio e il rapimento soggettivo dell’uomo interpellato. Sequeri cerca di andare oltre, con una riproposizione post-moderna dell’“inedito cristiano”, nell’inclusione e integrazione della dimensione sensibile e affettiva nell’episteme della fede.

La I parte (“Estetizzazione del mondo”, 11-69) descrive l’accresciuta rilevanza attuale del tema estetico. L’estetica, che in età moderna ha assunto il ruolo di scienza generale della sensibilità umana, incorporando i grandi temi dell’ontologia e dell’etica, in epoca romantica si è configurata come dottrina dell’intuizione spirituale, nella correlazione tra fenomeno artistico ed esperienza religiosa. La primitiva “dottrina del sensibile” si è sviluppata anche come teoria dell’immaginazione e dell’immagine, non solo nel dominio del sovrarazionale – l’artistico espressivo dell’esperienza religiosa –, ma anche dell’“irrazionale” – l’artistico come provocazione straniante –, sfogo di pulsioni critiche per l’idolatria di una ratio la cui sicurezza sistematica manifesta tutta la sua fallacia ermeneutica nei confronti di un mondo che si ribella alla sua pretesa ordinatrice. L’odierno rovesciamento delle categorie estetiche, con il frantumarsi dei canoni artistici tradizionali in funzione polemica e la migrazione dell’estetico tradizionale negli spot pubblicitari, ha spezzato l’alleanza romantica tra l’artistico e lo spirituale, rendendo insufficiente lo stesso progetto balthasariano, in cui percezione estetica, struttura trascendentale e dimensione trascendente sono direttamente correlate. Oggi il pulchrum qua tale (quale?) non è più accesso ai trascendentali del bonum e del verum, alla dimensione etica e gnoseologica dell’essere stesso.

La II parte (“Ritorno al fenomeno”, 73-153), si situa tra l’istanza antropologica di una sensibilità capace di riconciliare ragione e affezione e il recupero teologico di una fenomenologia del “corporeo” come epifania dello “spirituale”, mediante il “sensibile”. La scissione oggi avvertita in occidente tra logos e aisthesis chiede una riconciliazione mediante il tertium sovra-ontologico dell’affezione. In passato il tema delle passiones e degli affectus ha toccato l’etica filosofica e l’antropologia teologica solo indirettamente, in relazione all’incidenza sulla ragione e sulla volontà. Ha acquistato rilevanza solo di recente, con lo sviluppo delle scienze umane. L’esplorazione di regioni interiori ancora insondate da parte dalle scienze umane ha avuto un impatto decisivo soprattutto nel pensiero filosofico. Il lungo processo di revisione della fenomenologia di Husserl rispetto al tratto più rigido della sua intenzionalità, sino alle “conversioni filosofiche” che la hanno “rovesciata”, piegandola sul versante teologico di una fenomenologia della carne, oltre l’empirico e l’organico, insieme all’affermarsi di un’antropologia degli affetti, hanno interpellato anche la riflessione teologica, il cui resistente concettualismo onto-teologico, ha a lungo ostacolato l’accesso alla dimensione affettiva del divino, e l’assunzione di un intellectus fidei effettivo e affettivo, conforme alle esigenze di una ratio hominis digna, espressione dell’umano che è comune.

L’insufficienza delle fenomenologie della carne e del dono, rende urgente una fenomenologia post-metafisica dell’essere spirituale. La fenomenologia tradizionale ha infatti trascurato le figure dell’essere-credibile e dell’essere-amabile, irriducibili tanto al pulchrum del godibile quanto al bonum del valevole, quanto, infine, al verum delle gnoseologie intellettualistiche, dall’adaequatio intellectus alla reine Vernunft. A supporto della sua analisi Sequeri riporta due “meditazioni post-husserliane”, su Emmanuel Lévinas e Miguel de Beistegui, nel solco di una fenomenologia priva di pregiudiziale gnoseologistica. Il primo tematizza la relazione con l’alterità come risposta all’appello del vulnerabile e alla giustizia dell’amabile, irriducibile alla ragione filosofica e aperta alla trascendenza etico-affettiva. Il secondo muove dalla quota aristotelica presente nella scienza moderna, per ricondurre tutto il sapere al recupero antico di un legame tra physis e psyché, estensione e pensiero, nell’unione di intuizione poetica e ragione computativa, epifaniche dell’essere in modo convergente.

Metafisica dell’arché e sorgente dell’affectus si possono ricomporre risalendo alla radice primordiale dell’affezione: il mistero dell’origine, nell’atto della generazione in analogia all’evento della creazione. Creatio ex nihilo e generatio alterius chiedono di essere assunte per il denominatore comune dell’Uno capace di produrre il Nuovo, non come estensione dell’Unico, né come suo doppio-copia, ma quale novità radicale, comprensibile non nel regime ontologico-causale, ma nell’ordine affettivo di un voler-bene, trascendente la metafisica dell’essere, nell’orizzonte del gratuito inspiegabile causalmente e della libertà intelligibile solo affettivamente. Il voler-bene, dislocato rispetto all’esser-bene effusivum sui, e chiaramente trascendente rispetto all’inerire ontologico dei suoi trascendentali, trova la sua cifra simbolica nella metafora affettiva del concepimento e della nascita, nel pro-creare/generare che fonda l’essere al mondo dell’ente spirituale. Solo nella luce della creazione e della generazione, della libertà, della gratuità e del dono, è possibile ricomporre la relazione dell’Uno e del Molteplice (dall’Unità del fondamento/origine alla Dualità/molteplicità originata), questione evidentemente insolubile nella logica puramente ontica che ha dominato la tradizione occidentale. Il regime dell’affezione, irriducibile al sapere ontico, è per Sequeri la chora generativa della qualità spirituale del sensibile. Il tema è assunto in recto nella III parte del lavoro, dedicata all’“impensato cristologico” (157-206).

Si tocca il vertice teologico del testo. L’atto della generazione, arché assoluta dell’essere divino e «prima Parola in cui il Fondamento si pronuncia e si annuncia» (157), trascende ogni distinzione tra fisico e metafisico, sensoriale e intelligibile, esteriore e interiore: inaugura un ordo amoris privo di qualsiasi antecedente ontologico. La polemica ariana accentua il carattere ontologico della distinzione nicena tra creazione e generazione, lasciando in ombra la valenza affettiva del generare, anche in riferimento alla generazione da Maria. L’enfasi ontologico-trinitaria nell’uso della metafora della generazione ha trascurato anche l’analogia creationis per Verbum formulata nel NT, chiudendo la riflessione trinitaria nell’immanenza, compresa come ontologia della processio, che deprime la valenza affettiva implicata nell’atto del generare. «Nella disposizione al voler-bene che attinge all’antecedente divino – solo a posteriori afferrabile nella sua eccedenza rispetto alla stessa fenomenalità –, è deciso il come deve essere l’essere, per essere come deve in ogni possibile accadere» (182). Senza una fondazione affettiva tutto ricade nella pura dimensione ontica: le relazioni sono processi formali, da ricondurre al generico della sostanza; l’uguaglianza nella dignità tende all’omologazione; la libertà personale è individualismo dell’indifferenza; il lessico romantico dell’amore è mistica della pura funzione estetica; pro-creazione e pro-affezione originano debito da estinguere e non eredità da far fruttificare. Senza una fondazione nell’ordo amoris non si supera neppure l’ambivalenza del sacro. Il fondamento affettivo della generatio richiede tuttavia, per potersi declinare, una coscienza gnoseologica della funzione metaforico-immaginativa. Ecco entrare in gioco il pensiero fenomenologico di Marc Richir.

Oltre la fenomenologia di Merleau-Ponty, troppo schiacciata sulla percezione, Richir tematizza la dimensione della phantasía, funzione originaria che indirizza la coscienza a organizzare la percezione nell’ambito dell’aisthesis – irriducibile alla sensorialità misurabile per quel surplus affettivo che già la abita, fonte di simbolizzazione e integrazione metaforica del significato – e della pulsione, il complesso delle “tendenze interne” di associazione e dissociazione, attrazione e repulsione in un ambito pre-logico, ma già affettivamente connotato. La phantasía articola dynamis e aisthesis, originariamente intrecciate nell’enigmatica sovrapposizione di desiderio del non ancora raggiunto e nostalgia dell’irrimediabilmente perduto, magma iniziale di un’affettività arcaica, da cui affiora l’architettura del simbolico della relazione all’alterità, dalla funzione linguistica alla comunione amicale. Rivisitando il mythos arcaico dell’origine/nascita, nella sua energia eziologica pre-logica, Richir rilegge l’interiorità nella chiave micro-cosmogonica di un’affettività originaria, madre e matrice di ogni successiva emersione simbolico-comunicativa, istitutiva di comunione e socialità. Ogni processo comunicativo e ogni manifestazione di senso sono attraversati e plasmati ab initio dalla sedimentazione di eventi dell’affettività originaria, capace di trascendenza del simbolico stesso, al punto da attivarsi anche nell’inibizione del semantico o nell’assenza dell’immaginale.

«Lo schematismo fenomenologico dell’affezione in quanto tale è un corpo fantasmatico dell’animo sensibile in cui il pensiero e l’apparire sono sempre anticipati nell’istituzione simbolica del dover essere dell’essere per essere come deve» (193). Il processo micro-cosmogonico dell’istituzione del senso ha un suo snodo essenziale nell’iniziazione alla legge, istitutiva degli opposti del giusto e dell’ingiusto e capace di plasmare l’immaginario simbolico-affettivo nella libera decisione per la giustizia e l’affidabilità dell’origine. La legge, con la sua simbolica mediata nella stessa relazione di generazione e riconoscimento, ostacola l’auto-ripiegarsi del Gemüt, opponendosi al risucchio “auto-affettivo” verso l’origine materna, in concomitanza con la percezione di una pro-affezione genitoriale capace di autolimitarsi, per indirizzare il generato a spezzare il cerchio fatale dell’auto-affezione, verso l’“oltre” di un’autentica pro-affezione a sua volta generativa.

Si passa così alla IV parte del lavoro, sull’estetica del vissuto di fede, nella correlazione tra “miraculum e sacramentum” (209-258), ritorno conclusivo all’esperienza che risponde al fenomeno dell’estetizzazione del mondo. La struttura della coscienza, intreccio responsoriale d’informazioni e affezioni, opera non secondo il modello veritativo dell’adaequatio, ma nella dinamica immaginativa di una phantasía architettonica che non si rapporta all’alterità come puro rispecchiamento, ma come lenta emersione del sé e dell’altro nella loro distinzione, in forza di un responsorio guidato dalla ricerca di una segreta corrispondenza con il sensore affettivo primordiale del voler-bene, che plasma un’esperienza morale come memoria della materia e immaginazione dello spirito, nel grembo fiduciale del nostro inizio, in cui verità e bene si identificano.

Il verum, trascendentale di relazione insieme al bonum, si determina in corrispondenza con la logica segreta del voler bene, che prende forma nel registro immaginativo. Dynamis affettiva costituente e aisthesis sensibile costitutiva della singolarità nella sua emersione, attendono di corrispondersi nel continuo scambio tra interiorità ed esteriorità, irriducibile a ogni semplicistica correlazione di causa-effetto. Tale processo non è affatto sovrapponibile alla ratio concettuale con le sue categorie logico-causali. Lascia traccia memoriale e irriflessa di sé nell’immaginazione simbolica, capace di restituirne la pertinenza “oggettiva” solo mediante l’illuminazione della metafora, col suo potere di nominare l’innominabile, di estendersi narrativamente e ritualmente nella modalità di un mythos che, guidato dal nomos del voler-bene e dell’affezione, risale oltre i limiti del logos, alle soglie dell’originario, all’umile fondamento della propria dipendenza dall’atto del concepimento. La risalita al fondamento si attua nell’irruzione gratuita del sublime, eccesso di affezione, sospensiva dell’aisthesis immaginativa e della dynamis affettiva proprie del soggetto. L’avvento del sublime, mentre rivela la prossimità del fondamento, interdice paradossalmente ogni tentativo di fondazione, predisponendo a un umile passaggio dalla potenza evocativa del “miracoloso” alla kenosi immaginativa del “sacramentale”, con la sua discesa a scoprire nelle pieghe del mondo la singolare estetica di un divino immanente e nascosto, nell’atto grazioso del suo donarsi senza lasciarsi afferrare.

L’aisthesis del soggetto chiede di essere attivata dal “miracoloso” dell’immagine e dall’esteriorità del simbolico, come risveglio memoriale e riaccensione desiderativa. L’esperienza vertiginosa e sospensiva del sublime la converte al potere performativo più intenso del “sacramentale”, capace di custodire il dono come dono, interdicendone il possesso e impedendo così il risucchio idolatrico, e paradossalmente spiritualizzante, nelle dinamiche di estetizzazione del mondo. Estetica del “miraculum” e anestetica del “sacramentum” intrattengono una relazione incessante, che impedisce tanto lo spiritualismo di una “bellezza” “disincarnata”, quanto il suo degrado in un informe afasico e sfuggente. Il sensibile del miracoloso è autentico solo nella predisposizione/apertura all’inatteso del sacramentale, che mantiene una sua ricevibilità e comunicabilità soltanto nel suo concedersi amabilmente al potere dimesso dell’estetica “convertita” all’umile linguaggio del simbolo e della metafora.

Ecco la reale portata dell’espressione che titola il volume: il sensibile è autentico solo nell’apertura, oltre l’estetica del miracoloso che ritrova le coordinate della memoria e del desiderio, all’inatteso del sacramentale, “vigilando l’istante” dell’umile e discreto passaggio di Dio, con il suo rivelarsi aniconico a una sensibilità disposta alla sorpresa e alla conversione rispetto ai suoi abituali canoni estetici. La lirica di Clemente Rebora, Dell’immagine tesa (1920), in apertura del volume, tocca proprio il delicato rapporto tra il sensibile e l’inatteso.

Queste lezioni di estetica teologica raggiungono un importante traguardo nel percorso di ricerca che Pierangelo Sequeri ha intrapreso da decenni per un rinnovamento della teologia nella direzione aperta dall’approccio “estetico” di Hans Urs von Balthasar. Il teologo milanese vi espone, infatti, in modo sistematico, gli esiti di una lunga indagine, già parzialmente espressi o accennati in altri suoi preziosi contributi, principalmente l’opus magnum Il Dio affidabile (1996), in cui si riconosce, quale defectus principale dell’elaborazione teologica, Balthasar incluso, quell’esclusione della dimensione affettiva che qui è invece messa a tema in modo decisivo. Il lavoro esprime tutta la sua coerenza nel muovere dalla sensibilità iconica di un “mondo estetizzato”, per ritornarvi nella luce di un approdo all’aniconico del “sacramentale”, attraverso un passaggio “fondativo” all’“impensato cristologico”, preparato dalla base filosofica di una rinnovata modalità di “ritorno al fenomeno”. Il percorso, per certi versi, ha l’andamento prima di una “salita” dall’antrolopogico al teologico, poi di una “discesa” alle conseguenze antropologiche scaturite dal teologico, ancorché i due livelli siano, lungo tutta l’opera, strettamente intrecciati e spesso sovrapposti. Il punto di forza di tutta la riflessione sembra situarsi nella riconduzione del sensibile a qualità e funzione dello spirituale e attitudine di una corporeità che porta in sé il riferimento allo spirito, il tutto pervaso da quell’energia affettiva che è a fondamento di una ratio hominis digna e di una giustizia del senso e degli affetti, e si esprime nella capacità pre-concettuale di un’immaginazione metaforica, che fa emergere dall’indistinzione nel grembo magmatico-affettivo originario, il sostrato della memoria e l’orizzonte del desiderio, nella loro energia pro-tensiva, creativa e generativa, che vince la regressione nel risucchio incestuoso e nella tentazione narcisistica. La metafora generativa è la chiave d’accesso al fondamento affettivo dell’umano, con la sua ontologia “sovra-etica” e “sovra-razionale” di un voler-bene così gratuito e “ingiustificabile” da operare efficacemente più nell’ascosità del “sacramentale”, garanzia di libertà responsoriale, che nell’evidenza del “miracoloso”, pur nella sua insostituibile funzione rammemorativo-desiderante.

Sequeri pone così la base per una nuova fenomenologia dello spirito, capace di declinare il voler bene dell’affettività e della giustizia del senso, oltre i limiti della recente fenomenologia della carne. L’ampiezza e la densità delle questioni porta con sé una sovrapposizione di piani che, nella sua ricchezza, fatica tuttavia a mantenere distinti, nel loro complesso rapporto, i due ambiti, antropologico e teologico. Il loro intreccio, coi continui passaggi analogici nell’uso, ad esempio, della metafora della generazione, come pure di quelle del miraculum e del sacramentum, con la loro afferenza a molteplici ambiti, ha una sua efficacia nel declinare la potenza teo-antropologica della pro-affezione. Una più accentuata distinzione avrebbe tuttavia il vantaggio di cogliere lo specifico di un ordine degli affetti trasformato dall’Amore di Dio, rispetto all’orizzonte del voler-bene possibile nel semplice dominio antropologico. Una tematizzazione della singolare esperienza della “grazia” nell’ambito delle affezioni umane consentirebbe di superare il semplice livello dell’analogia, con un rovesciamento catalogico (per dirla con Balthasar) della correlazione tra gli analogati. Una teologia del sensibile aperto all’inatteso potrebbe così meglio evitare il rischio di una costrizione dell’inatteso al regime della sensibilità umana per il senso ed esplicitare, invece, la differenza di un ordine umano degli affetti trasformato dall’irruzione dell’inatteso. Una declinazione, inoltre, della metafora generativa nell’orizzonte trinitario, cristologico e teo-antropologico senza mettere sufficientemente a tema l’estetica “teo-drammatica” del mistero pasquale e dell’affezione generativa dell’Amore crocifisso, è forse indizio del carattere intuitivo e non sufficientemente riflesso di tale sovrapposizione del teologico e dell’antropologico, che non rende pienamente “ragione” della singolarissima estetica pro-affettiva dell’impensato cristologico. Si tratterebbe, in altre parole di procedere, dando centralità all’energia generativo-affettiva della sapientia crucis, a una fenomenologia della conversione teologale nella sua capacità di trasformare l’ordo amoris humanus, con un decisivo passaggio dal teologico spiegato antropologicamente all’antropologico compreso teologicamente. La lezione di Bernard Lonergan ha cercato di includere l’evento della conversione nell’elaborazione teologica, fondando la sua proposta metodologica sulla conversione, originata dall’inatteso dell’irruzione dell’amore di Dio, riversato nel cuore dell’uomo (Rm 5,5). Egli ha così a suo modo posto, facendo tesoro, nel solco di Max Scheler, delle acquisizioni filosofico-fenomenologiche e psicologico-religiose allora a lui disponibili, la realtà dei sentimenti e degli affetti nella dinamica di un’elaborazione teologica capace di oggettivare, nella luce delle fonti rivelate, l’evento della conversione personale, nel suo potere di trasformare l’interiorità del teologo stesso, sino alla conversione dei suoi pensieri e delle sue categorie, a misura della sapienza divina, donata/rivelata nel Crocifisso-risorto. Un incontro tra la teologia estetica elaborata con tanta acribia da Sequeri e la metodologia teologica approntata, nelle sue coordinate essenziali, da Lonergan, potrebbe rivelarsi feconda per rispondere all’attuale estetizzazione del mondo.


L. Bassetti, in Teresianum 70 (2019/1) 275-283

Le dieci «lezioni di estetica teologica» in cui si articola il libro più recente di P. Sequeri, già preside della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, e attuale preside del Pontificio Istituto «Giovanni Paolo II» a Roma, compongono senz’altro una bellissima opera di maturità sia didattica che teologica. L’A. si muove in un campo di ricerca che egli esplora da vari decenni, all’incrocio fecondo fra sensibilità, materia, realtà, simbolo, ragione e linguaggio; fra filosofia, teologia fondamentale e dogmatica, morale e sacramentale. L’opera presenta alcuni tagli nuovi — ad esempio, la felice esplicitazione della tematica dell’immaginazione, tematizzazione riconducibile magari in parte al «grande amico e vero maestro» Michael Paul Gallagher, a cui il libro è dedicato (sebbene poi non lo citi). Ma ciò che colpisce di più in fondo è l’aspetto sintetico, acuto e pacato al contempo, con cui l’A. affronta il ruolo che la percezione e la bellezza devono giocare in teologia fondamentale, per rendere ragione della speranza e della fede che sono in noi. Benché si denuncino con ironia alcuni fallimenti del pensiero estetico (moderno, romantico o contemporaneo), il tono generale è quello del docente maturo, del magister che esercita dentro la Chiesa e nel mondo il ministero dell’insegnamento. Egli ci offre una fitta sintesi delle sue letture (impressionanti per la qualità e la quantità dei riferimenti) e delle sue lezioni, date e affilate lungo gli anni.

Le dieci lezioni sono strutturate con chiarezza in quattro parti, dopo una breve presentazione, ma senza conclusione — un’indicazione, magari, per dire che spetta al lettore farsene la propria sintesi; un appello strutturale, insomma, al discernimento estetico e intellettuale auspicato a intervalli regolari dal testo stesso. La prima parte, «Estetizzazione del mondo», prende un taglio piuttosto storico, dalla «Nascita dell’estetica e rottura con il bello» (cap. 1) alla «Percezione estetica e soggettività del lógos» (cap. 2) per finire su una domanda scottante: cosa significa una «Risurrezione teologica dell’estetico?» (cap. 3). Nella seconda parte, «Ritorno del fenomeno», la filosofia, e soprattutto la fenomenologia francese, è il perno del discorso: dall’articolazione sottile di quello che è «L’essere sensibile, l’essere spirituale» (cap. 4) cresce l’interiorità meditativa con «L’eteronomia costitutiva dell’autocoscienza» (cap. 5); a tal fine si augura vivamente «Il superamento della fondazione anaffettiva» (cap. 6), per lasciare questa fonte di disagio etico e di falsità cognitiva. La terza parte, «L’impensato cristologico», si muove sotto la spinta di un’affettività ritrovata, di grande dignità, a contemplare con pazienza l’incrocio fra l’estetica teologica fondamentale e i misteri dogmatici della SS. Trinità e del Verbo incarnato: da «Il grembo eterno della paternità divina» (cap. 7) si ritorna a un dialogo di taglio altamente filosofico con lo studio de «La Dis-posizione etico-affettiva del Reale» (cap. 8). La quarta e ultima parte, «Miraculum e sacramentum», affronta esplicitamente la tematica dell’immaginazione che serve per «La requisizione artistica dello spirito sensibile» (cap. 9) e conclude cercando di convertire le pretese di onnipotenza dimostrate dal fascino dell’immagine artistica romantica, portandole invece alla sobrietà salvifica del sacramento: «Decostruzione dell’artistico: fede e sacramento» (cap. 10).

La semplice lettura dei titoli appena articolati consente di mostrare che non si tratta di un libro per principianti nel campo teologico, filosofico-estetico o metafisico. La densità del proposito, così come l’articolazione dei numerosi concetti, i riferimenti costanti alla filosofia (specie alla fenomenologia più complessa) nonché l’uso delle lingue classiche, richiedono al lettore una cultura già abituata alla paziente aratura del dialogo fra teologia e altri campi del sapere umano. La struttura del libro consente tuttavia al lettore di muoversi autonomamente da una parte all’altra, da uno spazio o da un tempo all’altro, in un arco piuttosto breve per l’A. (solo 259 pp. di testo). Per assaggiare a priori o rimuginare a posteriori il contenuto di ogni lezione, le riprese sintetiche alla fine di ogni capitolo (le «mappe concettuali») sono un bel servizio che l’A. rende al lettore curioso o pensieroso.

Questo volume non è un manuale d’istruzioni didattiche per artisti desiderosi di creare «arte sacra», né un saggio per spiegare perché alcune determinate opere d’arte sarebbero dei loci teologici. È un’incitazione a meditare sulla profondità e la giustezza dei nessi fra il Dio creatore della materia e gli uomini che Egli plasma con sensibilità. È un accorato appello ai cristiani di oggi e ai loro interlocutori, da una parte, ad andare oltre questa fondazione anaffettiva che ha rovinato buona parte del pensiero occidentale, pur rifiutando dall’altra parte di cedere al canto delle sirene del romanticismo estetizzante.

Occorre affermare con vigore che la credibilità del discorso teologico e quindi la salvezza delle società postmoderne, sia quanto alla verità che quanto all’etica, non si realizzeranno se non si radicano nella Trinità. Si devono radicare in principio nel grembo del Padre creatore. Devono dialogare con «l’Icona […] insuperabile» (p. 168), cioè il Logós incarnatosi con «pro-affezione» nella «Realtà». Devono lasciarsi muovere dallo Spirito che stimola i sensi e suscita una fede affettiva ed effettiva. Una certa autoreferenzialità del pensiero e dell’arte ci rovinano oggi — insensibilmente, forse, ma palesemente: «Il narcisismo, che riduce metodicamente ogni rivelazione dell’altro al rispecchiamento di sé, è distruttivo: non può che affogare nella propria identità illusoria» (p. 229). Sarebbe dunque oggi una missio principalis della teologia fondamentale proprio riflettere sulle patologie postmoderne, con sensibilità e pro-affezione, per aiutare a guarirle, invece di cedere alla tentazione del rispecchiamento di sé che porta ad affogare insieme. Questa è l’esigenza forte a cui ci chiama l’A. Auguriamoci pertanto che il cammino aperto qui ci porti incontro all’«inatteso» divino e salvifico, gioioso e giocoso, di cui il sensibile è mediazione imprescindibile.


N. Steeves, in Gregorianum 4/2017, 866-868

Queste Lezioni di estetica teologica di Pierangelo Sequeri offrono un vigoroso, nonché vorticoso, contributo riflessivo a uno dei temi a lui più caro: la fondazione teorica del rapporto tra ragione teologica e pensiero estetico. L'acerbità della riflessione teologica su questo fronte – ripetutamente denunciata dall'A. - motiva il notevole dispiegamento di forze e l'impegno nell'affondo critico. A giudizio di Sequeri, la struttura stessa della ragione teologica beneficerebbe in misura consistente di tale radicale trasformazione, allontanando lo spettro della sua «evaporazione» in un modello razionalistico di verità.

La posta in gioco del saggio è la riconfigurazione del nesso tra pensiero teologico e pensiero estetico attraverso la sagace e istruttiva ricognizione della parabola del pensiero moderno e postmoderno, colta nella sua ambivalenza. Gli interlocutori sono gli "evangelisti" della decostruzione postmoderna, a partire da Nancy, ma anche gli alleati fenomenologici come Marc Richir.

Fin dalle prime righe Sequeri libera il campo da ogni fraintendimento, bandendo qualsiasi forma di ermeneutica teologica dell'arte, e procede piuttosto in una "decostruzione delle decostruzioni", in vista della rifondazione estetica della ragione teologica.

L'opera si compone di quattro parti (Estetizzazione del mondo, Ritorno del fenomeno, L'impensato cristologico, Miraculum e sacramentum) e presenta alla fine di ogni capitolo un'utile «Mappa concettuale» per agevolare il lettore nella sua fatica. In effetti un certo affaticamento è quasi inevitabile, perché l'A., ispirandosi esplicitamente fin dall'inizio alla navigazione balthasariana, si muove con consumata abilità nell'incrocio tra i saperi e le arti, pur tenendo ferma la barra sulla giustificazione epistemica delle varie connessioni del postmoderno, in relazione alla teoria della coscienza credente. Forse lo scioglimento di qualche passaggio eccessivamente criptico renderebbe la lettura più agevole.

La prima parte (Estetizzazione del mondo) indaga il rovesciamento operato dall'estetica nella gerarchia interna alla filosofia, all'interno della quale si pone non solo come "arte", ma anche come motore ontologico ed etico. Tale capovolgimento viene operato dal movimento romantico, con il quale - a giudizio dell'A. - la teologia deve ancora confrontarsi in modo adeguato. Dovrebbe farlo, se non altro, a motivo dell'«esculturazione totale del pensiero religioso» (p. 49) che contraddistingue «il canone neo-moderno dell'ego tecnologico e commerciale» (p. 48). La pensabilità filosofica dell'estetico in teologia è impraticabile senza quello che Sequeri, senza mezzi termini, definisce un nuovo "trascendentale", cioè il «trascendentale della sensibilità secondo lo Spirito (spazialità e temporalità comprese)» (p. 69).

Il secondo gruppo di lezioni (Ritorno del fenomeno)scava un solco fecondo nel terreno dei rapporti tra lo spirituale e il sensibile, segnalando al lettore che i «transiti teologici nella fenomenologia» - come li definisce l'A. - non approdano a una elaborazione teologica «univocamente definita» (p. 78). Nel mare magnum dei rapporti tra fenomenologia e teologia, Sequeri distingue tra una teologia sedotta dall'enfasi della corporeità (che potrebbe favorire una nuova fenomenologia della sensibilità e il rispolvero in chiave fenomenologica dell'adagio caro cardo salutis, a condizione di liberarsi da una certa retorica di maniera) e una teologia più avveduta (nonché speculativamente più attrezzata) e interessata alla fenomenologia teologica. Nei confronti di quest'ultima, però, Sequeri evidenzia due limiti.

Il primo riguarderebbe il rischio di mancare l'effettiva reciprocità tra la libertà dell'uomo e la rivelazione di Dio in quanto tale reciprocità sarebbe assorbita all'interno dello schema trascendentale della correlazione tra soggetto e oggetto. Al contrario, «la correlazione fra la libertà dell'uomo e la rivelazione di Dio non è tema del quale si può venire a capo nello schema soggetto-oggetto, dato che il rapporto è tutto interno alla soggettività» (p. 85). Il secondo riguarda il rapporto con la temporalità, che rimarrebbe «totalmente nel vago» (pag. 86), senza raggiungere la dimensione pratica del corporeo, del sensibile, della storia e della relazionalità, mentre l'obiettivo sarebbe raggiunto dall'ontologia della pro-affezione proposta da Sequeri. La pista più promettente viene intravista nella figura estetica ed etica della rivelazione del voler-bene e del far-essere propri di Dio. Due meditazioni post-husserliane (rispettivamente di E. Levinas e di M. de Bestegui) completano la decostruzione di una fondazione anaffettiva e abbozzano la risalita verso una metafisica dell'affezione che trova una prima espressione nel tema della nascita.

La terza parte dell'opera (L'impensato cristologico)denuncia l'indebolimento provocato dallo slittamento semantico dalla generazione alla processione, vedendo nel tema della generazione del Figlio una «germinazione del tema trinitario» (p. 157), considerata assai più feconda rispetto alla tradizione teologica classica, poiché capace di esprimere l'originalità originata del Figlio rispetto al Padre. Nella ripresa del tema kantiano del sublime da parte del fenomenologo Marc Richir, in particolare nelle sue ultime opere (Phantasia, Variations), Sequeri intravvede una possibile strada per la teologia: l'affezione pura, in quanto intrinsecamente ambivalente, necessita di un processo di differenziazione, pena il rimanere dell'affettività primaria nell'inseparatezza originaria di sensibilità e lógos.

L'ultima parte (Miraculum e sacramentum)offre un ulteriore contributo alla decostruzione dell'ingarbugliato nesso dell'estetica e dell'arte con la filosofia e la teologia. Poiché ciò che custodisce il divino e l'umano dall'ambivalenza è il primato della differenza (secondo l'assioma del concilio Lateranense IV), Sequeri esplora le forme dell'immaginazione che sperimentano la somiglianza nella dissomiglianza, come la metafora, il simbolo, l'analogia e l'omologia, fino ad approdare alla triade dell'adorazione, della bellezza e dell'espressività. Il volume si chiude con un riferimento ai sacramenti, che custodiscono l'eleganza e l'afflato della pro-affezione di Dio e della sua economia salvifica, affidata alla fragilità dell'affezione credente.

L'attraversata è compiuta, ma Sequeri non nasconde al lettore l'intenzione di offrire in futuro un ulteriore sequel dell'opera, dichiarando di aver rinunciato - ma solo «per ora» - alla puntuale ricostruzione storica e alla documentazione più analitica dei fecondi nessi tra estetica, fenomenologia e teologia. L'intenzione, formulata a mo' di conclusione, emerge anche nella conclusione: «Dalle parti dell'arte, come da quelle della filosofia, sono disponibili punti di incontro più audaci e generosi per il lavoro dell'affezione intelligente della fede» (p. 256). In questo senso, l'opera appare come un ulteriore tassello del mosaico teologico di Sequeri, frutto di un non comune - e longevo - itinerario speculativo.


S. Didonè, in Studia Patavina 2/2017, 385-387

Il compianto M.P. Gallagher SJ (1939-2015), cui Il sensibile e l’inatteso [d’ora in poi SI] è dedicato, oltre a ribadire più volte come l’amico P. Sequeri fosse il più grande teologo italiano vivente, parlava di lui come d’un «gigante», d’un «colosso» il cui pensiero rappresenta «un primo passo verso la guarigione» dalla «dimenticanza» e dall’«impoverimento» della bellezza della fede (Mappe della fede. Dieci grandi esploratori cristiani, Vita e Pensiero 2011). È a tale ultima esigenza che risponde questo ponderoso volume.

L’inizio è icastico: «Uno degli elementi più interessanti, in certo modo anche curiosi, dell’evoluzione filosofica recente è proprio una corposa virata della “filosofia prima” verso l’estetica. In altri termini, le classiche questioni radicali della teoria della conoscenza e dell’ontologia fondamentale, vengono ora diffusamente “trasferite” nel dominio dell’estetica: e “ritrattate” in riferimento alle categorie che essa ha tramandato (p. 11)».

Una tesi radicale eppure immediata. Essa s’inserisce in un filone abbastanza esteso secondo il quale fino a poco tempo fa l’estetica, per utilizzare l’espressione di un ‘canonico minore’, non aveva prodotto che alcune rade fiacche ‘glosse a Platone’ (con le necessarie eccezioni). Il quadro però si complica: Sequeri racconta infatti di una disciplina che in anni relativamente prossimi si è vista costretta a uscire allo scoperto per farsi carico di problemi sociali scottanti e inevasi, quegli stessi descritti da Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’Illuminismo (1944/1947), autori dei quali Sequeri condivide patentemente le conclusioni. All’estetica è così toccato fronteggiare la crisi del cosiddetto «platonismo religioso, che coltiva l’ideale della bellezza trascendente come evasione dalla finitezza e dalla precarietà del mondo dato»; una crisi del resto parallela alla «frustrazione» del suo alter ego: quell’«aristotelismo laico» perennemente contraddistinto da un cieco «ottimismo della ragione» (p. 23). Tuttavia, nella fretta di un improbo compito, essa non ha saputo assumersi la responsabilità di quanto oggigiorno, dopo decenni di ‘delitti perfetti’, ha il dovere di far proprio senza (ulteriori) proroghe (e deleghe): un’‘etica dell’immagine’ (sorretta da un’ ‘epistemologia dell’immaginale’). Questa locuzione, usata da F. Vercellone in un recentissimo, discutibile, studio (Il futuro dell’immagine, Il Mulino 2017), riecheggia l’ormai familiare formula ‘come deve essere l’essere per essere come deve’ (‘il trascendentale del senso’), alla quale Sequeri inneggia nel tentativo di aitare l’estetica in siffatta, nobile, impresa. Uno sforzo che semmai efficace potrebbe proporsi come il corrispettivo teoretico dell’eccellente storia dell’arte sacra ricostruita da F. Boespflug nel 2008 (Le immagini di Dio. Una storia dell’Eterno nell’arte, Einaudi 2012).

Se l’idea de Il Dio affidabile (Queriniana 1996), semplificando, era che il pensiero cristiano contemporaneo, pur dotatosi di un’etica, di un’estetica e di una spiritualità dell’agape cristiano (amore di Dio, giustizia di Dio), mancasse di un’ontologia dell’affezione (un ‘ordine degli affetti’) che gli permettesse di oltrepassare il dualismo cartesiano (compresa la logica dell’alterità Io-Tu), SI, sul solco del progetto di ‘estetica teologica’ di Balthasar (Gloria, 1961-1969), sebbene emendato da un troppo facile abbandono al sempreverde annuncio di una «deriva epocale» (p. 61), vuole invece tracciare il profilo di una «fenomenologia dello spirito sensibile» (p. 54). Il risultato di vent’anni di ricerca, già riposto in verità tra le pieghe dell’opus magnum del 1996, può essere così riassunto: quest’ontologia dell’affezione da erigere, quest’ordine degli affetti da definire, coincide con un’estetica teologica della metafora, la quale, per il medium dell’immaginazione, non potrà che mostrarsi capace di congiungere il minimalismo segnico del sacramentum al massimalismo della potenza della Rivelazione. Un percorso che si innesta sul cammino battuto quasi parimenti da E. Cerasi ne Il mito nel cristianesimo. Per una fondazione metaforica della teologia (Città Nuova 2011): trasporre metaforicamente i miti delle Sacre Scritture affinché possano tradere (trasmettere e tradire) il κήρυγμα.

SI sembra quindi teoreticamente inscindibile da Il Dio affidabile. Sulla scorta di Fenomenologia e teoria della conoscenza (1914) di Scheler, giù giù fino a Ricoeur, il primo postulato sul quale il lavoro si struttura – «la connessione originaria di conoscenza e affezione» (p. 95) – risale indubbiamente al grande saggio di teologia fondamentale. L’altro (celato) assunto – la riscoperta della (scolastica) eredità kantiana de Il sacro (1917) di Otto –, viceversa, è tratto da un testo che ieri come oggi non veniva citato nemmeno in bibliografia. Questo ‘fantasma nell’opera’ consente però a Sequeri due mosse: a. ribadire la difficoltà di parlare di ‘esperienza religiosa’ al di fuori di un lessico fenomenologico (come dargli torto?); b. ‘pescare’ dallo ‘scaffale della filosofia’ proprio gli strumenti che andava cercando: l’Einbildungskraft del Kant della seconda edizione della Critica della ragion pura (1787) – il fondamento di tutte le applicazioni dell’intelletto agli oggetti dell’intuizione – e il sublime del Kant della Critica del giudizio (1790). Ovviamente non gli è accordato sposare l’Einbildungskraft kantiana sine ira et studio: comprensibili dunque gli assidui rimandi a Lacan (nodo borromeo) e Žižek (epidemia). Mutatis mutandis per il sublime: che la teologia debba fare i conti con esso è tautologia; non è questo il punto. Da giustificare, piuttosto, è la moderna fruizione di una nozione dal gusto (latamente?) retrò.

Pertanto, in una realtà in cui il concetto lascia indifferenti, l’esigenza è trovare la chiave per una diversa declinazione della facoltà dell’immaginazione e per un’ermeneutica del ‘sublime’ ricontestualizzata. Con irrefutabile originalità Sequeri la rintraccia nell’esame della riflessione estetica di M. Richir (1943-2015), «la formulazione più matura di quel processo di “ritrattazione architettonica” dell’ispirazione husserliana che si è mosso sulla scia della valorizzazione delle “sintesi passive”, individuando il suo punto di svolta nell’opera di Merleau- Ponty» (p. 187). Sentiero innegabilmente accidentato, di cui è quantomeno arrischiato rendere pariglia.

Pressoché ignorata in Italia, se non per i contributi dello stesso Sequeri e di D. Cornati, l’attività di Richir è meglio avvertita oltralpe grazie all’acribia dell’allievo A. Schnell: d’obbligo ricordare Le sens se faisant. Marc Richir et la refondation de la phénoménologie trascendentale (Ousia 2011). Il teologo milanese vi si rifà sovente, attingendo nondimeno direttamente alla fonte. Questa, a ritroso, la strada percorsa.

Per ciò che attiene al sublime il fenomenologo belga corre incontro a Sequeri con Variations sur le sublime et le soi (Millon 2010). Evocare Richir non solo consente a Sequeri di attestarsi su lessico e concetti lui congeniali, ma poco più avanti lo scorta alla conclusione: il sublime è «l’eccesso della potenza di affezione nel mondo, che sospende, simultaneamente, la rappresentazione dell’essere-dato e l’immaginazione del dover-essere» (p. 231). Un periodo prime facie indecifrabile. Per comodità, e senza svicolare dall’impostazione dell’autore, il lettore lo ‘traduca’: ‘il sublime è l’impossibilità di contenere la potenza dell’agape di Dio (Sommo Bene che è buono, Mc 10, 18), il quale nel suo manifestarsi rende vana ogni rappresentazione che l’uomo (si) fa di lui’. Un esempio per chiarire: allorché nel 1903 il Flyer dei fratelli Wright spiccò il volo (l’‘inatteso’) ogni fantasia sul ‘volare’ perse di senso. In pillole: emerse un (nuovo) paradigma, incommensurabile per definizione, che annichilì la ragion d’essere di tutti gli altri. Con piglio uguale in tema differente Sequeri si sarebbe potuto esprimere così: ‘spirituale non è mentale; le due sfere sono geneticamente incongruenti. Ridurre il primo al secondo è, apertis verbis, un utile pretesto per un nascondimento del divino’. Oppure ancora, con il Kant riletto da Fichte a lui tanto caro: l’immaginazione produttiva, benché incardinata sull’immaginazione riproduttiva, la trascende del tutto. Cristo, pur essendo di natura divina, assunse la condizione di servo divenendo uomo (apparve in forma umana). Per questo Dio lo esaltò e gli diede il nome che è al di sopra di ogni altro nome. Gesù Cristo, unione ipostatica di umano e divino, è l’immagine per eccellenza: interamente Dio, interamente uomo (l’‘impensato cristologico’). Ecco che di rimessa il problema trasla: come afferrare questo (sublime) ‘impensato’ impensabile? Per medium symboli: limitare il segno acciocché erompa il miraculum.

La liturgia cattolica, celebrazione eucaristica in praesentia Christi, è tenuta a farsi silente innanzi al sacramentum. Con Ugo di San Vittore: l’anima sarà in grado di discernere l’epifania di Dio soltanto disponendosi recettivamente. Una saturazione figurativa conduce ad un analogon (e talvolta, peggio, a un simulacro, a un feticcio) ma non a Dio. Un minimalismo segnico, al contrario, non ruba spazio all’immaginazione, la quale, come l’aliante dei fratelli Wright, per medium symboli può cogliere anagogicamente la quidditas Dei: l’‘inatteso’ nel ‘sensibile’. Legittimo quindi che la facoltà immaginativa divenga il fulcro dell’argomentazione di un logicista quale Sequeri. Alle spalle, più di chiunque altro, il Richir di Phantasía, imagination, affectivité (Millon 2004). Alle due ultime categorie il filosofo belga accosta con lodevole audacia un’ulteriore faccia del sublime: la phantasía invero «presiede […] alla strutturazione di un’architettura della significazione e del senso che precede l’istituzione epistemica di segno e significato, come anche la costituzione intenzionale di soggetto e oggetto» (p. 198). Sequeri tuttavia non fa leva solamente su Richir – a riprova di un’avvincente virata della teologia fondamentale verso l’eredità più pregiata del Romanticismo. Un nome importante, fresco, è N. Steeves, quell’allievo di Gallagher che in Grâce à l’imagination. Intégrer l’imagination en théologie fondamentale (Cerf 2016) ha individuato nell’immaginazione, dono antonomastico del profeta, la capacità di spillare dal passato per guardare al futuro: la facoltà che dopotutto connota l’haecceitas hominis. Più esplicitamente: immaginare è conoscere; arte è conoscere. Ma se l’immaginazione è arte e, stando a Sequeri, l’arte più alta è la generazione, «dispositivo di accesso alla fenomenologia rivelata dell’affezione» (p. 203), immaginativa è in primis la mente di Dio. Dio Padre, infatti, ha generato l’opera perfetta, un uomo interamente uomo che è Dio interamente Dio: Dio Figlio.

Si può così dismettere la voce a vantaggio di consolanti parole, di parole eleganti che attestano un’intima assimilazione del Salmo 8, delle parole con cui Sequeri risuona per l’ennesima volta l’improrogabile urgente fatale necessità di un minimalismo del segno: «Il dispositivo sacramentale dell’affezione – che attiene radicalmente al regime performativo, ossia alla potenza trasfigurante del significante, e non a quello formativo, che si rivolge alla figuralità del significato – lavora su una base di profonda economia dell’áisthesis. La sua forza vive di sottrazione, più che di opulenza del segno. Il sacramento toglie esuberanza al segno, in favore della concentrazione della sua forza in un punto: e rompe con l’allegoria lussureggiante dei dettagli in favore della metafora che sovverte l’essenziale. Il paragone – sulla falsariga delle parabole evangeliche del regno – è con la margheritina e il bottone che la bambina mi offre. Lo sconvolgimento performativo di ciò che accade in quel modo esatto, non ha paragone con l’atto di coprire di regali preziosi e costosi, che saturano fino ad anestetizzarla la generazione e la rigenerazione del senso della relazione: svuotando la sua forza di contrasto ad una vita distratta dalla preoccupazione di guadagnarla e di assicurarla utilitaristicamente (pp. 242-243)».

Sequeri insomma, mentre in quell’ormai lontano 2010 leggeva la versione inglese di Mappe della fede, deve aver accolto l’eloquente plauso del «maestro» Gallagher come una missione – o almeno così piace pensare. Un unico appunto: in un mondo accademico che invita alla morte la bella scrittura, quando si ha la buona sorte di padroneggiare con tale agio la lingua italiana, abbracciare il minimalismo del segno sarebbe d’auspicio anche per un’estetica della prosa amena. Altresì, soprattutto, in divinis.


L. Pellarin, in Lo Suardo – Rivista di Filosofia 24 (2/2017) 355-359

Apartire dalla messa in campo di von Balthasar della coppia «estetica teologica» – da non confondere né con la teologia estetica né con la teologia dell’opera d’arte – l’a. raccoglie qui una serie di lezioni che dal maestro trae l’urgenza di togliere l’idea di bellezza dallo «splendore oggettivo» e dal «rapimento soggettivo» e di «restituirla al suo dominio proprio: ossia alla dimensione teologica, antropologica, metafisica della luce di trascendenza che irradia dall’evento dell’incarnazione salvifica dell’amore di Dio». Al centro delle riflessioni del teologo sta «la metafora assoluta del concepimento (della generazione, della nascita) che fa essere l’umano». Parallelamente sta il segno sacro, nel suo «minimalismo segnico», che rende accessibile il «massimo di potenza della grazia divina nella graziosa discrezione del minimo creaturale disponibile».


M.E. Gandolfi, in Il Regno Attualità 12/2017

Le livre se présente, d’après le soustitre, comme une série de « leçons d’esthétique théologique ». Il s’agit moins d’un examen théologique des relations entre religion et art – relations qui ont fait l’objet de plusieurs études antérieures de l’A., lui-même prêtre et musicien, aussi bien que de théologiens comme K. Barth, h. Küng et P. Piret – que d’une étude de la perception du sens, dans la lignée de l’oeuvre monumentale de h. U. von Balthasar, Herrlichkeit (1961-1969, trad. fr. La gloire et la croix, 1965-1983). Une telle étude appartient à la théologie fondamentale, que l’A., membre de la Commission théologique internationale, enseigne à Milan. La philosophie et la théologie traditionnelles sont trop souvent fixées sur la pensée de l’être. De la sorte, elles ne réussissent pas à valoriser pleinement le bien et le beau. Irréductibles à l’ontique et au factuel, ils possèdent, avec leur potentiel créateur, une importance ontologique et théologique éminente et primordiale. La sensibilité à la racine de la perception du sens n’existe que dans l’être essentiellement relationnel dont le Dieu trine est la source et le modèle. Les relations qui Le constituent, telle la naissance du Fils du Père, ne sont pas à comprendre selon la logique du fondement, mais se constituent dans l’unité du libre don de soi et de l’accueil reconnaissant de soi. À l’avis de l’A., la pensée du factuel et du fondement doit faire place à une pensée du sensible et de l’inattendu, pensée véritablement chrétienne qui fait pleinement droit à la réalité telle qu’elle se présente à l’expérience dans tous ses aspects, sans que l’on tombe dans cette « esthétisation » du réel qui le fausse et qui ne sert qu’à la commercialisation et la banalisation de l’expérience et de la vie.
R. Jahae, in Nouvelle Revue Théologique 139 (2/2017) 344-345

Il Sensibile per eccellenza ai temi dell’estetica teologica in Italia, il professor Pierangelo Sequeri, interpella ancora una volta con l’Inatteso contributo sul tema, che di recente è stato dato alle stampe nella prestigiosa collana «Biblioteca di teologia contemporanea». Colpisce immediatamente ciò che questo volume manifesta: una passione inesaurita e un interesse sempre vivo verso ciò che Hans Urs von Balthasar aveva indicato come la condizione imprescindibile per un’autentica teologia. Già preside della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e a pochi mesi dalla sua nomina a preside dell’Istituto “Giovanni Paolo II” per gli studi su matrimonio e famiglia, Sequeri è esemplare per la tenace fedeltà alla sua vocazione originaria, quella per l’estetica teologica. Ammirevole è anche per la straordinaria capacità teorica del suo genio e l’acume con cui ancora una volta affronta i temi che gli sono cari, offrendone una mirabile ed efficace sintesi, assieme ad uno sviluppo maturo e ad un chiaro programma per l’agenda della teologia. D’altronde l’opus magnum del 1996, Il Dio affidabile, i numerosi e vari scritti sull’argomento e il lavoro teologico di tanti anni invocavano l’urgenza di una trattazione autorevole e organica, che prendesse in considerazione gli apporti filosofici più recenti, che facesse da sintesi sistematica del pensiero dell’autore e che fosse svolta guardando all’evoluzione dell’estetica teologica negli ultimi decenni, dalla lezione di von Balthasar alla sua ricezione, passando attraverso la ripresa italiana da parte dello stesso Sequeri e i frutti che questa ha avuto.

L’opera, quindi, si pone innanzitutto come un approfondito status quæstionis sull’evoluzione della disciplina e, dopo questo passaggio obbligato e urgente (prima e seconda parte), propone una solida e preziosa “lezione di estetica teologica” (terza e quarta parte). I paragrafi che la compongono potrebbero essere considerati come altrettanti saggi teologici – topics – che, sapientemente disposti e organizzati, costituiscono le 10 lezioni in cui si snoda il percorso su cui Sequeri conduce progressivamente. E facendo da guida e da maestro egli usa al lettore la cortesia di fornire puntuali ed essenziali mappe concettuali, che aiutano i non addetti ai lavori e permettono la visione del progetto con un unico sguardo. L’obiettivo è chiaro ed anche chiaramente espresso: «Cerco di portare il mio contributo storico-teoretico al progetto di un’estetica che possa interloquire con la ragione teologica» (p. 7). Di questo si avvertiva il bisogno. Accompagna lo sviluppo dell’obiettivo la sua mai sopita intenzione-missione di emancipare e riscattare l’estetica dalle riduzioni psicologistiche e dall’univocità artistica, che presuppone lo sforzo di ricollocazione della disciplina: la continua tensione dialogante che si mantiene con il contesto della teoria dell’arte è una sapiente scelta, in vista e a servizio dell’autonomia dialogica di entrambe le scienze.

I due movimenti – la diastole e la sistole – che insieme compongono le prime due parti dell’opera possono essere racchiusi dalla seguente domanda: “Che fecondità ha generato il seme lanciato e quali i vuoti che ancora richiedono di essere colmati?”. La preoccupazione dell’autore è verificare, innanzitutto, il grado di ricezione che ha avuto la lezione di von Balthasar – e in Italia la sua – sulla necessità dell’apporto estetico per la teologia e positivamente egli constata, già nelle pagine della prefazione, che, se ieri la questione era guardata con diffidenza o scetticismo, oggi «suscita entusiasmi e attese» (p. 6). Data la sostanziale disposizione favorevole del contesto teologico, è ora necessario mettere a tema la questione teorica del nesso tra estetica e teologia in maniera critica e sistematica: che questo lo offra proprio Sequeri, il quale possiede la necessaria esperienza e la dovuta lungimiranza per farlo, rende l’opera un’attesa e preziosa elaborazione ragionata su un tema rimasto per troppo tempo teoreticamente poco frequentato, con lo spiacevole risultato di averlo gettato nell’ambivalenza e nella confusione, in preda e in balia delle voci più disparate. Sembra voler alludere a tale nesso l’efficace titolo: il sensibile è l’estetico, la sensibilità spirituale, l’ambito della vita costituita da emozione, sentimento, percezione, l’Inatteso è Colui che inaspettatamente viene nella carne e diventa sensibile, portando nel mondo di Dio il mondo sensibile dell’uomo. L’incarnazione del Verbo è il fondamento originario dell’estetica teologica.

L’organizzazione della materia è già un vettore di senso che, seguito fedelmente, consente di cogliere l’evoluzione del pensiero. L’opera si apre infatti con la parte sulla Estetizzazione del mondo, in cui si percorre per grandi linee la storia dell’estetica moderna sin dal suo sorgere come disciplina della percezione sensibile ad opera di Baumgarten, in obbedienza al significato originario del termine áisthēsis. Se da una parte è chiaro l’intento di riequilibrare i due termini della questione, ragione e affezione, che hanno costituito i due poli di oscillazione dialettica del pensiero, dall’altra è inevitabile constatare la deriva estetizzante che ha assunto il mondo contemporaneo e che indica in controluce la pregnante rilevanza dell’estetico, ormai però reso anestetizzante perché privato del suo senso profondo e travisato nella superficialità dell’emozione fuggevole. E tuttavia, dinanzi al paradosso cristiano, tale deriva non appare poi così drammatica: la forma Christi (Gestalt) scardina ogni ingenua estetica e fornisce i termini per la sua ridefinizione. La parte seconda, Ritorno al fenomeno, va alla ricerca degli apporti positivi dell’estetico attraverso la feconda avventura filosofica della fenomenologia e cerca su questa direttiva le vie per la ricomposizione tra ragione e affezione, improrogabile per la cultura occidentale. Due le linee prospettate: da una parte l’indicazione di concentrarsi sull’evento divino che si rivela, piuttosto che sull’idea a priori su Dio; dall’altra la sollecitazione a riacquisire la vera ratio hominis digna attraverso l’accordo con l’umana sensibilità per il senso. Due i filosofi ancora non adeguatamente valorizzati: Max Scheler, per la sua connessione originaria tra conoscenza e affezione, e Maurice Merlau-Ponty, per l’iscrizione dell’esperienza spirituale nella sensibilità e nella corporeità. Accanto ad essi si pongono le preziose lezioni di fenomenologia offerte da E. Levinas da M. de Beistegui. Continua ad essere urgente il recupero teologico del tema della corporeità, nella sua profondità di senso, priva delle riduzioni biologiste o platoniche, mantenendo fisso il punto di equilibrio e chiara l’armonia tra carne e spirito, senza la quale non si dà ragione né del corpo personale né dello spirito incarnato. In questa prospettiva prende forma la riflessione sulla categoria originaria della generazione del figlio, per superare la fondazione anaffettiva della teologia. Attraverso il lessema pro-creazione Sequeri individua le due coordinate principali: il mistero della creazione dell’essere e la disposizione affettiva e libera (pro-) di far essere l’altro. Il voler-bene che precede e determina la generazione segna l’essere e dà accesso al volere libero dell’essere che viene al mondo. Nell’approfondimento di questo nucleo egli vede «un compito difficile e urgente» (p. 153), di specifico interesse della teologia.

Le altre due parti del testo possono andare sotto la generale qualificazione di parte cristologica (L’impensato cristologico) e sacramentaria (Miraculum e sacramentum). Sequeri infatti procede con una sezione in cui la categoria di generazione, rintracciata come snodo cruciale, è studiata nei suoi risvolti estetico-teologici a partire dal nato da Donna e dall’imago Dei, per giungere ad affermare che la generazione è il vero trascendentale intrascendibile, in quanto «l’affezione creatrice dell’altro che generò noi stessi come singolarità indeducibile» (p. 179) si pone come primum cognitum dell’uomo. Una particolare consonanza è trovata con il tema della phantasía di M. Richir, che innova la definizione dell’esperienza ponendo l’immaginazione del reale in stretta connessione con la coscienza e realizza una rifondazione fenomenologica del Sé che può tornare utile alla riflessione teologica. L’ultima parte si svolge attorno alle tre parole-chiave di adorazione, bellezza, espressività che emergono dalla realtà del sacramento. Qui si ridefinisce l’estetico in rapporto vitale con il sublime, si ripropone la perenne ed eloquente dialettica misterica tra l’avidità di percezione e l’essenzialità del segno sensibile e, in ultima analisi, si garantisce un’estetica teologica veramente tale, che fa i conti anche con la negazione dell’estetico e la attraversa approfondendosi.

Non sono rare, nel corso dell’intera opera, le stoccate rivolte alla teologia, in ritardo riguardo alla frequentazione dell’estetica, essendosi limitata al commento delle opere artistiche e, adesso che l’arte ha preso congedo dall’estetica, anche confusamente vagante. A tal riguardo l’autore auspica un’arte che sappia restituire forza e immaginazione all’eccedenza del voler-bene sull’essere-bene e possa in questo modo ancora relazionarsi con un’autentica teologia e servirla. Certo, a ben guardare, emerge criticamente anche lo scarto con cui una riflessione sulla generazione e sul concepimento, poste da Sequeri come categorie originarie, possa intercettare l’animus di chi si ritiene ormai arbitro indiscusso anche in questa materia. Recisi – o almeno travisati – i legami tra paternità-maternità e generazione-concepimento del figlio, sicché quest’ultimo è sempre più figlio del desiderio, può risultare non più comprensibile questa riflessione pur fondamentale, per cui è necessario non dare più per assodata la dinamica della generazione. Forse si sente il bisogno di una più abbondante insistenza sul proprium della generazione umana, a fronte e contro la sua manipolazione. Anche questo sarà probabilmente già sul programma del preside dell’Istituto Giovanni Paolo II.

Il sensibile e l’inatteso non è certamente un’opera di immediata lettura: bisogna entrare nel linguaggio, denso ed intenso, e perseverare, fare lo sforzo della fedeltà. Assunta la prospettiva e abituato l’orecchio, si naviga speditamente – anche se non facilmente – all’interno dell’opera. Una sinfonia non la si rifiuta per le apparenti dissonanze iniziali o per l’arditezza delle scale che la compongono: se la si ascolta con pazienza se ne coglie l’armonia. Qui accade allo stesso modo se si supera, senza aggirarlo, il primo sbarramento dell’ermeticità del linguaggio e del relativo condizionamento a riguardo da parte della vulgata della critica pregiudiziale. Sì, perché Sequeri è ardito e, mentre è un piacere ascoltarlo, è un’impresa leggerlo. Eppure va letto: egli ha coniato un linguaggio per la sua estetica teologica ed occorre necessariamente apprenderlo, così come il suo stile, il modo tutto suo con cui naviga in queste acque (cf. p. 7). Il sottotitolo dell’opera la inquadra come una serie di Lezioni di estetica teologica: la veste, in effetti, è pienamente quella della lezione, ed anche le note a piè di pagina sono prevalentemente rimandi ad opere di riferimento per ciò che assume vieppiù i tratti di una meditazione speculativa di estetica teologica. Se è permesso un auspicio, non può che essere quello di un’estetica teologica resa più accessibile soprattutto per chi se ne accosta per la prima volta: ciò renderebbe l’ambito anche più praticabile con il rigore che esso esige e che Sequeri rispetta fino in fondo.

Concludendo: «Il lògos di una ragione anestetica e il nòmos di una verità anaffettiva non hanno nulla a che fare con il Lògos della generazione divina e della salvezza della creatura» (p. 6) e addirittura assurgono – o sprofondano – al livello del demoniaco: sono i demoni che hanno ben chiara la verità di Dio eppure non hanno «alcuna dimestichezza con la pro-affezione che impegna il Lògos e lo Pnêuma di Dio nella generazione e nella rigenerazione della creatura umana» (p. 254). La teologia che disconosce la sua originaria vocazione estetica diventa “demoniaca” e si allontana sempre più sia dall’intellectus fidei che dalla ratio hominis digna: l’opera è un’ulteriore affondo contro il demoniaco rifiuto dell’estetico e a favore di una teologia sempre più autentica.


F.A. Iraci, in Studia Moralia 54 (2/2016) 349-353

È molto facile confondere l’estetica teologica con una teologia estetica, una riflessione fatta dalla teologia su arte e derivati, motivo per cui già Hans Urs von Balthasar – avviando la sua trilogia con il primo volume di Gloria (Herrlichkeit) – avvertiva dal pericolo che l’estetica teologia venga confusa oppure scivoli dall’intento iniziale che colloca la riflessione sul piano oggettivo e istituita con i metodi della teologia verso una teologia estetica che tradisce il contenuto teologico vendendolo alle convinzioni correnti della dottrina intramondana della bellezza. È lo stesso avvertimento che accompagna le prime pagine dell’ultimo saggio di Pierangelo Sequeri, Il sensibile e l’inatteso. Lezioni di estetica teologica (Queriniana, Brescia 2016).

Neppure il fascino di una teologia che attira a sé e al suo “Oggetto” attraverso l’attrattiva dell’estetico costituisce una pista percorribile a lungo per l’A., giacché tale fascino, privo di una fondazione oggettiva nel quid della Rivelazione, rischia di riecheggiare la disgiunzione tra i tre trascendentali di cui Balthasar denunciava i tragici effetti. «L’indebolimento della ragione – scrive Sequeri – e l’estetizzazione del mondo sono ospiti inquietanti, anche quando portano doni alla fede». La fede non può accontentarsi di alleanze mediocri e di corte vedute.

Trovatasi dinanzi a due interlocutori diversi – l’illuminismo razionalista e il romanticismo estetizzante – la teologia, e in particolare l’apologetica, si è ritenuta più affine con il registro razionale della prima. Evocando questa storia l’A. scrive: «L’apologetica ritiene più affine il protocollo razionalistico: all’interno del quale conduce la sua battaglia per il riconoscimento della ratio fidei. Dall’altro lato, la sensibilità cattolica nel tempo della crisi subisce (per lo più inconsciamente) l’irresistibile fascino dell’esaltazione estetica del religioso, che fa parte di una larga falda del movimento romantico».

La «questione romantica» è stata lasciata alla prassi – spesso non tematizzata –rimanendo non dipanata dalla ragione teologica. Anche se alcuni suoi aspetti sono stati considerati nel dibattito intorno alla crisi modernista, essi sono stati di fatto questioni riguardanti le «implicazioni metafisiche e dogmatiche dell’idea della rivelazione e della fede».

Questa lacune di trattazione storica si fanno ancora più gravi in un’epoca come la nostra dove la bellezza – resa epidermica, sensuale e sensazionale – non salva affatto ma fa perdere, la testa, i sensi e il senso. Da qui l’esigenza di ritrattare la questione della bellezza nella sua valenza oggettiva – ben oltre l’analogia – per recuperare lo strumentario senziente adeguato per cogliere il senso (parte seconda), necessario per contemplare e ac-cogliere la teodrammatica dell’incarnazione di Dio in Cristo crocifisso, morto e risorto (parte terza) e sincronizzare la celebrazione del Pulchrum nella compagine della leiturghia e del sacramentum (quarta parte).


R. Cheaib, in www.theologhia.com 1/2017

Divenuto dall'agosto scorso Preside dell’Istituto «Giovanni Paolo II» per gli studi sul matrimonio e la famiglia, Pierangelo Sequeri è uno dei più noti teologi italiani. Animato da molteplici interessi, egli ha costantemente manifestato una particolare attenzione per la dimensione estetica (tra l’altro, molto conosciuta e apprezzata è la sua attività di musicista) e dunque non sorprende che tale predilezione si renda palese anche nel suo ultimo libro Il sensibile e l'inatteso. Lezioni di estetica teologica.

L'autore dichiara apertamente di avere non l'intenzione di offrire istruzioni teologiche sulla lettura delle opere d’arte, bensì la volontà di ridisegnare le linee fondamentali della questione teorica del rapporto fra ragione teologica e pensiero estetico, e pertanto manifesta il desiderio di mettere a punto in chiave critica e sistematica il nesso fra estetica e teologia.

Sequeri ritiene opportuno fare riferimento alla grande lezione di Hans Urs von Balthasar, che per primo comprese la possibilità e l'utilità di una fondazione estetica della ragione teologica: «Balthasar, si legge nel libro, urge il dissequestro della idea di bellezza, come splendore oggettivo e come rapimento soggettivo, dalla sua chiusura nell'immanenza dell'opera d'arte, per restituirla al suo dominio proprio: ossia alla dimensione teologica, antropologica, metafisica della luce di trascendenza che irradia dall'evento dell'incarnazione salvifica dell'amore di Dio».

Il volume è suddiviso in quattro parti e dieci capitoli, al termine di ciascuno dei quali è posta una mappa concettuale che ne sintetizza i contenuti principali. Al termine del percorso tracciato da Sequeri emerge l'immagine di un'estetica teologica che, come sostiene l’autore stesso, «è chiamata a illustrare l'episteme della loghikè latréia che scandisce l'iniziazione della creatura alla vita dello Spirito. Nell'enigmatica legatura (logos) di miraculum e sacramentum, essa ci mantiene nella libertà di fronteggiare all’impronta (exaiphnes) i folgoranti passaggi dell'Inatteso attraverso la nostra sensibilità (aistheisis) per il voler-bene che fa-essere».


M. Schoepflin, in Avvenire 7 gennaio 2017

Tra i libri impegnativi, che al lettore versato in teologia richiedono generosità di tempo e paziente ingresso nella complessità dell’ordito, si annovera certamente l’ultimo saggio (Il sensibile e l’inatteso. Lezioni di estetica teologica, Brescia, Queriniana, 2016, pagine 268, euro 20) di Pierangelo Sequeri, già preside della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, di recente nominato da Papa Francesco preside del Pontificio istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia. Sul reale sensibile di cui siamo fatti e la sorprendente visita di Dio nell’umano si dipana la trama delle lezioni di estetica teologica di Sequeri.

La teologia contemporanea è stata felicemente provocata e convocata a interessarsi dell’estetica dal grande teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988). Una provocazione distante dalla comune idea che all’estetica si riferisca principalmente una teoria dell’arte sacra — o spirituale, o cristiana. Una convocazione invece da parte della teologia fondamentale, che si occupa di stabilire le premesse e gli argomenti della intelligibilità e credibilità umana della rivelazione cristologica di Dio.

Di questa impostazione Sequeri cerca di approfondire la legittimità e il senso, assumendone l’orientamento anche dal punto di vista critico, ben lungi dalla retorica sentimentale di una teologia più “estetica”. Il saggio di Sequeri intende restituire la ragione estetica — che egli intende come articolazione della umana «sensibilità-affezione per il senso» — all’alto profilo dell’esperienza della fede cristiana. Per questa via, il progetto illustra la speciale congruenza estetica della coscienza etica, indirizzata alla ricerca della giustizia della sensibilità e dell’affezione dell’uomo, e della coscienza religiosa, orientata all’adorazione in spirito e verità della rivelazione di Dio. La delicatezza del compito di conciliare in profondità il pensiero estetico e l’intelligenza teologica dipende anche dalla vicenda del pensiero estetico moderno, come anche dalla crisi dell’arte bella.

L’odierna estetizzazione del mondo — e con essa anche lo svuotamento dei significati dei nessi del bello con l’etico e con il religioso — deve essere più accuratamente messa a fuoco nella sua ambivalenza: anche quando professa l’idealizzazione dell’amore, nel suo orizzonte virtualmente nichilistico.

La prima parte del lavoro di Sequeri è rivolta alla decifrazione del doppio movimento della contemporaneità che, da una parte, rivaluta l’estetico nell’ambito del pensiero filosofico e, dall’altra, estetizza il mondo tendendo a ridurre l’idealità dell’arte al mercato dell’apparire e del benessere. Le linee portanti del progetto di rifondazione teorica della ragione estetica, e del suo intrinseco nesso con la ragione teologica, possono essere sintetizzate in questi due assunti fondamentali.

La prima linea di approfondimento critico, nella seconda parte del saggio, si applica alla rielaborazione fenomenologica e ontologica della disposizione dello spirito alla sensibilità e all’affezione per il senso. Questa disposizione, nella prospettiva di Sequeri, deve essere ricondotta alla specifica dimensione spirituale dell’essere umano, che include e trascende l’intelletto e la volontà, per la quale egli riconosce di essere destinato alla giustizia dell’amore, e perciò all’amore della giustizia. L’essere finito, l’essere incarnato, riflette e realizza questa disposizione originaria, irriducibile alla sua corporeità, come anche alla sua razionalità.

La seconda linea di approfondimento, alla quale è dedicata la terza parte del libro, riguarda la corrispondenza tra questa disposizione creaturale e la sua fondazione nella verità cristologica della “affezione” e della “sensibilità” di Dio. Il perno della dimostrazione di Sequeri è posto nella rivelazione cristiana della eterna affezione generativa di Dio, che l’autore definisce come pro-affezione trinitaria. Il Figlio e lo Spirito sono radicati nella originaria sensibilità di Dio, della quale i corpi creati non sono affatto detentori in proprio: l’umana capacità di desiderare, riconoscere e attuare la giustizia dell’affezione verso il vero, il bene e il bello è riflesso, immagine e somiglianza del Figlio e dello Spirito di Dio.

Il libro di Sequeri si conclude, nella sua quarta parte, con le implicazioni pratiche e dell’esercizio cristiano dell’estetica teologica. Da un lato, l’arte deve dispiegare la potenza dei suoi mezzi per evitare la riduzione della testimonianza e della celebrazione alla comunicazione astratta di informazioni su Dio e le cose di Dio. Soltanto l’arte può integrare il linguaggio cristiano con la narrazione, l’immagine, la mimica e la risonanza, che rendono riconoscibili gli eventi della rivelazione e dell’amore di Dio.

L’evangelizzazione e la comunicazione della fede ne risplenderanno, rendendo giustamente ammirato e adorante l’accesso al sacramento. D all’altra parte, il sacramento cristiano, in quanto mistero della discrezione affettuosa e della potenza non esibizionistica di Dio — i segni e le forze di Gesù, attestati dai vangeli — deve custodire la bellezza della «divina sproporzione» fra i gesti del contatto con Dio che ci cambia la vita e i segni semplici e quotidiani in cui questa potenza si condensa. In questa complementarità, dello splendore dell’arte che racconta e della semplicità del sacramento che opera, si decide l’equilibrio di una estetica teologica ben pensata. E anche praticata. Di qui dovrà proseguire il suo cammino, arricchendosi auspicabilmente di nuovi e più ampi approfondimenti.


M. Gronchi, in L’Osservatore Romano 29 dicembre 2016

Che il sensibile abbia a che fare con l’estetica è detto fin nell’etimo della parola; per la comprensione comune è ancor più ovvio che questo ramo della filosofia abbia a che vedere con il bello, ma dove collocare «l’inatteso»? Per rispondere alla domanda occorre tener conto dell’aggettivo: si tratta di «estetica teologica». Esauriti gli ingenui tentativi di riconversione devota dell’arte bella, occorre riaprire un orizzonte che impedisca alla ragione teologica di evaporare nell’astrattezza del modello razionalistico di verità senza cadere nel contempo in una rischiosa sostituzione religiosa dell’eccitazione estetica. Tenendo conto di questo scenario, l’a. individua l’inatteso teologico della verità del senso nell’evidenza rivelata dell’incarnazione del Figlio. A partire da ciò Sequeri propone una impegnativa ricostruzione fenomenologica e ontologica della sensibilità spirituale che è compito della ragione teologica restituire al suo fondamento. Il libro è diviso in quattro parti: «Estetizzazione del mondo», «Ritorno del fenomeno», «L’impensato cristologico», «Miraculum e sacramentum».
In Il Regno 22/2016