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Iscrizione e rivelazione
Pierangelo Sequeri

Iscrizione e rivelazione

Il canone testuale della parola di Dio

Prezzo di copertina: Euro 23,00 Prezzo scontato: Euro 21,85
Collana: Giornale di teologia 446
ISBN: 978-88-399-3446-8
Formato: 12,3 x 19,3 cm
Pagine: 304
© 2022

In breve

A cura di Francesca Peruzzotti

«Questo libro è il frutto della ripresa di un tema che mi sta molto a cuore, sul quale ritengo che la teologia cattolica non abbia ancora realizzato una concentrazione adeguata» (Pierangelo Sequeri).

Descrizione

La cura che la ricerca teologica dedica all’indagine del ruolo della Bibbia nell’esperienza della fede cristiana non sarà mai proporzionata alla ricchezza di quel canone scritturistico. Quest’opera – fruibile sia da chi incontra la teologia per motivi di studio sia da chi vi si accosta per accrescimento personale – sviluppa le categorie proposte ne Il Dio affidabile per definire la centralità della Scrittura biblica, “lingua madre” custodita da ebraismo e cristianesimo, contributo decisivo allo sviluppo della cultura tutta.
La rilevanza della Bibbia si delinea a partire dalla sua descrizione come rivelazione attestata, legata in modo canonico alla figura di Gesù e all’inaudita identità del Dio di cui è Parola. La Scrittura è peraltro corpo vivo: le forme e le forze di quel testo agiscono tracciando lo spazio ospitale per ogni umano e le modalità della sua accoglienza ecclesiale e liturgica.
Entrando in dialogo con i principali apporti forniti dalla teologia fondamentale, dall’esegesi biblica e dall’estetica della lettura, Sequeri guida alla scoperta delle occasioni di pensiero e di maturazione umana che la Bibbia continua a generare.

Recensioni

Recensire un libro di Pierangelo Sequeri sulle pagine a missione divulgativa di questo blog di “teologia in briciole” rischierebbe di essere un doppio atto di tradimento: un crimine di alto tradimento contro la divulgazione; un annacquamento del pensiero di un teologo noto per la densità diamantina delle sue sintetiche formulazioni. Eppure, chi riesce a sostenere la “fatica del concetto” (come la chiamava Rahner), non esce a mani vuote dai testi di Sequeri e in questa “#1pagina1libro”, vorrei tentare di tradurre (sperando di non tradire) almeno una delle intuizioni di uno degli ultimi testi dell’autore, docente emerito di teologia fondamentale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, intitolato Iscrizione e rivelazione, Queriniana 2022.

Prima di tuffarci nel filone scelto, vale la pena indicare che il volume nasce dalla sollecitazione di due allievi (ora colleghi) di Sequeri: Ezio Prato e Francesca Peruzzotti. Sequeri ha accolto l’invito ad accorpare gli elementi sparsi sulla teoria e la pratica del testo biblico enunciati in Il Dio affidabile e sparsi in altri contributi in dialogo con l’esegesi, la liturgia, la letteratura, l’estetica e la pastorale. Il risultato è questo volume in quattro parti: la prima e la terza costituite da saggi già pubblicati e la seconda e la quarta da testi sostanzialmente inediti.

Veniamo ora al tema che vorrei mettere a fuoco e che si ispira essenzialmente alla prima parte del volume: la pratica del testo biblico. Tale pratica si trova tra due estremi che, ognuno a modo suo, ignorano uno degli autori del testo. Da un lato, vi è la spiritualizzazione eccessiva del testo dove si tende a mettere in rilievo l’Autore divino a discapito degli autori umani ridotti a meri strumenti e scrivani. Dall’altro, vi è l’orizzontalizzazione del testo che lo riduce a un testo umano troppo umano, senza alcun riferimento all’Autore divino. Chi cerca di fare della teologia, con la Scrittura quale anima di questo ministero, è familiare con la tensione sovente irrisolvibile tra esegesi e teologia. Sequeri puntualizza la ragione di fondo di questa tensione così: «L’autorevolezza canonica dei libri sacri, ricondotta alla speciale qualità dell’ispirazione divina che presiede la loro composizione, non li sottrae alla reale complessità storica della loro formazione, della loro redazione e della loro recezione. La dottrina credente dell’ispirazione e delle condizioni normative dell’appropriazione del senso/dei sensi scritturistici implica certamente il riferimento a una indisponibile azione storica di Dio e a una iniziazione spirituale affidata alla cura della chiesa».

Tale tensione rimanda al rapporto tra la Rivelazione e la Scrittura. Quest’ultima non è la Rivelazione tout court, bensì «iscrizione della rivelazione passata a futura memoria». In altri termini, bisogna riconoscere che «la rivelazione non è l’involucro scritturale». Nondimeno, la manomissione della lettera comprometterebbe l’accesso alla rivelazione. Lettera e spirito camminano insieme. Separarli è affondare l’una e l’altro. Blondelianamente parlando, è la pratica fedele della lettera che è la porta d’accesso allo spirito. Respirare il testo è l’unico modo per accedere alla sua ispirazione. Questo peso e questa responsabilità sono felicemente condensati nella formula «rivelazione attestata» che si trova nel documento della Pontificia Commissione Biblica su L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Quest’espressione, usata en passant nel documento della PCB è pregna di fecondità. Sequeri la interpreta così: «La realtà della rivelazione, infatti, come evento reale dell’autoattestazione di Dio alla quale il testo rinvia, è sempre più grande e più inafferrabile del testo stesso: non coincide con il significato documentale degli scritti che lo compongono e con le riscritture, le integrazioni, i commenti che la rendono accessibile». E le implicazioni concrete non sono assolutamente di poco conto perché «la consegna della manifestazione di Dio, sperimentata nella storia della vita di fede e nella esperienza della relazione credente, alla forma scritta dell’attestazione e della comunicazione, implica una fondamentale decisione sull’accessibilità di quella manifestazione anche a distanza dal suo prodursi e anche per il non contemporaneo».

Accettare la mediazione mette in gioco l’uomo e Dio: «Nell’accettare la mediazione della scrittura – unica e insostituibile, e al tempo stesso pubblica e disponibile – anche il soggetto divino accetta in certo modo di congedarsi dalla mera autoreferenzialità dell’atto rivelatore. La scrittura destinata a questa sottrazione, nei confronti dell’attualismo irripetibile dell’evento, interrompe anche il circuito di una possibile requisizione esoterica e/o anacronistica del testo sacro. Il contrarsi e il ritrarsi della manifestazione di Dio nella parola testimoniale consente al testo biblico la possibilità di avere una propria storia: sia rispetto all’evento fondatore, sia rispetto alla tradizione ermeneutica. Analogamente, il testo che ne procede esibisce in ciò stesso l’onestà intellettuale dell’originaria diakonía e dell’irreversibile sottomissione della scrittura testimoniale alla rivelazione attestata».

In questa linea, lo spazio liturgico – tra preghiera, predicazione e vissuto – costituisce lo spazio di incontro tra le due “nature” del testo, tra le sue due dimensioni e due esigenze. Lo spazio liturgico è «il polo rituale necessario della costituzione e della restituzione canonica del testo». La celebrazione, «in quanto lettura regolata e attualizzazione ermeneutica della Parola, sottrae la rivelazione biblicamente attestata a ogni requisizione esoterica e a ogni congelamento fondamentalistico».

Il circolo che si istituisce allora è il seguente: la fede cerca l’esegesi quando vuole leggere-dentro il testo, giungere alla sua intelligenza diacronia. Ma anche l’esegesi interpella la fede perché è nel milieu credente, liturgico che offre la luce per comprendere veramente il testo nella sua sincronia. Si instaura così non è un rapporto di esclusione reciproca tra metodo storico-critico e lettura credente, ma un rapporto circolare che passa per il volto ecclesiale del testo, già riconosciuto nella sua canonicità non certo a partire dal sensus ecclesiae. Questa circolarità è ben riassunta da Sequeri così: «L’ispirazione scritturistica potrà essere dunque intesa come la qualità teologale della coscienza che accetta la responsabilità dell’attestazione in vista del suo compimento». L’ispirazione del testo sacro è un dono ed un compimento. È un “in principio” che attende una realizzazione attuale e tende al compimento escatologico.


R. Cheaib, in Theologhia.com 5 marzo 2024

Professeur émérite de théologie fon­damentale à la Faculté de théologie d’Italie du nord, musicien et composi­teur, exerçant des charges dans plu­sieurs instances pontificales, P. Sequeri est sans doute peu connu des lecteurs francophones, qui n’ont accès en fran­çais qu’à L’idée de la foi (2011, 2002 pour l’éd. it.) tandis que son livre majeur, Il Dio affidabile. Saggio di teo­logia fondamentale (1996, 20135), n’a pas été traduit. Outre la théologie fon­damentale, ses recherches portent sur l’anthropologie philosophique, mais aussi l’esthétique et la musicologie.

Le présent ouvrage, intitulé Inscrip­tion et révélation, vise à honorer le sens de la configuration textuelle de la Parole de Dieu, en rendant raison de la forme spécifique de vie qui en dérive. Pourquoi la révélation de Dieu s’est-elle faite écriture ? En avons-nous mesuré toutes les implications ? L’ou­vrage, né de la sollicitation de deux anciens élèves qui en ont préparé la facture, recueille des réflexions de l’A. disséminées dans divers écrits aux­quelles sont ajoutés de nouveaux déve­loppements. L’ensemble se présente comme un plaidoyer pour retrouver le goût de dialoguer avec la « langue maternelle (lingua madre) » de l’Écri­ture biblique, en recevoir la puissance générative, dans ses dimensions non seulement conceptuelle mais aussi affective et symbolique, car c’est seule­ment ainsi qu’elle atteste de la vérité de Dieu. L’enjeu n’est pas de moindre importance : comment parler du sensus fidei s’il n’y a plus de réception de la Parole de Dieu telle que bibliquement attestée ?

Les deux premières parties approfon­dissent l’identité du texte sacré, l’arti­culation entre exégèse (critique) et théologie (croyante), le sens de l’his­toire. On y rencontre les idées maî­tresses de l’A. : l’Écriture comme « acte de témoignage (testimonal) », le canon comme « révélation attestée », l’impor­tance de la « médiation » textuelle (qui met au second plan aussi bien l’événe­ment, le témoin, que l’autoréférentia­lité divine en son acte de révélation), la « matrice rituelle » (constitutive aussi bien que restitutive) du corps cano­nique des Écritures, la résistance du texte à l’herméneutique infinie de la subjectivité, le sens de l’histoire comme prophétie et sagesse (et pas seulement factualité documentable).

Il faut le reconnaître : la lecture de cet ouvrage est exigeante en raison de la conceptualité dense du langage utilisé (parfois jargonnant), d’une syntaxe éla­borée, de références multiples, parfois simplement allusives, à la tradition phi­losophique et théologique.

Les deux parties suivantes sont chris­tologiques. En effet, la consonance entre la corporéité historique de Jésus et celle organique du Livre est plus qu’une simple image : elle met en évi­dence que l’attestation de l’histoire de Jésus, lequel est l’accomplissement des Écritures, a sa composante essentielle dans l’implication divine dans l’expé­rience humaine. Du texte évangélique, l’A. offre une réflexion originale sur la forme du discours en paraboles, sur l’ironie biblique avant de conclure par un thème qui lui est cher : celui de la musicalité – celle qui est intrinsèque au texte (les premières écritures seraient des confessions de foi sous la forme d’hymnes traduisant « l’exigence immédiate de la célébration actuali­sante de l’identification confessante ») ; et celle qui, au cours des siècles, a offert une « deutérose musicale », reprise orante de la Parole de révélation dont les Psaumes sont une mise en abyme à l’intérieur du canon. Pour l’A., « le règne de Dieu prêché par Jésus dans les paraboles résiste au concept : non parce qu’il est irrationnel ou impensable mais précisément parce qu’il oriente, de la manière la plus exacte, la conceptualité et la pensée qui doivent viser à la vérité » (p. 201).


S. Dehorter, in Nouvelle Revue Théologique 4/2023, 662-663

Il libro del prof. P. Sequeri, docente emerito di teologia fondamentale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, propone una rielaborazione ed un approfondimento teologico del profilo della sacra Scrittura, alla luce delle categorie esposte nel suo: Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale. Due collaboratori del prof. Sequeri, Ezio Prato e Francesca Peruzzotti, hanno collaborato alla realizzazione del libro (cf. p. 22).

Nella Prefazione (pp. 5-17) curata da Francesca Peruzzotti, si accenna al contesto e si puntualizza la motivazione della presente pubblicazione: essa intende offrire «una rinnovata focalizzazione» dei temi classici del canone, dell’ermeneutica e dell’ispirazione della sacra Scrittura. Proprio perché la parola biblica si presenta come mediazione feconda dell’azione divina nella realtà esperienziale dell’uomo, è possibile cogliere nella lettura credente della Scrittura la matrice religiosa e culturale della domanda di fede per ogni persona che si apre all’ascolto della Parola di Dio. In tale prospettiva «la Scrittura è da intendere come la realizzazione, né esclusiva né trascurabile, della corporeità della Parola, che definisce l’interdetto a intellettualisticamente la fede» (p. 9). Il recupero del valore «generativo» della Scrittura in rapporto all’esperienza della Parola rivelata in Cristo, assume un’importanza significativa non solo per ripensare la relazione tra fede e ragione, ma anche per leggere criticamente gli aspetti principali della condizione del credente con la complessità delle sue sfide. Pertanto l’accesso alla Scrittura, sostenuto da un’adeguata riflessione teologica ed ermeneutica, schiude un’ampia gamma di possibilità e di risposte per l’uomo contemporaneo.

Nell’Introduzione (pp. 19-23) il prof. Sequeri segnala la necessità di riflettere sulla realtà della Scrittura all’interno del processo di rivelazione segnato dall’evento della Parola, che ha come centro vitale la persona e la missione di Gesù di Nazaret. È soprattutto il motivo della intelligibilità della Scrittura che deve interrogate sia l’esegeta che il teologo nel rispettivo servizio di comprensione del messaggio rivelato. L’identità “plurale” che si palesa nella realtà incarnata della Scrittura implica un impegno rinnovato ed aggiornato da parte degli esegeti e dei teologi nell’approfondimento del testo ispirato e del suo dinamismo performativo.

Il libro si articola in otto capitoli strutturate in quattro parti: I. La rivelazione attestata; II. Fenomenalità del Logos; III. Eidos Cristologico; IV. Forme e forze del testo.

Nella Parte Prima (pp. 27-80) l’autore si concentra sull’identità del testo sacro, sul ruolo svolto dall’esegesi e dalla teologia. Nel capitolo I: La teologia classica del testo (pp. 27-57) si riassumono i punti che hanno caratterizzato la riflessione teologica sul testo sacro. Anzitutto l’identità della Scrittura come «atto testimoniale» della rivelazione divina. Per la sua natura teandrica, la Scrittura è ispirata da Dio, raccolta in un “canone” e finalizzata a consegnare all’uomo la «verità per la nostra salvezza (Dei Verbum 11: “nostrae salutis causa”). È proprio questa specifica natura a suggerire come la rivelazione attesta abbia necessità di attivare un’esegesi credente nello Spirito (cf. Dei Verbum 12). Sequeri sottolinea l’importanza della comprensione canonica unitaria della rivelazione attestata, che implica la sua mediazione liturgico-rituale come momento qualificante dell’ascolto della Parola e della sua ricezione nella fede. Pertanto l’atto di lettura del libro sacro permette l’accesso del credente e della comunità al dinamismo della Parola salvifica.

Nel capitolo II: La rivelazione e la consegna (pp. 58-80) si riflette sulla relazione tra esegesi e teologia credente. La rivelazione di Dio attestata nelle Scritture implica uno stile di accoglienza e di testimonianza autentica, in grado di fare tesoro della ricchezza della Parola nel rispetto dell’oggettività dei testi ispirati. In questo senso va riscoperto il valore positivo dell’esegesi teologica, la sua relazione con il cammino di fede nel corso della storia della comunità credente. Annota Sequeri: «Il canone biblico, inteso come testo compiuto della rivelazione attestata, è il Libro della rivelazione giunta a destinazione in vista del suo universale accesso» (p. 76).

Nella Parte Seconda (pp. 81-150) il nostro autore focalizza la natura del «testo ispirato». Il capitolo III: Estetica scritturale del senso (pp. 81-115) propone un approccio tendenzialmente filosofico alla realtà del testo biblico e alla sua relazione con il lettore. La composizione del testo rappresenta un «corpo intermedio» che si pone tra l’autore e il lettore. Tale relazione, che viene approfondita sotto diversi aspetti (linguistico, storico, spirituale, ecc.), evidenzia il «differenziale canonico» della Scrittura e la peculiarità della sua ermeneutica.

Il capitolo IV: L’iscrizione della storia rivelatrice (pp. 116-150) pone l’accento sulla relazione tra testo e storia della salvezza, avendo presente le coordinate storico-culturali in cui si colloca l’evento della Scrittura ispirata con i suoi effetti. Si accenna alla relazione tra storia e rivelazione, tra esegesi storico-critica e processo di rivelazione, in cui si coglie l’intelligenza dell’agire di Dio sulla natura e nella storia mondana. Riprendendo le indicazioni conciliari (cf. Dei Verbum) Sequeri ribadisce la necessità di una comprensione unitaria e armonica del rapporto tra Scrittura, storia e verità di fede. In questo impegno si declina il compito del pensare teologico, che deve evitare ogni forma di ideologia e di dogmatizzazione nell’interpretazione dei dati scritturistici. Per questo si avverte l’urgenza di elaborare una adeguata «teologia biblica», capace di cogliere la ricchezza del messaggio teologico della rivelazione attestata nel canone della Scrittura, sia nella tradizione di Israele (Tanak) che per i libri neotestamentari. In tale contesto Sequeri segnala il guadagno derivato all’ermeneutica dall’approccio canonico (cf B. S. Childs) insieme al recupero dell’unità dei «due Testamenti» proposto negli studi di P. Beauchamp (cf. P. Beauchamp, L’uno e l’altro Testamento, Paideia, Brescia 1985; Id., L’uno e l’altro Testamento, 2. Compiere le Scritture, Glossa, Milano 2001).

Nella Parte Terza (pp.151-224) il nostro autore riflette sull’importanza della cristologia narrativa (historia Jesu) e sul suo ancoraggio a più livelli alla cristologia “speculativa”. Nel capitolo V: Historia Jesu: canone fuori-testo? (pp. 151-196) si ripercorre l’evento di Gesù di Nazaret e si mettono in evidenza i limiti e le risorse dei diversi approcci metodologici alla cristologia narrativa dei vangeli. Sequeri sottolinea in particolare due aspetti della fede testimoniale della comunità cristiana: la memoria di Gesù nella sua autentica umanità e storicità (“effettualità”) e la sua dimensione incarnata (“corporeità”: cf. Gv 1,14). Nei vangeli come nella riflessione paolina (che forse andava maggiormente sviluppata!) si intravvede primariamente la relazione esclusiva e irrepetibile tra Gesù-Figlio e Dio-Padre. Nell’identità-unicità del Figlio occorre cogliere «il senso cristologico dell’intera economia dell’alleanza» (p. 181). Tale processo di figliolanza ha conseguenze vitali per i credenti in quanto l’evento pasquale rappresenta il superamento della morte e il compimento della vita estesa all’intera umanità. Il velo della «carnalità» viene così disvelato nell’evento della risurrezione del Figlio, crocifisso e risorto, che conferma l’amore del Padre nei confronti dell’umanità.

Nel capitolo VI: Le parabole della rivelazione (pp. 197-224) si approfondisce la connotazione “eidetica” della predicazione del “regno di Dio”, riflettendo sulla natura e sulla finalità del metodo parabolico. L’impiego del linguaggio parabolico costituisce una «frontiera del vangelo» (V. Fusco) e rappresenta un importante aspetto del processo interpretativo che coinvolge gli uditori di Gesù e il lettore del testo evangelico. In definitiva, comunque si interpreti il fenomeno della parabola, Sequeri sottolinea come il funzionamento del dispositivo parabolico rivela la finalità profetica e performativa di questa singolare forma rivelativa: «La parabola svolge la sua funzione profetica anticipando la sapienza evangelica: e lo fa nei confronti dell’intera condizione umana, argomentando la verità degli affetti dal punto di vista della giustizia dell’agápē» (p. 222).

Nella Parte Quarta (pp. 225-272) il prof. Sequeri riprende la riflessione sulla funzione delle parabole e riflette sul ruolo critico dell’«ironia narrativa». Nel capitolo 7: La memoria e l’immaginazione dell’Evento (pp. 225-255) il nostro autore ritorna ad analizzare i racconti parabolici considerandoli come una «lingua materna» finalizzata a parlare al cuore dell’uomo. Essi sono anche un esempio del compito letterario e narrativo che svolge l’«ironia» in rapporto ai fatti e alle persone attestate nella Scrittura. La funzione critica dell’ironia nella sacra Scrittura conferma come la rivelazione della Parola di Dio trova una «risposta critica» nelle parole degli uomini. Per tale ragione i libri biblici sono caratterizzati da un singolare corredo letterario ed espressivo che qualifica la natura del processo rivelativo. Secondo Sequeri l’ermeneutica biblica va accolta e vissuta con tutta la sua complessità e armonia, in quanto essa rielabora gli avvenimenti e i protagonisti che appartengono alla storia della salvezza.

In questa prospettiva, il nostro autore conclude il suo itinerario ponendo in relazione la Parola e la musica nel capitolo VIII: La fenomenologia della Parola (pp. 256-272). La musicalità della Parola è un tema molto caro a Sequeri (cf. P. Sequeri, Musica e mistica. Percorsi nella storia occidentale delle pratiche estetiche e religiose, LEV, Città del Vaticano 2005) e nel nostro contesto viene applicato al macrocosmo della Scrittura, alla bellezza delle sue «melodie» e al riverbero affettivo che proviene dal «ritmo intimo del Logos». L’indole «musicale» trasuda dalle tradizioni bibliche e oltre, proseguendo lungo la storia con impareggiabili lectio in cui l’arte si combina con la fede, producendo vibrazioni emotive incancellabili. È proprio l’esperienza del «grembo estetico» presente nella Scrittura a segnare la bellezza del rivelarsi divino nella storia.

Nella Conclusione (pp. 273-290) l’autore ribadisce la necessità di «recuperare il grembo materno dell’iniziazione linguistica alla Parola di Dio attestata nel canone ispirato delle Scritture sacre» p. 275). Per realizzare questo processo vitale e generativo è necessario riscoprire la «lingua materna» insita nella Parola rivelata e nella ricchezza della sua tradizione vivente. Sequeri ribadisce il bisogno di recuperare il vocabolario e il gusto di dialogare con questa «lingua materna» che abilita ad una fraternità universale, mentre sperimentiamo in tante forme e situazioni l’esilio di Dio e della fede. L’immagine finale del «ritorno» degli esuli da Babilonia e della «ricostruzione» di Gerusalemme a partire dalla struggente lettura del rotolo della Scrittura Sacra (cf. Esdra; Neemia) conclude il percorso del libro. Seguono i Profili bibliografici (pp. 291-296) e l’Indice dei nomi (pp. 297-300).

La densità teoretica, la forza espressiva del vocabolario con la sua ricca e ricercata sintassi, il rigore teologico unitamente alla passione per le Scritture caratterizzano questa apprezzabile monografia del prof. Sequeri. Essa si pone nella scia di una serie di contributi recenti che riflettono sull’esigenza di aggiornare la riflessione intorno all’ermeneutica biblica e di approfondire ulteriormente la relazione «transdisciplinare» tra Scrittura, scienze teologiche e pensiero filosofico.


G. De Virgilio, in Gregorianum n. 3/2023, 668-671

Il 2022 è stato per il prof. Pierangelo Sequeri ‒ già preside del Pontificio istituto Giovanni Paolo II a Roma e prima preside e docente alla Facoltà Teologica di Milano ‒ occasione per la scrittura di tre volumi su argomenti che ha ritenuto importanti riprendere e ricomporre in un quadro più articolato. È il caso di L’iniziazione. Dieci lezioni su nascere e morire. Nell’ottobre scorso la Gregoriana pubblicava Celebrare – Bibbia e liturgia in dialogo, un libro scritto da Sequeri e dal prof. Renato De Zan.

E, infine, a settembre pubblicava con la Queriniana Iscrizione e rivelazione, soprattutto in questo caso per riprendere e ricomporre «l’assenza ‒ come ha scritto nella prefazione Francesca Peruzzotti ‒ di attenzione specifica per il tema della Scrittura» in Fratello Dio.

Lo stesso prof. Sequeri ha confermato indirettamente la teologa durante la presentazione del libro a Bologna il 10 maggio scorso, aggiungendo che «il libro è più di lei e del prof. Ezio Prato», i quali sono stati rispettivamente curatrice della bibliografia (assieme a E. Tizzoni) e curatore di Fratello Dio (assieme a D. Cornati).

Prefazione e introduzione

Francesca Peruzzotti ha scritto la prefazione, «Dio parla di sé in molti modi», tratteggiando il quadro articolato del pensiero di Sequeri circa i molti modi in cui Dio parla.

Chi ha letto un po’ di Sequeri in questi decenni può ritrovarsi nella prefazione della giovane teologa e riconoscersi nell’intenzione che hanno motivato lei e il prof. Prato. Da parte sua, Sequeri ha scritto nella introduzione: «Ritengo che la teologia cattolica non abbia ancora realizzato una concentrazione adeguata… sul luogo singolare che le Scritture bibliche rivestono nella fondazione e nell’elaborazione riflessiva che la coscienza credente accorda all’evento Gesù».

Le parti del libro

Il volume di 300 pagine si sviluppa in quattro parti secondo una linea che la Peruzzotti ha stabilito al termine della sua «intelligente ricognizione» di tutti gli scritti di Sequeri. Da parte sua, il teologo milanese vi è intervenuto «a dare coerenza e linearità alla ripresa di alcuni saggi già pubblicati».

Questa prima intenzione ha dato la forma definitiva alla prima e terza parte del libro. Essi contengono gli argomenti che appartengono alla teologia classica del testo e, dall’altra, alla destinazione del testo come testimonianza, e della ripresa continua come restituzione. Oltre alla teologia classica si richiamano l’affermazione pluridecennale della scuola milanese del «primato di Cristo» e la scelta della «fenomenologia di Gesù» resa pubblica nel 1998 sulla propria rivista Teologia.

La seconda intenzione riguarda interessi e contenuti più recenti del suo percorso teologico, i quali trovano corpo nella seconda e quarta parte, e la stessa conclusione. Una breve scorsa a queste due parti mette in luce l’estetica scritturale, a cominciare della «lingua materna» e «la salutare distanza» dell’ironia, in particolare delle parabole di Gesù.

Queste «forme e forze del testo» sono messi in evidenza per smobilitare l’intelligenza, suscitando nuovi processi cognitivi, e mettendo allo scoperto contraddizioni e lontananze dalla verità degli uomini. Noi lettori di oggi, come di ieri e dei primi testimoni, non abbiamo un concetto razionale di cosa sia il Regno di Dio, di chi sia e cosa faccia Dio per rivelarsi: non lo dice il concetto, ma i racconti di Gesù sì.

Forme e forza del testo

Sequeri si concentra sulle parabole nella terza e quarta parte: nella terza per argomentare la resistenza insuperabile della cosa religiosa del testo rispetto al dispositivo della soggettività credente. «C’è sempre una scrittura e quando ti perdi hai sempre la possibilità di tornare ad essa» ‒ ha chiarito nella presentazione del libro a Bologna il 10 maggio scorso. Il testo, infatti, non è una pagina del catechismo, ma illustrazione del dispositivo che racconta l’evento attestato nello scritto. Tale dispositivo, poi, racconta l’evento ‒ non rimanda semplicemente per immagini ‒ ponendosi così come occasione per accedervi (Kairos).

Nella quarta parte, le parabole sono riprese sotto l’aspetto formale con cui si formano nella coscienza vigile di Gesù: esse comunicano con la lingua materna nel contesto della lingua materna delle stesse scritture bibliche. La sua creatività narrativa è data dalla familiarità con le Scritture, come modo e occasione di ubbidire al Padre. Grazie a tale innesto, la predicazione in parabole è in grado di fronteggiare e riassumere l’intera logica della recezione umana della relazione con Dio.

Vale anche per Gesù, quanto Sequeri ha riassunto del pensiero di Beauchamp sulla deuterosi, ossia «la ripresa ‒ ri-scrittura, ma anche ri-lettura ‒ che crea valore aggiunto per l’attestazione significante della cosa del testo, proprio nell’intento di rendere aderente la restituzione testimoniale del testo». Con una precisazione: Gesù è l’evento, i lettori delle parabole sono invitati ad accedervi. Come? Tutte le donne e gli uomini possono seguire la stessa strada che Gesù ha aperto, leggere e ri-leggere la Parola, scrivere e ri-scrivere parole come esperienza di una coscienza credente.

E non solo una volta, ma ad ogni svolta, dove Gesù transita senza mai insediarsi. In questa sequenza, «che è sia linguistica sia spirituale, il processo dell’attestazione scritturale e il lavoro della coscienza credente fanno appello l’una all’altro: nell’interesse convergente di una ripresa che punta all’autenticità testimoniale della rivelazione».

Parole e Parola

I due lemmi che titolano questo paragrafo alludono la seconda alla sacra Scrittura e la prima alle parole umane, ma il legame argomentato da Sequeri ci conferma che vanno tenuti insieme, anche se si potranno sempre distinguere.

Con gli stessi due lemmi la Facoltà teologica di Milano ha tenuto, nel febbraio del 2016, un convegno di studio, appunto «Parole e Parola». Qualche mese dopo, usciva la pubblicazione del libro con i relativi interventi con la prefazione di Sequeri, ancora per poco a Milano, essendo stato nominato da papa Francesco preside del Pontificio istituto Giovanni Paolo II. Quel testo e gli argomenti trattati non sono entrati nei vari contributi di Fratello Dio, così mi ha confermato F. Peruzzotti.

Come tanti sanno, il titolo restringeva il confronto tra «teologia e letteratura», con l’auspicio scritto da Sequeri nella prefazione: «Auspichiamo un passo avanti rispetto all’impianto delle ricerche classiche sulla presenza della tematica religiosa-cristiana nella storia della letteratura». Sono passati solo sette anni e, in generale, le pubblicazioni letterarie, e in particolare la poesia, hanno subìto un tonfo editoriale, eppure tutti scrivono sulla rete.

Due ambiti meritano attenzione. Anzitutto la convergenza di alcuni docenti con alcuni esegeti della sacra Scrittura. È il caso, ad esempio, del prof. Piero Boitani, già docente alla Sapienza, che in questi anni ha perfezionato un principio che lo avvicina a Beauchamp: «La letteratura è un albero gigantesco, ma le radici sono sempre le medesime, e la ri-scrittura è il principio che ne governa la crescita». Il letterato poi ha steso la prefazione a Il grande codice. Bibbia e letteratura scritto da Northrop Frye.

Al momento, le convergenze tra «parole e Parola» riguardano alcuni esperti di Teologia Biblica. Il più noto attualmente è J-P. Sonnet, docente di sacra Scrittura alla Gregoriana, dove si dedica ai testi sacri come paradigmatici per la letteratura. È anche poeta e ha pubblicato diverse raccolte. Diverse sono anche le pubblicazioni tra cui L’alleanza della lettura. Questioni di poetica narrativa nella Bibbia. Su questi argomenti, ha consegnato in questi anni diversi contributi alla Rivista del clero italiano.

La poesia

Iscrizione e rivelazione non tratta esplicitamente di poesia, se non attraverso la «lingua materna» nell’ambito della «lingua materna» delle stesse scritture bibliche, e in particolare delle parabole, oppure, comporre poesie come «Salmi moderni – la matrice poetica della Parola».

Sequeri ha scritto diverse pagine sul linguaggio materno, e più volte ha rimandato ad altre occasioni per scriverne. «In ogni modo ‒ ha scritto ‒, la poesia sorta da lì, per quanto scaltra e raffinata si faccia, sempre nella prossimità di questo stupore del linguaggio ‒miracolosamente ‒ ci porta».

La poesia ritorna indirettamente nel discorso di Sequeri, quando, alla fine, scrive della parola che ha un ritmo, una musicalità e un proprio canone: l’armonia dei suoni crea la risonanza interiore. Certo può chiuderci compiaciuti, ma sarà ancora il grembo materno della scrittura a scuoterci e riprendere con mitezza e umiltà. Lo spirito profetico e quello dell’ironia sono il sale di questa costante presa di distanza dagli automatismi della religione: tra il sacerdote, il levita e il samaritano, chi è il prossimo? Volete andarvene anche voi?

A volte, ci si sente poveri di parole, quando nella notte appare lo sfondo della Parola, come ha da essere. Una Presenza. E come affiorano le più semplici parole della prima e della Seconda Madre ‒ la loro scuola degli affetti ‒ quando ci sente così distratti e incapaci di stare in quella Presenza, così incandescente, così impercettibile. E così assenti, noi.


G. Villa, in SettimanaNews.it 17 luglio 2023

Immanuel Kant sosteneva – del tutto seriamente, senza alcuna inflessione ironica – che il teologo cristiano sarebbe certo dell’esistenza di Dio «per il fatto che Egli ha parlato nella Bibbia». Ma che cosa comporta che Dio abbia preso per primo l’iniziativa nei riguardi dell’uomo, affidando però il suo messaggio a un’arte umana per antonomasia, ovvero la scrittura? Non avrebbe fatto meglio a comunicarci lapidariamente dall’alto quanto aveva da dire, evitandoci così le fatiche e i problemi connessi a una «traduzione/tradizione per iscritto» delle sue parole e alla definizione di un «elenco» dei testi da lui ispirati?

I libri di Sequeri: danno una scossa, nonostante

Non è propriamente un saggio di esegesi, ma appunto un tentativo di scavare il senso di tali questioni il recente volume di monsignor Pierangelo Sequeri Iscrizione e rivelazione. Il canone testuale della parola di Dio (Queriniana Editrice, a cura e con una prefazione di Francesca Peruzzotti, pp. 304, 23 euro). A Sequeri – che attualmente dirige la cattedra Gaudium et Spes presso il Pontificio istituto Giovanni Paolo II, a Roma – alcuni muovono di tanto in tanto l’osservazione che i suoi libri sarebbero «difficili» (sarà forse anche vero, nel senso che non mirano a blandire il lettore, offrendogli del «brodo caldo per l’anima». Tuttavia, per quel che vale la nostra esperienza personale, non ci è mai capitato di leggere un testo sequeriano senza riceverne una scossa, un preciso invito a pensare). 

Iscrizione e rivelazione parte da un dato apparentemente ovvio, ovvero dal ruolo irrinunciabile delle Scritture bibliche per la fede cristiana: «Come accade a tutte le questioni fondamentali – osserva però Francesca Peruzzotti nelle pagine introduttive -, questo nesso si espone al pericolo della dimenticanza o della trascuratezza: la Scrittura non ha sempre ricevuto la cura che le conviene né nelle vicende quotidiane della chiesa, né nell’elaborazione riflessa della teologia».

Occorre invece riscoprire il ruolo essenziale del riferimento alla Bibbia per un’esperienza di fede che voglia evitare gli opposti pericoli dell’«appagamento emotivo» («Credo, perché la cosa mi fa stare bene») e dell’«assolutismo normativo» («In materia di religione, le regole sono già fissate: basta rispettarle»). Richiamandosi al magistero – spesso frainteso o banalizzato – del Concilio Vaticano I (1868-1870), Sequeri sottolinea come nella costituzione Dei Filius venisse motivata la necessità che i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento siano accettati come sacri e canonici («La Chiesa li considera tali non perché, composti per opera umana, siano poi stati approvati dalla sua autorità, e neppure soltanto perché contengono senza errore la Rivelazione divina; ma perché, scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati tramessi alla Chiesa»).

Detto diversamente: proprio perché nella Bibbia è innanzitutto un Altro a parlare a noi, essa ha un ruolo anteriore e decisivo rispetto a qualunque successivo sforzo d’interpretazione, di elaborazione teologica o di definizione dogmatica («L’elemento differenziale della Scrittura sacra – commenta Pierangelo Sequeri – è proprio questo: la memoria permanente di una parola di Dio nella parola umana che deve rimanere inconfondibile rispetto alle parole che esprimono semplicemente la confessione della fede dell’uomo»).

Peraltro, gli stessi testi biblici rimandano, a ritroso, a eventi della storia della salvezza che hanno preceduto e indotto la loro redazione («L’esperienza di rivelazione non nasce come esercizio di scrittura e invenzione di testi: l’invenzione della scrittura è un passaggio cruciale, interno alla sua storia. Proprio questo consente – e impone – di indagare uno sfondo rivelativo che precede il testo e, successivamente, ne raccomanda la scrittura con una specifica funzione. Una funzione testimoniale e, al tempo stesso, non sostitutiva»).

Tra l’atto in cui Dio si rivela e l’attestazione scritta di questo evento si dà così un rapporto articolato, rapporto che contraddice sia un approccio «letteralista», sia uno «mistico» («La parola di Dio non si risolve nel testo biblico: ma senza il testo biblico si dissolve»).

La Bibbia non è un deposito di materiali grezzi da cui attingere

Queste riflessioni non hanno un carattere solo formale, astratto, senza ricadute a livello ecclesiastico e pastorale. Dal principio dell’autorità normativa non normata della Bibbia consegue, per esempio, che non la si possa considerare alla stregua di un deposito di materiali grezzi da cui la riflessione teologica e metafisica dovrebbe poi distillare – separandole dalle «scorie» – una serie di verità riguardanti Dio, i nostri doveri nei suoi confronti o la natura dell’anima umana.

Il canone biblico “sa” e “attesta” della fede e dell’incredulità, e di tutte le gradazioni intermedie; come anche del peccato e della grazia, e di tutte le loro occorrenze essenziali in rapporto alla dialettica delle esperienze significative dell’uomo. Non è necessario dunque ricondurre la sua “attestazione” a un modello elementare e lineare di registrazione dei “fatti soprannaturali” e delle “verità da credere” che fa torto alla qualità storica e vitale, dialettica e creativa delle sue “scritture”.

In particolare, nella quarta e ultima parte di Iscrizione e rivelazione Pierangelo Sequeri rivisita le parabole di Gesù, considerate nei loro tratti più «destabilizzanti», rispetto a un’ordinaria «simmetria» retributiva per cui i meriti degli esseri umani andrebbero automaticamente premiati e le loro mancanze sanzionate. L’ipotesi guida, anche in questo caso, è che l’uso delle parabole da parte di Gesù «non corrisponda semplicemente alla funzione di un discorso per immagini», che renderebbe più semplice, più fruibile la rivelazione di Dio sacrificando l’esattezza dei concetti. Al contrario, si tratta di riconoscere che noi non abbiamo alcun concetto ontologico del “regno di Dio” – dunque dell’essere e dell’agire che rivelano Dio – più preciso di quello che è messo a fuoco mediante l’immaginazione teologica delle parabole.


G. Brotti, in LaBarcaeilMare.it 15 gennaio 2023

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