La religione è intrinsecamente incline alla violenza, o è in se stessa pacifica? Se lo chiede il filosofo di Macerata Roberto Mancini nel volume La nonviolenza della fede. Un legame tra religione e violenza c’è sempre stato. In particolare la fede cristiana, in questa stagione storica, come si pone? La radice di ogni violenza, per Mancini, è nel misconoscimento dell’umanità, dell’unica famiglia di popoli, e della dignità di ogni persona. Istituzioni e media vanno spesso sotto la soglia di “sostenibilità antropologica”, cioè di qualità umana, come quando la vita è ridotta al mercato. Le religioni non sono innocenti: non sempre si impegnano a scardinare questo blocco. Ogni fede autentica (non monopolio del cristianesimo) ama l’umanità come la ama Dio.
Seguendo Maurice Bellet, Mancini dice che credere in Dio implica una fede nell’uomo (“La fede in Dio fallisce finché non include in sé la fede nell’umanità”), che fonda concretamente la convivenza ripudiando la violenza e le tendenze distruttive che possono trovarsi nella teologia e nella religione. L’immagine di Dio deve essere purificata e “spostata” dalla religione alla fede nella sua vita di amore e di pace comunicata a rinnovare l’uomo.
Mancini propone la categoria di “filialità” come fondamento della possibile comunione tra gli umani: da qui la scoperta della fraternità e sororità senza esclusioni, al di là delle identità particolari autocentrate e aggressive. L’Autore vede nella misericordia, alternativa radicale alla violenza, l’identità del Padre di Gesù: “Oltre la mente c’è il mistero, ma oltre il mistero c’è la misericordia” (Heschel). Riprendendo da Karl Barth la “umanità di Dio” delinea quella che chiama “umanità del cristianesimo”, nel quale, più che una religione, vede “un cammino di gestazione dell’umanità compiuta”.
Il riferimento all’umano non si coglie facilmente, di là da modelli determinati: l’“umano” è un concetto generativo, una “coscienza anticipante” (Ernst Bloch), un seme da coltivare, una promessa da mantenere. Più che di “natura umana” (o cattiva, nel peccato originale; o positiva, nel mito del progresso), si parla di un nucleo dinamico aperto a sviluppi diversi. Dunque, né pessimismo antropologico giudicante e disperante, né ottimismo superficiale e idealizzante. Su queste strade opposte non si incontra la dignità umana: la si coglie al di là della religione e dell’ateismo, “fratelli nemici”, posizioni conchiuse sul terreno immaginario e proiettivo. Si tratta invece di diventare noi stessi una via di compimento di umanità, disponibili all’esperienza di una fede che unisce. La fede nell’umano ci consente di nascere “fino in fondo”, impresa non privata ed estetica, ma promotrice della nascita di una comunità umanizzata. Ecco, questa fede unisce. Riconoscere la dignità umana comune a tutti è gestazione di una convivenza più giusta e ci eleva a scoprire la profondità divina del nostro essere. È una fede perché va al cuore dell’invisibile, crede nell’umanità anche se molti la tradiscono, crede in Dio non fuori e sopra ma dentro di noi e tra tutti. Si ricorda della comunione tra l’umano e il divino. È fede nella relazione in cui l’amore continuamente generativo trasfigura dall’interno, in libertà, le persone che si aprono; in cui l’apertura indefinita dell’umano è segno di una presenza che chiama e genera.
La fede nell’umano non è un ideale, ma un fermento. Se partecipiamo a un’esperienza di comunione in questa opera critica, possiamo crescere oltre lo scetticismo, quello economico (il capitalismo è insuperabile), quello politico (credulità in un capo, perché noi non possiamo cambiare le cose), quello spirituale (il male è più forte del bene). Se non diventa questa esperienza, la fede è immaginazione. La scoperta dell’umano consente l’intesa tra fedi diverse e il dialogo tra le religioni.
Il cristianesimo umano non perde la sua specificità, anzi, è ritorno a Gesù, anche se “per nessuno è così difficile il ritorno a Gesù quanto per i cristiani”. Ritorno che non è restauro confessionale, ma incontro universale e profondo con tutto l’umano. Gesù non è riducibile a una definizione dottrinale, è un compimento dell’umano che apre la strada al nostro compimento. Mi fa percepire nel fratello ciò che mi permette di uscire dalla violenza. Gesù è “disceso agli inferi”, cioè ha portato umanità viva e piena nella sorgente nera del male mortale, Thànatos, che è dentro di noi, ed è la volontà di potere come dominio sull’altro. Infatti, noi siamo morti quando, pur vivendo, aderiamo alla morte che è il potere omicida. Per questo i cristiani credono che Gesù ha vinto la morte.
La teologia, osserva Mancini, prima che disciplina interna al sistema religioso, è l’attitudine a pensare Dio, radicata nell’apertura umana a un senso dell’esistenza, ed è la ricerca di un interlocutore nel nostro anelito essenziale, quel “tu innato” (Martin Buber) che è in noi, per cui non siamo noi stessi senza l’altro, e un altro sempre ulteriore. La teologia come apertura antropologica è condizionata dalla istituzione religiosa e spesso tende di fatto a legittimarne gli aspetti rigidi, fino a forme violente. La tendenza umana a cercare sicurezza nel potere porta a immaginare Dio come potenza assoluta e la religione come ordine sacrale del mondo, realizzato in una civiltà, un impero, una economia, cioè in una violenza religiosa. Insieme a ciò le tradizioni religiose portano anche veri tratti di profezia e di umanizzazione. Allora Mancini propone di non parlare più di “religione” ma di fede. Egli vede nell’esperienza di Bonhoeffer quella “teologia senza religione che si schiude nei vangeli”, i quali sono “folgorante rivelazione di un’umanità in totale comunione con Dio”, poi travisata nel paradigma occidentale della divisione anziché della comunione universale.
La religione come invidia del potere divino prende il posto di Dio e produce la violenza della divisione gerarchica (sacerdoti, uomini, donne, creature inferiori) e del sacrificio. Mancini ha già scritto con energia su questo tema. “Dove c’è religione c’è sacrificio”, cioè violenza, perciò “dove c’è religione in qualche misura c’è violenza”. Ma il Dio che emerge dalla tradizione biblica ed è rappresentato da Gesù è amore appassionato e liberante, l’opposto di ogni violenza. L’impulso del mondo è negare questo Dio, o uccidendolo in Gesù, o sacralizzandolo nella religione potente e sacrificale. I tratti di questa religione sono la logica sacrificale, il primato dell’ortodossia, l’esclusivismo, il maschilismo, la centralità dell’obbedienza, l’aspirazione al potere politico (conservatore, centrista), l’amnesia storica e sociale, la difesa di princìpi e valori più delle persone. Una teologia della fede dialoga con ogni fede e ogni coscienza, ed è alternativa ad ogni violenza compiuta in nome di Dio.
Nel capitolo sulla filialità, l’Autore discute la dottrina del peccato originale, per la quale siamo dei “pregiudicati”, “non creature nascenti, ma esseri posti sotto il dominio della morte”. Tale critica non sfocia in un umanesimo trionfalista che sopravvaluta le nostre capacità di bene, ma evita tre cadute: il cinismo di molti credenti sul miglioramento della storia; il dualismo tra male dominante e bene rinviato all’aldilà; il disprezzo sacrale dell’umanità. Così si oscura l’idea di essere figli di Dio, nelle diverse identità. Il sentimento di indegnità tarpa lo sviluppo delle coscienze e accresce la dipendenza dal potere.
La filialità evangelica indica in ogni altro un fratello o sorella, mentre la “autonomia” tipica della modernità (che del 1789 ha dimenticato la fraternité) vede in ogni fratello o sorella un “altro”. Ma la mentalità esclusivista ha operato anche nel tracciare il confine tra cristiani e non cristiani, entro l’universale famiglia umana. La globalizzazione, poi, unifica i vertici ma impone profonda divisione nella comunità umana. Eppure, nel Novecento è cresciuta in pensieri ed esperienze la coscienza dell’amore e della pace giusta come nucleo vitale dell’umanità. Filialità non è dipendenza, ma essere amato, desiderato, “atto d’amore”. L’amore diviene adulto nella dedizione.
La fede nonviolenta, il credere in Dio che è misericordia, è la più radicale forza alternativa alla violenza. Più che nella teologia e nella liturgia, l’agire di Dio si rivela nell’agire degli esseri umani convertiti all’amore. La novità del Padre rivelato da Gesù è la fedeltà all’infedele, l’amore per chi non è amabile e non ama. La misericordia è il nucleo propulsivo anche dell’amore politico, che non elude il conflitto, ma è nemico della logica iniqua e non dell’vversario. L’amore per i nemici rinnova totalmente l’idea di politica, in una umanità senza esclusi né barriere.
La teologia della retribuzione e la credenza nell’inferno si fondano sulle minacce e le maledizioni di Gesù, ma non vedono che, anche quando minaccia, egli non porta mai morte e disperazione, come i genitori fedeli all’amore non spezzano mai la relazione col figlio degenere. Il Vangelo esce dalla trappola del giudizio su meriti e colpe: il giudizio è Cristo stesso che, mentre mette in luce le nostre contraddizioni, le abbraccia nell’azione salvifica tenace e definitiva.
In
Serenoregis.org 17 marzo 2017