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Perché l'amore di Dio ci lascia soffrire?
Gisbert Greshake

Perché l'amore di Dio ci lascia soffrire?

Prezzo di copertina: Euro 14,00 Prezzo scontato: Euro 13,30
Collana: Giornale di teologia 330
ISBN: 978-88-399-0830-8
Formato: 12,3 x 19,5 cm
Pagine: 144
Titolo originale: Warum lässt uns Gottes Liebe leiden?
© 2008, 20184

In breve

Questo libro è dedicato soprattutto a coloro che soffrono e che si interrogano sul senso della loro sofferenza. Ma chiunque segua Gesù nel cammino della fede deve cercare una risposta al perché del dolore, a fronte del credo professato in un Dio buono e onnipotente. Per scoprire che, nella croce e nella risurrezione di Gesù, il problema appare in una nuova luce.

Descrizione

Perché tutto il dolore umano? Per gli uni la sofferenza è la «rocca dell’ateismo» e la principale obiezione contro la fede in Dio. Per gli altri la sofferenza umana si può sopportare con dignità solo se Dio si fa garante che il dolore non è l’ultima parola sulla vita degli esseri umani.

«Gesù è spirato gridando: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Chiunque segua Gesù nella fede non può esimersi dall’affrontare questo interrogativo del suo Signore morente; anzi, deve cercare una risposta al perché del dolore, a fronte della fede in un Dio buono e onnipotente» (Gisbert Greshake).

Commento

Recensioni

Un libro scritto bene e che fa bene questo di Greshake.

G. Segalla, in Studia Patavina 55 (1-2008) p. 305



Un particolare colpisce il lettore del libro di Gisbert Greshake, “Perché l'amore di Dio ci lascia soffrire?” è quello relativo al giorno in cui l'autore ha firmato la prefazione e che - ecco il particolare denso di significato - è coinciso con la festa della «Esaltazione della Croce». Infatti, l'interrogativo potente e terribile riguardante la presenza del male e del dolore nel mondo, che da sempre tormenta la mente e il cuore degli uomini, non può trovare risposta se non nella passione e morte di Cristo. Ciò non significa che l'uomo possa o debba smettere di affaticarsi intorno a esso, ma sarà ben difficile che, senza un chiaro riferimento alla fede in Gesù morto e risorto, sia possibile trovare una via d'uscita dall'angosciante questione che già fece fremere la straordinaria intelligenza di Sant'Agostino. A questo riguardo non casualmente, lo stesso Greshake, noto teologo con un significativo passato di docente nelle Università di Vienna e di Friburgo, così chiarisce il senso del suo lavoro: «La seguente riflessione teologica, perciò, si sforza di conseguire un ragionamento concludente e una concatenazione stringente nell'argomentare, ma può trovare la sua dimostrazione soltanto nella prassi di fede, speranza e carità». Guardando al Signore, il cristiano inquadra l'esperienza del dolore in un contesto nuovo che fa perdere a essa l'insensatezza e l'inutilità che sembrano caratterizzarla: la sofferenza di Cristo, vissuta per e con amore, diventa il paradigma e la prefigurazione di ogni umano patire che non rimane confinato in una insignificante sterilità, ma si apre alla speranza: «Soltanto chi ama - scrive l'autore - è in grado di sopportare la sofferenza, di integrarla, di superarla... La sofferenza e il superare la sofferenza soffrendo sono quindi la via concreta dell'amore di quel Dio la cui onnipotenza non opprime la creatura, ma la colloca nell'autonomia e nella libertà per vivere l'amore». Muovendosi entro queste coordinate, Greshake, nella seconda parte del libro, dedica un'intensa riflessione alla drammatica esperienza dei limiti della vita, quella che tocca in particolare i malati cronici, i disabili, gli infermi, i moribondi. Anche in questo caso, la fede cristiana autorizza la speranza, come insegna San Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi: «Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi; portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo».

M. Schoepflin, in Avvenire del 06/09/2008



[...] Quest'antichissimo interrogativo dell'umanità sul “perché” della sofferenza, sulla sua origine, sul suo significato e sulla sua compatibilità con la fede in un Dio buono è ancora ammissibile, giusto, sensato? O a suo proposito vale piuttosto ciò che un tempo venne formulato da Voltaire con queste parole: «La questione del male è un gioco intellettuale per quelli che amano le dispute: costoro sono come prigionieri che fanno tintinnare le proprie catene?». La riflessione di Gisbert Greshake, uno dei più noti teologi tedeschi, sulla sofferenza, non crediamo che voglia “far tintinnare le catene”; non si limita neanche a sole esperienze personali, ma cerca soprattutto di prendere sul serio il fatto che Gesù, dal più profondo della sofferenza, ha gridato: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», spirando con questo grido. Da ciò deriva che chiunque segue il Cristo nella fede, non può esimersi dall'affrontare quest'interrogativo del suo Signore morente; deve cercare piuttosto, una risposta al “perché” del dolore, a fronte della fede in un Dio buono e onnipotente. L'autore, perciò, si sforza di conseguire un ragionamento concludente e una concatenazione stringente nell'argomentare, ma sa che può trovare la sua dimostrazione soltanto nella prassi di fede, speranza e carità cristiana. [...].
La speranza che emerge da quest'opera è quella di un aiuto che essa può offrire nel resistere al dolore presente nel mondo e nella propria esistenza e a vederlo, almeno in parte, in un orizzonte di senso che non sia in contraddizione con la fede nel Dio di Gesù Cristo, il quale ha dimostrato, proprio nel Figlio, che ama la sua creazione d’amore infinito. In fondo, il mistero ultimo della sofferenza, la sua radice “lancinante”, si può coniugare con quest’Amore.

L. Castiello, in Asprenas 4/2008 pp. 614-615



Il breve volume di Greshake costituisce un'ottima sintesi, sia dal punto di vista teoretico che da quello pratico-esistenziale, di come riproporre la dottrina della teodicea alla luce della rivelazione di un Dio la cui potenza consiste nell'amore.

P. Gamberini, in Rassegna di teologia 50 (3/2009), 526-527

Recensioni

Nell’arena dell’esistenza, la sofferenza non è una problema, ma una realtà. Tanto che la sofferenza è considerata «la rocca dell’ateismo» (così Goerg Büchner).

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato», sulla scia di J. Moltmann, Gisbert Greshake, nel suo libro Perché l’amore di Dio ci lascia soffrire, sostiene che chi segue Gesù non può esimersi dall’affrontare questo interrogativo del suo Signore morente; deve piuttosto cercare una riposta al perché del dolore, a fronte della fede in un Dio buono e onnipotente. E inoltre: non soltanto Gesù ha lottato per trovare un senso alla propria sofferenza, ma già nell’Antica Alleanza questo interrogativo sul perché veniva posto in continuazione con accanimento indagatore, cercando di darvi risposta nelle maniere più diverse, sino al momento in cui, alla fine, nella croce e nella risurrezione di Gesù, il problema pressoché insolubile appare in una nuova luce.

La questione della sofferenza non è estranea per il credente. Anzi, la sua fede in un Dio buono e amante della vita, rende questa domanda ancora più acuta e urgente. Davanti all’infinità dei volti della sofferenza il credente si chiede: «dov’è Dio?», certo che non può fare proprie le opzioni di Lattanzio che, citando Epicuro, formula così: «Dio o vuole cancellare il male e non può; o lo può e non lo vuole», lasciandoci così davanti a due opzioni insostenibili: o Dio è malvagio o Dio è debole.

Va riconosciuto che il dolore, anche da credenti, ci rimane incomprensibile, rimane un mistero. E giustamente, Rahner osserva che «l’incomprensibilità del dolore è un frammento dell’incomprensibilità di Dio». Ma tale associazione non consola, soprattutto chi sta soffrendo. L’incomprensibilità del dolore, però, non dovrebbe portarci né all’indifferenza verso il problema né a risposte facili che creano, a lungo termine, problemi più grandi.

Gli interrogativi che Greshake affronta sono diversi, in questa breve presentazione vorrei soffermarmi solo sulla questione del rapporto tra la sofferenza e l’onnipotenza di Dio. Riprendo la provocazione di Epicuro e prendendo per scontato che Dio è buono, ci chiediamo, perché allora non elimina il male? Forse perché è impotente?

Per rispondere, parto dialogando con un ricco testo di Kierkegaard che Greshake presenta: «Il massimo in assoluto che si può fare per una creatura è renderla libera. È appunto necessaria l’onnipotenza per fare questo. Sembra strano, dato che proprio l’onnipotenza dovrebbe rendere dipendenti. Ma se si vuole immaginare l’onnipotenza, si vedrà che proprio in essa deve esserci la determinazione a sapersi ritrarre a tal punto nell’espressione di sé che proprio per questo ciò che è sorto attraverso l’onnipotenza può essere indipendente. […] Soltanto l’onnipotenza può ritrarre se stessa mentre si dona, e questo rapporto costituisce appunto l’indipendenza di chi riceve. L’onnipotenza di Dio, quindi, è la sua bontà. La bontà, infatti, è donare in maniera totale, ma in modo che, ritirandosi gradualmente, si rende indipendente chi riceve. Ogni potere finito rende dipendenti, soltanto l’onnipotenza può rendere indipendenti, suscitare dal nulla qualcosa che sussiste in sé attraverso il fatto che l’onnipotenza ritira costantemente se stessa».

La cosa più incredibile e inconcepibile è che l’onnipotenza, e solo essa, è capace di produrre una creatura autonoma rispetto all’onnipotenza. «L’onnipotenza di Dio, perciò, non fa concorrenza alla libertà dell’essere umano, ma ne è la condizione: Dio agisce come potere liberatorio personale».

Quindi la soluzione del triangolo – male-bontà-onnipotenza – non consiste nell’esclusione dell’onnipotenza di Dio, ma nel comprenderla nel suo vero senso. «La soluzione non può essere disconoscere a Dio la sua onnipotenza, bisogna invece intendere l’onnipotenza di Dio come potenza del suo amore». L’amore non può che rendere l’altro libero perché il male esiste perché Dio ci prende sul serio. Si pone discretamente alla nostra porta e bussa.

Sebbene sia comprensibile, la suddetta spiegazione non ci esime dall’obiezione di chi chiede: ma che razza di amore è quello di chi – per amore! – starebbe a guardare Auschwitz, soltanto per rispetto della libertà dell’essere umano?

A questa obiezione, Greshake presenta una contro-obiezione: «Come sarebbe sostenibile sul serio un Dio che revoca il senso della creazione (cioè l’amore, che è possibile soltanto nella libertà) con un intervento prodigioso ‘dall’altro’ ogni volta che la libertà sta per sbagliare colpevolmente? Un simile deux ex machina è veramente concepibile o non è piuttosto del tutto assurdo?», e ancora: «Un Dio che, in virtù della sua onnipotenza e della sua bontà, impedisse la sofferenza, renderebbe impossibile l’amore (che presuppone la libertà). L’amore senza dolore sarebbe quindi come un ferro ligneo o un cerchio triangolare».

Non solo, ma Dio entra nel dolore (che permette permettendo la libertà dell’uomo). «Dio – afferma una massima rabbinica – si pone sullo stesso gradino dei cuori piegati». Questo detto fa eco a Isaia che afferma: «In luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umili» (Is 57,15).

Questa realtà della prossimità di Dio si fa presenza e vicinanza carnale in Cristo. «Il Figlio di Dio sopportò così la frattura generata dal peccato tra il sì incondizionato di Dio alla creatura e il no di risposta dell’essere umano a Dio, soffrendola nel proprio cuore e sul proprio corpo. Così la croce fu la conseguenza dei suoi sforzi e del suo impegno contro il dolore. Perciò essa “non è proprio approvazione della sofferenza, è rivolta contro di essa”». In Cristo, Dio ha pagato in prima persona.

In breve, Greshake spinge la domanda: «Perché il dolore» e «Da dove viene il dolore» verso altri lidi: «Dove porta il dolore? Dove lo conduce Dio?».


R. Cheaib, in Theologhia.com 20 novembre 2018